Galateo ovvero de' costumi/VIII

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Capitolo VIII

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VII IX
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Cap. VIII. Di quelli che sconciano ogni compagnia, e dei ritrosi e strani. Quanto sia odiosa la superbia, e come si debba schivare ogni cosa, che a superbia possa attribuirsi.

35. Sono poi certi altri che più oltre procedono che la sospezione; anzi vengono a’ fatti e alle opere sì, che con esso loro non si può durare in guisa alcuna; perciocchè eglino sempre sono l’indugio, lo sconcio e il disagio di tutta la compagnia; i quali non sono mai presti, mai sono in assetto, nè mai a lor senno adagiati: anzi quando ciascuno è per ire a tavola, e sono preste le vivande, e l’acqua data alle mani, essi chieggono che loro sia portato da scrivere o da orinare, o non hanno fatto esercizio; e dicono: — Egli è buon’ora: ben potete indugiare un poco sì: che fretta è [p. 22 modifica]questa stamane? — E tengono impacciata tutta la brigata, siccome quelli che hanno riguardo solo a se stessi e all’agio loro, e d’altrui niuna considerazione cade loro nell’animo. Oltre a ciò vogliono in ciascuna cosa essere avvantaggiati dagli altri, e coricarsi ne’ miglior letti e nelle più belle camere, e sedersi ne’ più comodi e più orrevoli luoghi, e prima degli altri essere serviti e adagiati; a’ quali niuna cosa piace giammai, se non quello che essi hanno divisato; a tutte le altre torcono il grifo, e par loro di dover essere attesi a mangiare, a cavalcare, a giucare, a sollazzare.

36. Alcuni altri sono si bizzarri e ritrosi e strani, che niuna cosa a lor modo si può fare, e sempre rispondono con mal viso, che che loro si dica; e mai non rifinano di garrire a’ fanti loro e di sgridargli; e tengono in continua tribolazione tutta la brigata: — A bell’ora mi chiamasti stamane! Guata qui, come tu nettasti bene questa scarpetta! E anco non venisti meco alla chiesa! Bestia: io non so a che io mi tenga, che io non ti rompa cotesto mostaccio. — Modi tutti sconvenevoli e dispettosi, i quali si deono fuggire come la morte; perciocchè quantunque l’uomo avesse l’animo pieno di umiltà, e tenesse questi modi, non per malizia ma per trascuraggine e per cattivo uso; nondimeno perchè egli si mostrerebbe superbo negli atti di fuo[p. 23 modifica]ri, converrebbe ch’egli fosse odiato dalle persone: imperocchè la superbia non è altro che il non istimare altrui; e, come io dissi da principio, ciascuno appetisce di essere stimato, ancora che egli nol vaglia.

37. Egli fu, non ha gran tempo, in Roma un valoroso uomo, e dotato di acutissimo ingegno e di profonda scienza, il quale ebbe nome messer Ubaldino Bandinelli. Costui solea dire, che qualora egli andava o veniva da palagio, come che le vie fossero sempre piene di nobili cortigiani e di prelati e di signori, e parimente di poveri uomini, e di molta gente mezzana e minuta; nondimeno a lui non parea d’incontrar mai persona che da più fosse, nè da meno di lui: e senza fallo pochi ne poteva vedere che quello valessero che egli valea; avendo risguardo alla virtù di lui, che fu grande fuor di misura.

38. Ma tuttavia gli uomini non si deono misurare in questi affari con sì fatto braccio; e deonsi piuttosto pesare con la stadera del mugnaio, che con la bilancia dell’orafo: ed è convenevol cosa lo esser presto di accettarli, non per quello che essi veramente vagliono, ma, come si fa delle monete, per quello che corrono. Niuna cosa è adunque da fare nel cospetto delle persone, alle quali noi desideriamo di piacere, che mostri piuttosto signoria che compagnia: anzi vuole ciascun nostro [p. 24 modifica]atto avere alcuna significazione di riverenza e di rispetto verso la compagnia nella quale siamo.

39. Per la qual cosa quello che fatto a convenevol tempo non è biasimevole, per rispetto al luogo e alle persone è ripreso: come il dir villania a’ famigliari e lo sgridargli; della qual cosa facemmo di sopra menzione; e molto più il battergli; conciossiachè ciò fare è uno imperiare ed esercitare sua giurisdizione; la qual cosa niuno suol fare dinanzi a coloro ch’egli riverisce, senza che se ne scandalezzi la brigata, e guastisene la conversazione; e maggiormente se altri ciò farà a tavola, che è luogo d’allegrezza e non di scandalo. Sicchè cortesemente fece Currado Gianfigliazzi di non multiplicare in novelle con Chichibio, per non turbare i suoi forestieri, comechè egli grave castigo avesse meritato, avendo piuttosto voluto dispiacere al suo signore che alla Brunetta: e se Currado avesse fatto ancora meno schiamazzo, che non fece, più sarebbe stato da commendare: chè già non conveniva chiamar Domeneddio, che entrasse per lui mallevadore delle sue minacce, siccome egli fece. Ma tornando alla nostra materia, dico, che non istà bene, che altri si adiri a tavola, che che si avvenga; e adirandosi, nol dee mostrare, nè del suo cruccio dee fare alcun segno, per la cagion detta [p. 25 modifica]dinanzi: e massimamente se tu arai forestieri a mangiar con esso teco; perciocchè tu gli hai chiamati a letizia ed ora gli attristi; conciossiachè, come gli agrumi, che altri mangia te veggente, allegano i denti anco a te, così il vedere che altri si cruccia, turba noi.