Giovani/La casa venduta
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La casa venduta.
Io sapevo che quei tre venivano a trovarmi perchè vendevo la mia casa. Ma, nonostante, fui contento di sentire, dalla mia stanza, che domandavano di me. La serva non voleva farli entrare, voleva dire che non c’ero; ma io aprii la porta; e li salutai con un brivido nella voce e in tutta la persona. Essi mi risposero ridendo, strizzandosi un occhio; divertendosi della mia sciocchezza. Forse, credevano che non me ne accorgessi nè meno: in ogni modo, non se ne curavano. Lo capivo bene. Ma io non intendevo di cambiarmi d’animo. Dissi subito, fregandomi le mani: — Sono venuti per vedere la casa? Hanno fatto bene.
Li condussi prima, a girare l’appartamento che abitavo io: ch’era il più piccolo. Essi guardavano tutto; si fermavano perfino davanti a un mattone smosso. Uno, il signor Achille, che aveva il bastone, batteva su i muri, per sentire quanto erano grossi. Prendevano in mano gli oggetti che erano sopra i miei mobili, toccavano le tende; un altro, il signor Leandro, s’affacciò a una finestra per sputare. Poi andammo negli altri appartamenti; dove erano i miei pigionali, che m’accoglievano con segni di meraviglia ostile. Ma, poi, perchè io ero anche compiacente da fingere di non ascoltare, dicevano male di me con i tre compratori, si mettevano già d’accordo per quando uno di loro sarebbe diventato padrone. Nessuno mi rispettava; mi lasciavano passare dietro a tutti, stavano a parlare quando volevano. Ed io guardavo, forse per l’ultima volta, le pareti della mia casa. Poi, non guardavo nè meno più: entravo ed escivo come se non sapessi quello che facevo e perchè mi trovavo lì.
Quando risalimmo nel mio appartamento, mi disse il terzo che di soprannome si chiamava Piombo:
— Noi abbiamo già perso troppo tempo. Ci dica lei quanto vuole, signor Torquato.
Io volevo spicciarmi, non volevo nè meno farmi consigliare da qualcuno. Avrei potuto chiedere diecimila lire, e ne chiesi soltanto ottomila. Ebbi paura che fosse troppo, e che se n’andrebbero senza combinare. Allora il signor Achille mi rimproverò severamente:
— Ma a chi la vuole vendere? Qui siamo in tre.
Io risposi:
— Credevo che la volessero comprare tutti e tre insieme.
Piombo rispose:
— Io, invece, non gliene darei nè meno tremila.
Ero confuso, e m’arrischiai a dire:
— Non basterebbero per l’ipoteca, che è di settemila lire. Ne ho chieste ottomila, perchè almeno mille restino a me. — E, sorridendo, arrossii.
— E di che ne vuol fare lei di mille lire?
— Io.... non mi resta altro. Qualche mese mi basteranno.
— Un mese più o uno meno che conta?
— È vero. — Io risposi.
— Ma tutti e tre insieme non si può contrattare.
— È quel che penso anch’io.
— Allora, lei doveva star zitto.
Ma il signor Leandro, propose:
— Gliene dò settemila, quante ce ne vogliono per l’ipoteca.
— E a me?
— Non mi riguarda.
Sentii una gran simpatia verso di lui. Ma gli altri due finsero di essere scontenti: perchè avevo già capito che il compratore era uno solo. Gli altri due dovevano soltanto fingere di comprare, offrendo meno di lui. Avevo capito, ma non me n’importava. Anzi, mi offesi che avessero ricorso a quel mezzo come se io da me stesso non fossi stato abbastanza onesto da chiedere quel che bisognava soltanto per l’ipoteca. Perchè io non volevo aver niente. Io volevo restare senza niente.
Il vero compratore, il signor Leandro, era un negoziante non so dì che; forse di grano. Il signor Achille era un biondino, e Piombo un vecchio con i capelli bianchi. Mentre si discorreva così, dissi alla serva, Tecla, che facesse il caffè per loro e per me. Quelli non ci badarono nè meno. E il vero compratore mi disse con impazienza:
— Pochi discorsi: le piace o no? Il caffè lo prendiamo fuori, con i nostri denari.
Io risposi:
— Ma ho detto che lo facesse perchè credevo che gradissero una mia gentilezza. Ho voluto accoglierli come meglio posso.
— Non importa, non importa!
Allora, il vecchio si mise a dirmi:
— Invece del caffè, poteva darmi il tempo di fare l’offerta. Ma io più di seimila lire non gliele davo.
