Gli orrori della Siberia/Capitolo XXVI – Il capitano Baunje

Da Wikisource.
Capitolo XXVI – Il capitano Baunje

../Capitolo XXV – I forzati siberiani ../Capitolo XXVII – L’incendio IncludiIntestazione 7 gennaio 2017 75% Da definire

Capitolo XXVI – Il capitano Baunje
Capitolo XXV – I forzati siberiani Capitolo XXVII – L’incendio

Capitolo XXVI – Il capitano Baunje


Mezz’ora dopo quella corsa sfrenata, Maria Federowna ed i suoi due compagni si trovavano in una stanza d’un piccolo albergo di Catuisk, guardati a vista da quattro sentinelle, due collocate sulla scala interna ed altre due dinanzi alla casetta.

Dopo la loro resa, il capitano aveva ordinato ad un sergente di condurre i prigionieri in quel piccolo albergo, di mettere delle sentinelle onde impedire qualsiasi tentativo di fuga, quindi si era allontanato verso la colonna dei forzati, senza aver rivolta nessuna parola alla giovane ed ai suoi compagni di sventura.

Maria e Dimitri avevano interrogato più volte le sentinelle che vegliavano sulla scala interna, per sapere dove sarebbero stati condotti, ma non avevano ottenuta alcuna risposta. Probabilmente quei soldati non ne sapevano più dei prigionieri.

– Aspettiamo il capitano, – aveva detto la giovane a Dimitri, il quale girava e rigirava per la stanza come una belva in gabbia. – Vedremo quali intenzioni avrà quell’uomo verso di noi.

– Ci condurrà a Irkutsk, – disse il polacco facendo un gesto di furore. – Ormai non potremo più sfuggire alle zanne di quegli orsi siberiani.

– E quando saremo a Irkutsk, cosa vuoi che facciano di noi?... Non siamo mai stati nichilisti, non abbiamo congiurato contro l’imperatore quindi ci lasceranno liberi.

– Eh!... Non fatevi delle illusioni, padrona. Io non mi stupirei se ci condannassero alle miniere come sospetti di nichilismo. E poi, avete dimenticata l’avventura della tappa?...

– Eravamo nel nostro diritto di sbarazzarci di quei cosacchi noiosi che volevano farci perdere del tempo. D’altronde non abbiamo fatto che ubriacarli.

– E poi fuggire, padrona, – disse Dimitri, sorridendo. – Orsù, non scoraggiamoci; se ci mandano alle miniere, tanto meglio. Chissà, forse laggiù troveremo il colonnello.

– Taci, Dimitri! – esclamò la giovane con voce commossa. – Taci!...

In quel momento si udì sulla scala il tintinnio d’un paio di speroni ed un passo che saliva lento e misurato.

– Il capitano!... – esclamò il polacco.

– Ah!... Viene!... – mormorò Maria. – Finalmente sapremo la nostra sorte.

Si sedette accanto alla stufa che ardeva in un angolo della stanza, si accomodò alla meglio le vesti, si ravviò colle mani i suoi lunghi e splendidi capelli, ed attese, colla fronte aggrottata e gli sguardi sfavillanti, che il capitano entrasse.

Un istante dopo la porta si apriva ed il comandante della colonna di forzati entrava, arrestandosi sulla soglia colla sinistra sulla guardia della sciabola.

Quell’uomo doveva aver già varcata da qualche tempo la quarantina; era però ancora così robusto da sfidare un giovane di venticinque anni.

La sua corporatura era quasi gigantesca, con certe braccia e certe spalle che dovevano sviluppare una forza poco meno che erculea.

Il suo volto coperto in gran parte da una barba bionda un po’ brizzolata, aveva un non so che di melanconico, specialmente con quei suoi occhi d’un azzurro profondo e quella fronte che pareva costantemente pensierosa.

Anche a prima vista si comprendeva che non apparteneva alla razza cosacca, bensì a quella nordica, più pura e più bella, forse alla finlandese.

Egli stette alcuni istanti immobile, guardando la giovane che si era prontamente rizzata, pronta a far fronte alla tempesta, poi fece due passi innanzi, si sbarazzò del pesante cappotto, bianco di neve, che teneva indosso, ed indicando una sedia che si trovava dinanzi ad un tavolo, disse, con fredda cortesia:

– Accomodatevi, signora.

