Galateo ovvero de' costumi/XXV
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Cap. XXV. Raccontato il fatto d’uno scultore, fa scusa l’autore di non saper praticare ciò che sa insegnare. Quindi prende occasione di confortare il suo uditore ad avvezzarsi al buon costume nell’età tenera. Spiega l’eccellenza della ragione, e la forza sua contra le inclinazioni della natura: ed epiloga brevemente il detto sin ora.
129. Secondo che racconta una molto antica cronica, egli fu già nelle parti della Morea un buono uomo scultore, il quale per la sua chiara fama, siccome io credo, fu chiamato per soprannome maestro chiarissimo. Costui, essendo già di anni pieno, distese certo suo trattato, e in quello raccolse tutti gli ammaestramenti dell’arte sua; siccome colui che ottimamente gli sapea; dimostrando come misurar si dovessero le membra umane, si ciascuno da sè, sì l’uno per rispetto all’altro, acciocchè convenevolmente fossero infra sè rispondenti: il qual suo volume egli chiamò il Regolo, volendo significare, che secondo quello si dovessero dirizzare e regolare le statue, che per lo innanzi si farebbono per gli altri maestri come le travi e le pietre e le mura si misurano con esso il regolo: ma conciossiachè il dire è molto più agevol cosa che il fare e l’operare; e oltre a ciò, la maggior parte degli uomini, massimamente di noi laici e idioti, abbia sempre i sentimenti più presti che lo ’ntelletto; e conseguentemente meglio apprendiamo le cose singolari e gli esempi, che le generali e i sillogismi (la qual parola dee voler dire in più aperto volgare le ragioni), perciò avendo il sopraddetto valentuomo risguardo alla natura degli artefici, male atta agli ammaestramenti generali; e per mostrare anco più chiaramente la sua eccellenza, provvedutosi di un fine marmo, con lunga fatica ne formò una statua così regolata in ogni suo membro, e in ciascuna sua parte, come gli ammaestramenti del suo trattato divisavano: e come il libro avea nominato, così nominò la statua, pur Regolo chiamandola.
130. Ora fosse piacer di Dio, che a me venisse fatto almeno in parte l’una sola delle due cose che il sopradetto nobile scultore e maestro seppe fare perfettamente; cioè di raccozzare in questo volume quasi le debite misure dell’arte, della quale io tratto: perciocchè l’altra, di fare il secondo Regolo, cioè di tenere e osservare ne’ miei costumi le sopraddette misure, componendone quasi visibile esempio e materiale statua, non posso io guari oggimai fare: conciossiachè nelle cose appartenenti alle maniere e costumi degli uomini non basti aver la scienza e la regola, ma convenga, oltre a ciò, per metterle ad effetto, aver eziandio l’uso; il quale non si può acquistare in un momento, nè in brieve spazio di tempo, ma conviensi fare in molti e molti anni; e a me ne avanzano, come tu vedi, oggimai pochi: ma non per tanto non dei tu prestare meno di fede a questi ammaestramenti; chè bene può l’uomo insegnare ad altri quella via per la quale camminando egli stesso errò; anzi per avventura coloro che si smarrirono, hanno meglio ritenuto nella memoria i fallaci sentieri e dubbiosi, che chi si tenne pure per la diritta.
131. E se nella mia fanciullezza, quando gli animi sono teneri e arrendevoli, coloro a’ quali caleva di me, avessero saputo piegare i miei costumi, forse alquanto naturalmente duri e rozzi, e ammollirli e polirli, io sarei per avventura tale divenuto, quale io ora procuro di render te, il quale mi dei essere, non meno che figliuol caro.
132. Chè quantunque le forze della natura sieno grandi, nondimeno ella pure è assai spesso vinta e corretta dalla usanza: ma vuolsi tosto incominciare a farsele incontro, e a rintuzzarla prima che ella prenda soverchio potere e baldanza; ma le più persone nol fanno; anzi dietro all’appetito sviate, e senza contrasto seguendolo dovunque esso le lorca, credono d’ubbidire alla natura; quasi la ragione non sia negli uomini natural cosa: anzi ha ella, siccome donna e maestra, potere di mutar le corrotte usanze, e di sovvenire e di sollevare la natura, ove che ella inchini o caggia alcuna volta: ma noi non l’ascoltiamo per lo più, e così per lo più siamo simili a coloro a chi Dio non la diede, cioè alle bestie; nelle quali nondimeno adopera pure alcuna cosa, non la loro ragione, che niuna ne hanno per se medesime, ma la nostra; come tu puoi vedere che i cavalli fanno, che molte volte, anzi sempre, sarebbon per natura salvatichi; e il loro maestro gli rende mansueti, e oltre a ciò quasi dotti e costumali; perciocchè molti ne anderebbono con duro trotto, e egli insegna loro d’andare con soave passo; e di stare e di correre e di girare e di saltare, insegna egli similmente a molti: e essi l’apprendono come tu sai ch’e’ fanno.
