Grammatica Piemontese/Capo II. Delle pronunzie piemontesi/II. Della pronunzia delle vocali

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Capo II. Delle pronunzie piemontesi - II. Della pronunzia delle vocali

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§ II — Della pronunzia delle vocali.

Delle vocali alcune ritengono il medesimo suono che loro si dà dagli italiani, come la a e la i, le altre ritengono un solo suono per togliere ogni equivoco nella lettura.

Delle vocali di suono diverso, e primieramente della e.

Questa è una specie d’e, che si pronunzia discostando alquanto più le labbra, e dilatando alquanto più la bocca che nella pronunzia di qualunque altra vocale, e con suono schietto e forte, come nelle parole fer, ferro, cher, carro, poret, porro, garet, tallone, volet, volante (specie di palla impennata per divertir i fanciulli), saber, sciabola, strem, bugigattolo, ecc. Questa adunque chiamerassi e aperta, od appuntata, a differenza della e chiusa, la quale si pronunzia con suono di voce tenue colla bocca semichiusa, come bel, cel, seren, ecc., e questa dirassi e chiusa, o non appuntata. Vero è però che la e fra gli italiani riceve vario suono, onde stretta talvolta e talvolta aperta si dee far sentire; non vi si vede tuttavia, per mancanza di segni a quella apposti, con tutta quella facilità che il lettore desidererebbe, come debba in alcune voci pronunziarsi; cosicché uomo mezzanamente istrutto nella lingua italiana molte volte si rimane, nè sa ad un tratto distinguerne la pronunzia, dovendosi, e ai passaggi che fanno gli ac- [p. 17 modifica]centi da una in altra sillaba, come di breve in brevissimo, e allo vocali greche e latine d’onde deriva, aver riguardo. Dal che ne viene, che i più dotti nella lingua italiana, che a queste cose mirano, in parecchie voci pronunziano la e ben diversamente dai senesi e fiorentini, o da qualunque altro che vanti quasi ereditaria la pronunzia italiana. Nè io vorrei già qui, da taluno esser chiamato l’Aristarco della lingua italiana, quasichè fosse questa così pura e mondata, che gran fallo fosse riputato il crederla in qualche parte difettosa e mancante; perciocché io ricorderò a lui soltanto, che di tali difetti l’accusò già prima di me il giudiziosissimo Corticelli, come anche la celebre Gramatica ragionata 1, nella stessa guisa appunto, che il signor Du-Marsais 2 trova mancante la propria lingua.

Delle ò.

Gli italiani pure, sebben distinguano due sorta di o, cioè la o chiara od aperta, e la o oscura ovvero stretta, e le diano un suono assai diverso, tuttavia una sola è annoverata nel loro alfabeto; né usano nello scrivere di mettervi sopra alcun segno che indichi il suono particolare che dar le si debbe: ed in vero presso i medesimi ben diversamente suona la o in alcuni termini, come sole, ombra, rocca (strumento da filare), borgo, solo, bocca, amore, ecc., di quel che suoni in molti altri termini, come ostia, ossa, rocca (fortezza), oggi, ogni, ecc.; pronunziandosi ben diversamente l’una dall’altra, il che é di non poco impiccio ai leggitori anche più esperti, ogni qualvolta lor cadono sott’occhio termini massimamente poco usitati. Per evitare questo inconveniente io ho posto nel mio alfabeto due o, l’una delle quali é segnata, e questa chi ò larga od appuntata, e si pronunzierà, come più frequentemente si pro[p. 18 modifica]nunzia dagli italiani, con suono di voce grave, spiccio e bocca aperta, allargando alquanto le gote, come ròca, rupe, tòr, toro, por, porro, cròssa, stampella, cròch, uncino, pendlòca, pendente d’orecchini, ecc. La o stretta poi si pronunzierà quasi come la u dei toscani, con suono però men forte, colla bocca semichiusa, e con tuono di voce bassa, come ne’ vocaboli roca, rocca (strumento da filare), tor, torre, por, paura, cop, tegolo, mon, mattone, stopon, turacciolo, ossa, gualdrappa, tacon, gherone, coco, cuculo, e maritozzo, moch, smoccolatura, rindo, arcolaio, ecc. Avvertasi però, che la ò con accento grave quantunque sia delle aperte, per evitare la confusione d’appuntatura, io non vi metterò altro segno se non se il detto accento, e con questo si intenderà essere una o aperta, e doversi pronunziare accentata, e dare l'istesso e medesimo suono che a questa si dà dagli italiani, come nelle parole farò, falò (fuoco d’allegrezza), bandò, benda per il capo, tremò (specchio che si sovrappone al camino), burò, stipo, carò, ferro da soppressare, ecc.

Della u.

Potrebbe per avventura a taluno nascer dubbio sulla pronunzia della u nel dialetto nostro, per questo appunto che, derivando il medesimo, come abbiam detto, dalla lingua toscana e francese, avesse talvolta la u ad aver un suono pieno e inchinevole alla o, come fra toscani si sente, e talvolta un suono acuto simile alla y greca, cioè come la u lombarda o francese; onde per levar ogni dubbiezza noi assegneremo alla nostra quest’ultimo suono, come buata, fantoccio, bural, frullone, such, ceppo, grumissel, gomitolo, pugnal, impugnatura, us, uscio, ecc. Si avverta però, che dopo la a, la e e la q prende un suono sdrucciolo, e quasi equivalente, in quanto a quella che segue la a e la q, alla o stretta, dalla quale si distingue pel suo suono alquanto più oscuro, come nelle parole causset, maunet, fausset, qual, quand, question, ecc.; ed inchinevole alla u de francesi in quanto a quella che segue la e, come nelle parole Eucaristia, Deuterònòmi, Eufrate, ecc.

Note

  1. Gramatica anonima stampata in Parma l’anno 1771, di cui però credesi autore il Soave, personaggio assai noto nella Republica letteraria.
  2. Celebratissimo gramatico, autore degli articoli di Gramatica dell’Enciclopedia di Parigi, all’articolo Alphabet.