Maria Federowna obbedì, inchinandosi leggermente, poi guardandolo fisso e corrugando la sua bella fronte, disse con una certa stizza:

– Spero, signore, che ora mi direte per quale motivo sono stata inseguita dai vostri cosacchi e poi arrestata. Io, signor capitano, non ho avuto mai nulla che fare colla giustizia e mi stupisco come qui si trattino così malamente le donne straniere che viaggiano per iscopi scientifici e si arrestino dopo d’averle minacciate di passarle per le armi.

– Continuate, signora, – disse il capitano, con un legger tono ironico.

– Non ho più nulla da dire, signore, – rispose Maria.

– Eppure avevate qualche cosa ancora da farmi sapere.

– E quale cosa?...

– Che voi siete una francese, che siete stata incaricata dalla Società Geografica di Parigi di recarvi fra i tongusi e che vi chiamate... Mary Vaupreaux, se non m’inganno.

– Chi vi ha detto questo? – chiese la giovane con stupore, mentre un rapido pallore copriva le sue gote.

– Chi?... Diamine, voi avete adunque dimenticato i cosacchi della tappa? – disse il capitano, con un sorriso.

– Ah!... Voi sapete...

– Tutto, mia bella ragazza.

– Allora siete stato voi a organizzare l’inseguimento.

– Ed anche a strappare quel povero maresciallo ai lupi che lo divoravano vivo.

– Ah!... Ebbene: cosa pretendete fare di me?... Parlate, signore!... – disse la giovane alzandosi e guardandolo fieramente.

Invece di rispondere il capitano si era avvicinato rapidamente alla giovane e si era messo a fissarla con due occhi ardenti come se cercasse, sui tratti di quel viso adorabile, qualche lontano ricordo.

– Cosa avete, signore? – chiese Maria, stupita.

Il capitano si scosse al suono di quella voce, poi passandosi una mano sulla fronte, disse con voce lenta e commossa:

– No... non posso ingannarmi... il vostro volto me ne ricorda un altro e...

– Cosa dite, signore? – chiese la giovane che cadeva di stupore in stupore.

– Orsù, finite la commedia, – disse il capitano, avvicinandosi alla prigioniera e mettendole una mano su una spalla. – Voi non siete né francese, né russa...

Maria Federowna fece un gesto come per negare quell’affermazione, ma il capitano prendendole la mano quasi di volo, continuò:

– È inutile che cerchiate di negare, mia brava fanciulla. Voi avete un accento che vi ha tradita.

– Volete dire? – chiese Maria, aggrottando la fronte.

– Che voi siete polacca al pari di me.

Questa volta fu la prigioniera che guardò il capitano con stupore. Un rapido lampo le balenò entro gli umidi occhi.

– Voi siete polacco!... – esclamò. – Allora è inutile che io mi ostini a ingannarvi. Fra compatrioti si deve essere leali.

– Mi direte tutto?...

– Sì, però voglio chiedervi una cosa prima di arrendermi senza difesa.

– Parlate.

– Il vostro cuore palpita ancora per la vecchia patria, o lo avete dato tutto alla Russia, agli oppressori?...

– Per la vecchia Polonia, – disse il capitano, mentre sul suo volto passava una rapida, ma viva commozione.

– Non cercherete d’ingannarmi?

– Sul mio onore di soldato e sulla Santa Vergine di Varsavia.

– Grazie, capitano, però...

– Vi comprendo. Voi vorreste sapere come io, polacco e patriota, mi trovi qui, conduttore di forzati fra i quali si trovano pure tanti disgraziati polacchi. È un mio segreto: rispettatelo, vi prego.

– Lo rispetto, capitano. Ora parlate, interrogatemi se lo credete.

– Siate franca, signora, dove vi recavate?

– Ve lo dissi già, a Irkutsk.

– Ma il motivo? Deve trattarsi d’una cosa molto seria per attraversare la Siberia in pieno inverno.

– Molto grave, capitano, – diss’ella guardandolo fisso, come se avesse voluto leggergli negli occhi i pensieri più reconditi.

– Si tratta forse di qualche esiliato?

– Da che cosa lo arguite?

– Dal vostro modo di viaggiare e dalla mancanza della carta imperiale.

– Può darsi.

– Voi allora avete uno scopo; favorire la fuga a qualche esiliato, a qualche compatriota forse. Io ammiro il vostro coraggio, signora, ve lo giuro.