Il biondino scosse la testa, quasi per compatirli ambedue che fossero così lesti a concedermi tutta quella somma. Pareva che io li avessi messi in mezzo, e mi trovavo così imbarazzato e umiliato che avrei voluto regalare la casa; se non ci fosse stata l’ipoteca da togliere. Mi vergognavo dell’ipoteca, perchè appunto non potevo essere libero a modo mio. Il signor Leandro riprese:
— Se sta bene come ho ormai detto, benchè ne sia più che pentito, venga oggi dal mio notaio; dove si stenderà il contratto.
Credendo che facesse caso alla mia delicatezza, proposi:
— Se crede, posso venire magari prima di mezzogiorno.
Ma egli se ne offese:
— Ho da fare altre cose, molto più serie di queste!
Allora, perchè non mi parlasse più così bruscamente, risposi:
— Mi scusi perchè non lo sapevo.
— Facciamo meno chiacchiere: alle due, non più tardi, si faccia trovare dal mio notaio.
Io ero vergognoso di non sapere il nome del notaio, e osai chiederlo a lui. Mi disse:
— Il notaio Bianchi.... Lo sa dove sta?
— Lo domanderò, per non sbagliare.
Intanto Tecla aveva portato il caffè. Ma siccome non aveva nessun sapore ed era troppo bollito, io non sapevo più che parole inventare:
avevo paura che lo trovassero cattivo.
Il signor Achille, il biondino, disse:
— Ora che ha voluto farci prendere anche il caffè, non dà la senseria a me e a lui? — E accennò, con la punta del bastone, Piombino. Io chiesi, come rientrando in me:
— La senseria?
— Certo! Crede che siamo venuti per fare una passeggiata?
— Ma io.... non ho un soldo!
Non sapevo se mi avrebbero perdonato. E infatti il signor Achille alzò il bastone come per darmelo su la testa:
— E allora chi ci pensa a noi? — E mi afferrò per un braccio. Io volevo dire che se la facessero dare dal compratore, ma avevo paura che Piombo mi rispondesse troppo male. Volsi gli occhi attorno; e dissi pallido di commozione:
— Se credono, potrò regalare questa mobilia...
— C’è soltanto questa?
Risposi lesto, perchè fosse più amabile:
— C’è di là, il letto. Poi le cazzeruole di rame, in cucina.
— Sono sempre adoprabili?
— Sono sempre buone. — E chiamai la serva perchè ne portasse alcune, a fargliele vedere.
Piombo, il vecchio, disse:
— Credevo che avremmo fatto un affare meno magro! — E mi dette un’occhiata di compatimento:
A me si stringeva il cuore; ma che potevo dare ancora? Cercai, con gli occhi, perfino sul soffitto: non c’era proprio più niente.
Bevvero il caffè e mi finirono lo zucchero, mangiandolo a pezzetti. Io, invece, non avevo nè meno empito la tazza; per far vedere che il caffè l’avevo fatto fare soltanto per loro. Ci tenevo che ne fossero certi! Ma non mi fecero nè meno un complimento; e Piombo disse:
— Le tazze ce le mette nella senseria, signor Torquato?
Il signor Achille gli assestò un colpo sul collo:
— E a chi le deve dare?
Allora perchè il signor Achille si rassicurasse, dissi:
— Io non le adopero più.
Il compratore si puliva il naso con le dita, pensando già ai suoi progetti di come poteva utilizzare la casa; e perciò mi chiese:
— Lei quando me le lascia libere queste stanze?
Io avevo pensato di trattenermi ancora qualche giorno; ma siccome egli me le chiedeva subito, risposi:
— Oggi stesso.... dopo il contratto.
— Va bene, va bene!
— Mi dispiace di non potergliele lasciare magari prima.
— Poco male!
Ma, a questo punto, cominciai a sentire come se mi fosse strappato il cuore. Se ne accorsero subito, e il compratore mi chiese con una voce che minacciava:
— S’è pentito, forse?
Io feci uno sforzo, e risposi:
— No, no! Tutt’altro! Pensavo ad un’altra, cosa.
— Non ci mancava che se ne fosse pentito! Siamo uomini, non mica ragazzi! Le sarebbe messo poco conto, però: perchè questi due, all’evidenza, potrebbero anche fare da testimoni di quel che abbiamo combinato.
Io dissi:
— Le assicuro che.... non ci pensavo nè meno a questo!
— Ormai, se Dio vuole, cosa fatta capo ha.
Andò a una parete e disse:
— Domani stesso ci mando il muratore perchè ripulisca tutte le stanze e rinforzi gli architravi dove ce ne sarà bisogno. Lo farò salire anche sul tetto perchè il pigionale dell’ultimo piano mi ha detto che, da una fessura, quando piove gli sgocciola l’acqua sul pavimento.
— È vero: c’è una tegola rotta. Non l’ho fatta cambiare io.... perchè non volevo spendere.
— Poi farò scialbare anche la facciata, e verniciare le persiane. Mi ci vorrà la spesa di un altro migliaio di lire. Le pare poco?