133. Ora se il cavallo, il cane, gli uccelli e molti altri animali ancora più fieri di questi, si sottomettono all’altrui ragione, e ubbidisconla; e imparano quello che la loro natura non sapea, anzi repugnava, e divengono quasi virtuosi e prudenti quanto la loro condizione sostiene, non per natura, ma per costume: quanto si dee credere, che noi diverremmo migliori per gli ammaestramenti della nostra ragione medesima, se noi le dessimo orecchie?
134. Ma i sensi amano e appetiscono il diletto presente, quale egli si sia e la noia hanno in odio e indugianla; e perciò schifano anco la ragione, e par loro amara; conciossiachè ella apparecchi loro innanzi non il piacere, molte volte nocivo, ma il bene sempre faticoso, e di amaro sapore al gusto ancora corrotto; perciocchè mentre noi viviamo secondo il senso, sì siamo noi simili al poverello infermo, cui ogni cibo, quantunque dilicato e soave, pare agro o salso, e duolsi della servente, o del cuoco, che niuna colpa hanno di ciò, imperocchè egli sente pure la sua propria amaritudine, in che egli ha la lingua rinvolta, con la quale si gusta, e non quella del cibo: così la ragione, che per sè è dolce, pare amara a noi per lo nostro sapore, e non per quello di lei; e perciò, siccome teneri e vezzosi, rifiutiamo di assaggiarla, e ricopriamo la nostra viltà col dire, che la natura non ha sprone o freno che la possa nè spignere, nè ritenere: e certo se i buoi, o gli asini, o forse i porci favellassero, io credo che non potrebbon profferire gran fatto più sconcia nè più sconvenevole sentenza di questa.
135. Noi ci saremmo pur fanciulli, e negli anni maturi e nella ultima vecchiezza; e così vaneggeremmo canuti, come noi facciamo bambini, se non fosse la ragione, che insieme con l’età cresce in noi, e cresciuta, ne rende quasi di bestie uomini; sicchè ella ha pure sopra i sensi e sopra l’appetito forza e potere: ed è nostra cattività e non suo difetto, se noi trasandiamo nella vita e ne’ costumi.
136. Non è adunque vero, che incontro alla natura non abbia freno, nè maestro; anzi ve ne ha due, che l’uno è il costume, e l’altro è la ragione: ma, come io t’ho detto poco di sopra, ella non può di scostumato far costumato senza la usanza; la quale è quasi parto e portato del tempo.
137. Per la qual cosa si vuole tosto incominciare ad ascoltarla; non solamente perchè così ha l’uomo più lungo spazio di avvezzarsi ad essere quale ella insegna, e a divenire suo domestico, e ad essere dei suoi; ma ancora perocchè la tenera età, siccome pura, più agevolmente si tigne di ogni colore; e anco perchè quelle cose, alle quali altri si avvezza prima, sogliono sempre piacer più. E per questa cagione si dice, che Diodato, sommo maestro di profferir le commedie, volle essere tuttavia il primo a profferire egli la sua, comechè degli altri che dovessero dire innanzi a lui, non fosse da far molta stima; ma non volea, che la voce sua trovasse le orecchie altrui avvezze ad altro suono, quantunque verso di sè peggior del suo.
138. Poichè io non posso accordare l’opera con le parole, per quelle cagioni che io ti ho dette, come il maestro chiarissimo fece, il quale seppe così fare, come insegnare; assai mi fia l’aver detto in qualche parte quello che si dee fare; poichè in nessuna parte non vaglio a farlo io: ma perciocchè in vedendo il buio, si conosce quale è la luce, e in udendo il silenzio, sì s’impara che sia il suono; sì potrai tu mirando le mie poco aggradevoli e quasi oscure maniere, scorgere quale sia la luce de’ piacevoli e laudevoli costumi.
139. Al trattamento de’ quali, che tosto oggimai arà suo fine, ritornando; diciamo, che i modi piacevoli sono quelli che porgono diletto, o almeno non recano noia ad alcun de’ sentimenti, nè all’appetito, nè alla immaginazione di coloro co’ quali noi usiamo: e di questi abbiamo noi favellato fin ad ora.