– Ebbene, sì, – disse la giovane dopo una breve esitazione. – Ho attraversata la Siberia per salvare un uomo condannato a vita nelle miniere di Vercholensk.

– Il vostro fidanzato forse?

– No, signore, mio fratello, – diss’ella con voce soffocata.

– Un esiliato politico?

– Ed un prode soldato, signore.

– Un nichilista forse?

– Accusato di nichilismo, ma non nichilista.

– Da quanto tempo si trova nelle miniere?

– Da pochi mesi soltanto.

– Forse allora io l’ho conosciuto, avendo già condotto a Irkutsk due colonne di forzati. Il suo nome, signora.

– Il colonnello Sergio Wassiloff.

– Potenza di Dio!... esclamò il capitano, balzando in piedi. – Lui!...

– Lo avete conosciuto? – chiese la giovane con viva emozione, mentre due lagrime, due perle, le cadevano sulle gote.

– Se l’ho conosciuto!... Ma è l’uomo che mi ha salvato la vita sotto le mura di Plewna, capite, signora, ed è l’uomo che io ho giurato di salvare.

– Ah!... signore!... – esclamò la giovane cadendo in ginocchio. – Salviamolo.

– Silenzio, signora!... Le pareti possono avere orecchi.

Il capitano si alzò, andò ad ascoltare alla porta, poi l’aprì per accertarsi che nessuno ascoltava, quindi ritornò verso Maria Federowna e la rialzò, facendole cenno di accomodarsi sulla sedia.

– Io sono il capitano Wladimiro Baunje, – disse, – ed ho condotto vostro fratello a Irkutsk.

– Voi lo avete veduto? – esclamò la giovane, con gioia.

– Sì ed ho tutto fatto per rendergli meno dura la tremenda marcia attraverso la Siberia.

– Era triste?... Oh! parlatemi di lui!

– No, signora. Il colonnello è troppo energico per lasciarsi abbattere dal destino.

– Ed ora si trova nelle miniere di Vercholensk?

– A Vercholensk!... No, signora, in quella di Algasithal.

– Molto lontana da Irkutsk?

– A poche ore di marcia.

– E noi lo salveremo?

– Presto.

– Quando?

– Partiremo fra due ore.

– Ma la colonna che voi guidate?...

– Siamo presso Irkutsk, posso quindi precederla ed affidarla intanto ai miei sottotenenti. Non bisogna che vi vedano a Irkutsk o la polizia vorrà sapere chi siete, dove andate, quali motivi vi hanno condotto in Siberia e mancando voi della carta imperiale, vi arresterebbero all’istante.

– Allora bisogna evitare Irkutsk?

– È necessario, e bisogna correre alla miniera prima che qualche cosa possa trapelare dei nostri progetti.

– Ma come faremo a salvarlo?

– Questo lo si vedrà in seguito. Non perdiamo tempo, signora, partiamo.

Premette un campanello che stava sulla stufa. Un istante dopo un sottufficiale dei cosacchi apparve.

– Fate allestire la mia slitta e la troika di questa signora, – gli disse il capitano. – Poi avvertirete i miei subalterni che io parto per un grave affare che non deve subire alcun ritardo. S’incaricheranno loro della condotta dei forzati.

– Sta bene, – rispose il cosacco, salutando.

– Andate e sbrigatevi. Ho molta fretta.

Poi volgendosi verso la giovane:

– I vostri cavalli sono di buona razza, m’avete detto.

– Sì, capitano.

– Un riposo di due ore può essere sufficiente?

– Lo credo.

– Benissimo: partiremo di carriera e questa sera potremo pernottare a Catulik. Spero, posdomani mattina, di giungere alla miniera.

– Faremo scoppiare i cavalli, se sarà necessario.

– Tutt’altro, bisogna conservarli per raggiungere più tardi il lago Baikal e poscia la frontiera cinese. Procederemo però più speditamente che potremo, poiché è necessario che vostro fratello sia libero prima che la colonna dei forzati giunga ad Irkutsk, od io sarò rovinato e voi tutti perduti. Andiamo, signora.

Indossarono le pesanti pellicce ed uscirono. La troika montata da Dimitri e dall’jemskik; e la slitta dal capitano, erano pronte dinanzi alla porta della prigione.