Io ammiravo la sua possibilità di fare tutte quelle cose e dissi:
— Vedrà che bella casa diventa!
— O che credeva che la lasciassi deperire come ha fatto lei?
Mi parlava così senza nessun riguardo, con un tono come se io gli avessi fatto qualche cattiva azione. Non mi lasciava nè meno pensare, quantunque cercassi tutti i modi di cavargli di bocca una parola con lo stesso sentimento che avevo io. Non so che avrei fatto perchè non mi parlasse a quel modo! Ma egli se la pigliava di tutto con me, ed io n’ero molto addolorato; e non mi preoccupavo d’altro. Allora dissi:
— Lascio attaccate anche le fotografie della mia famiglia.... perchè non so dove portarle...
— Quelle le può buttar via.
— Le dànno noia?
— O non glielo ho detto che dovrò ripulire tutto?
Allora si fece dare il bastone dal signor Achille e ne buttò giù quasi una fila: quelle che erano senza cornice. Io avrei voluto raccattarle, ma pensai di aspettare che se ne fossero andati. Volevo, nondimeno, far loro sapere che erano proprio quelle di mia madre e della mia sorella morte. Forse avrebbero capito il mio sentimento. Ma non mi arrischiavo, giacché il signor Leandro, ormai padrone, le aveva buttate giù a quel modo. Non volevo fare una cosa che non ero sicuro se facesse piacere. Allora, siccome era restata, un poco più alto, una fotografia di mio padre, dissi:
— Butti giù anche quella!
Ma egli non pensava a questo sciocchezze, e alzò una spalla. Prese in mano invece un vecchio vaso di fiori, che io avevo sempre tenuto: era un ricordo della mia sorella. Ma, accortosi che la polvere gli aveva insudiciato le dita, disse:
— Ho fatto male a toccarlo.
Io gli chiesi:
— Si vuole lavare?
Ma il signor Leandro si servì del suo fazzoletto, benché gli dispiacesse di sporcarlo. Ora ero tutto impaurito che per la sua curiosità gli potesse accadere un’altra cosa simile. E perciò dissi:
— Se crede possiamo scendere.
Ma gli altri due domandarono:
— C’è caso che la sua serva si porti via qualche cosa? Badi che lei è ora responsabile di tutta questa roba, che è già nostra.
Io risposi mettendomi una mano sul petto:
— Giuro che non mancherà nè meno una briccica!
— Del resto, per essere più sicuri, ci può dare subito le chiavi. Così la serva si fa escire e noi chiudiamo.
— Giacchè hanno sospetto di me, si fa come dicono. Tecla! Esciamo insieme.
La serva, una vecchia vedova, disse:
— E il fagotto dei miei cenci quando me lo dà il tempo di farlo?
Rispose il compratore:
— Tornerai stasera: t’aprirò io.
— Ma ho da avere anche il salario di questo mese!
Tutti e tre si misero a ridere, e io mi sentii così imbarazzato che non sapevo quel che dire.
— Ne parleremo fuori.
Disse il signor Achille:
— Sarebbe curiosa che per la serva lei non potesse vendere la casa!
Io risposi:
— Non capisce niente, e non ha nessuna educazione. Ma escirà con me: ci penso io a farla obbedire.
Poi escimmo tutti e cinque insieme. Tecla fu l’ultima, e chiuse la porta.
M’era rimasto tanto da andare a pranzo, e alle due fui puntualissimo dal notaio. Anzi arrivai prima degli altri. Firmai il contratto scritto in carta bollata; e feci la firma più bella che potessi; benchè mi tremasse la mano. Io cercavo di capire se erano contenti di me e se avessi detto qualche cosa che potesse sembrare contrario a come volevo mostrarmi. Aspettavo che mi dicessero se volevano altro da me. Il notaio disse:
— È fatto tutto!
E mise il polverino rosso su la carta bollata. Il signor Leandro mi mandò via, dicendo:
— Può andarsene, signor Torquato!
Io salutai sempre con rispetto, ma nessuno mi rispose. E non ero ancora giunto alla porta, che già parlavano per conto loro.
Scesi le scale del notaio, come se mi fossi tolto un peso d’addosso. Poi non ricordo più quel che feci e dove passai il resto della giornata. Per la sera non avevo nè da mangiare nè da dormire; e mi sentivo affranto. Ma facevo di tutto per resistere. Quando fu buio, cominciò a piovere dirottamente. Io, allora, andai a ripararmi sotto le grondaie della mia casa venduta. Ero tanto triste; ma avrei voluto essere contento, almeno come la mattina, perchè a quell’ora sapevo che i miei pigionali cenavano, e quelli del quartiere di mezzo avevano l’abitudine di suonare il pianoforte: sempre qualche polca nuova.