Maria Federowna salì nel suo veicolo accanto al servo ed il capitano nella slitta, guidando i cavalli in persona, avendo fatto scendere il cocchiere per non avere un pericoloso testimone.

Pochi istanti dopo, i cavalli si slanciavano sulla Wladimirka a gran galoppo.

Cominciava ad albeggiare ed il freddo era intenso. Avviluppati però nelle loro pesanti pellicce, né la giovanetta, né gli uomini soffrivano, malgrado l’aria tagliente che soffiava dalle sterminate pianure del nord.

Alle nove del mattino fecero una breve sosta per dar riposo ai cavalli della troika, che avevano galoppato quasi tutta la notte. A mezzodì sostarono di nuovo un paio d’ore ed al tramonto giungevano a Catulik, ultima borgata che si trova sulla via che conduce ad Irkutsk.

S’arrestarono dodici ore in un piccolo albergo del villaggio, ed alle otto del mattino ripartivano con velocità prodigiosa, volendo, alla sera, giungere alla miniera di Algasithal.

Alle due abbandonavano la Wladimirka ed entravano nella vallata dell’Angara, passando per sentieri noti solamente al capitano, aperti fra immense foreste, antiche quasi quanto la creazione del mondo, ed a notte inoltrata si arrestavano dinanzi ad una povera isba, semi-diroccata, costruita parte con pietre e parte con tronchi d’albero.

– Alto, jemskik! – comandò il capitano.

– Siamo giunti alla miniera? – chiese Maria Federowna, con viva emozione.

– Siamo vicini. Si trova al di là di questa foresta.

– E ci fermiamo qui?

– È necessario. Non bisogna che vi vedano.

L’aiutò a scendere, poi traendola da parte, le chiese:

– È fidato il vostro servo?

– È un vecchio soldato polacco che odia i russi e che da quindici anni veglia su di me. Mi adora come fossi sua figlia e per me si farebbe uccidere.

– E l’jemskik?

– È pure polacco, un reduce dalla Siberia, che aveva seguito il suo padrone nell’esilio e che è ritornato dopo la morte di quel disgraziato. Potete contare su di lui.

– Questi due uomini mi sono necessari per liberare vostro fratello. Voi rimarrete in questa capanna che è disabitata, e veglierete sui cavalli, e noi andremo alla miniera.

– Io non ho paura e vorrei seguirvi.

– Lo so, ne ho avuto le prove, – disse il capitano, sorridendo, – ma bisogna che qualcuno vegli sui nostri cavalli, e poi voi siete una donna e verreste facilmente riconosciuta. Vi prego, rinunciate alla vostra idea.

– Purché si liberi mio fratello, vi rinuncio, capitano.

– Entriamo.

Legarono i cavalli al tronco d’un pino ed entrarono nella capanna. Era un’isba siberiana, bassa, quadrata, col soffitto di terra battuta, priva di mobili, ma munita dell’immancabile stufa che si elevava nel mezzo, sorreggente una piattaforma composta di travicelli, che doveva aver servito di letto ai suoi abitanti, poiché tutti i siberiani non dormono che sulle stufe, malgrado l’intenso calore che queste emanano a così breve distanza. Il capitano fece portare nella capanna le provviste di viveri e le armi, poi comandò a Dimitri e all’jemskik di munirsi d’un remington e di rivoltelle.

– Forse ne avrete bisogno, – disse.

– Ma qual è il vostro piano? – chiese Maria Federowna.

– Non lo so ancora, – rispose il capitano. – Dipende dalle circostanze.

– Sarà lunga la vostra assenza?

– Se tutto va bene, spero di ricondurvi vostro fratello domani sera. Addio, valorosa signora, noi partiamo.

– Capitano, – disse la giovane, vivamente commossa, – che cosa potrò fare io per voi?...

– Serbatemi la vostra amicizia, – rispose Baunje, stringendole la mano. – Addio!

– Nobile cuore! – mormorò Maria.

Il capitano, Dimitri e l’jemskik, tutti tre armati, s’allontanarono scendendo un’altura coperta di neve che si perdeva in mezzo a dei grandi boschi.

La notte era chiara. Una splendida luna brillava in un cielo d’una purezza straordinaria, riflettendo i suoi raggi azzurrini sulla bianca distesa di neve.

Un silenzio quasi assoluto regnava sotto i grandi boschi carichi di neve, rotto solamente, di quando in quando, da qualche lontano ululato d’un lupo in cerca di preda.

I tre uomini, attraversata rapidamente la foresta, si trovarono in una vallata, in mezzo alla quale sorgeva un gruppo considerevole di abitazioni, sormontate da alcuni camini altissimi.

– La miniera, – disse il capitano, volgendosi verso i suoi compagni.

– È là il padrone? – chiese Dimitri con voce tremula.

– Sepolto sotto quelle nevi, a seicento metri di profondità.

– E come faremo a strapparlo di là?

– Spero che...

Non finì; un’acuta detonazione aveva improvvisamente turbato il silenzio che regnava nella vallata.

– Un allarme? – si chiese il capitano, aggrottando la fronte. – Cosa vuol dir ciò?...

Un secondo sparo echeggiò, poi si udì distintamente una voce gridare:

– Un uomo fugge!... All’armi!...

Quattro forme umane erano improvvisamente apparse sulla superficie della neve, come se sbucassero da terra, e si erano date a fuga precipitosa scomparendo sotto i boschi che circondavano la vallata.

Dalla parte delle abitazioni si videro balenare parecchi lampi seguiti da detonazioni, poi si videro apparire dei cosacchi, i quali si slanciarono in tutte le direzioni.

– Cosa vuol dir ciò? – si chiese il capitano per la seconda volta. – Che si tratti d’una audace evasione?

– Che scoprano l’isba? – chiese Dimitri, con ansietà.

– Non lo credo, poiché i cosacchi ed i fuggitivi corrono verso il sud, – rispose il capitano.

– Che vi sia il padrone fra quei fuggiaschi?

– Chi può dirlo? – rispose Baunje, che era diventato pensieroso. – È un uomo audace e può aver tentata la fuga.

– Vedo un gruppo di uomini laggiù presso il luogo ove sono sbucati i fuggiaschi, – disse l’jemskik.

Il capitano guardò attentamente nella direzione indicata, poi mormorò:

– L’antico pozzo della miniera doveva aprirsi laggiù. Ora comprendo tutto; ma come quei fuggiaschi sono riusciti a scoprirlo ed a sbarazzarlo dai rottami?... Mi avevano detto che era stato chiuso.

Ad un tratto vide un uomo di statura gigantesca sorgere da terra e scagliarsi contro quel gruppo di uomini, impegnare con loro una lotta disperata, poi soccombere sotto il numero degli avversari.

Senza sapere il perché, provò una stretta al cuore.

– Chi sarà quel coraggioso?... – mormorò. – L’hanno forse ucciso?... Bisogna che vada a vedere.

Si volse rapidamente verso il vecchio polacco, dicendogli:

– Tu non ti chiamerai più Dimitri, ma il principe Peteroff, che viaggia per istruirsi; mi hai compreso?

– Il passaggio è un po’ brusco, capitano, – disse Dimitri.

– Ma è necessario per la riuscita del mio progetto. L’jemskik sarà il tuo cocchiere.

– Sta bene, capitano.

– Ora seguitemi.

Ciò detto, abbandonarono il bosco e scesero nella vallata d’Algasithal, giungendo sull’altipiano della miniera nel momento in cui i cosacchi trascinavano il prigioniero verso l’abitazione dell’ispettore.

Appena il capitano poté gettare uno sguardo su quel disgraziato che aveva dato prova di tanto coraggio, scagliandosi affatto inerme contro dieci o dodici soldati armati, non poté frenare un grido di doloroso stupore.

– Lui!... – esclamò.

– Chi? – chiese Dimitri con ansietà.

– Il colonnello, tuo padrone.

– Salviamolo!... – esclamò il polacco afferrando il fucile.

– Fermati, – disse il capitano con accento imperioso. – Vuoi perderci tutti?... Al primo colpo di fucile farai accorrere tutti i soldati ed i guardiani della miniera.

– Ma non vedete che lo portano via?...

– Lo salveremo ugualmente; venite!...

Si diresse rapidamente verso il pozzo della miniera, dove l’ispettore stava facendo legare due altri uomini che erano saliti, lo studente e l’ingegnere, e mentre i soldati conducevano via quei due nuovi prigionieri, chiese con tono imperioso:

– Che cosa succede qui, signor Demidoff?