Guerra in tempo di bagni: racconto/V - La prima imboscata
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V.
La prima imboscata.
A poco a poco, le dicerie, le indiscrezioni, gli eleganti bisbigli avevano destato l’interesse della colonia balneare, che grazie alle suggestioni abili e amichevoli del barone De Renzis, parteggiava tutta per il conte Tibaldi, tranne il gruppo delle due Cingoli, ragazze già un po’ mature e pruriginose, le quali naturalmente dovevano detestare un giovane che pensava di sposare un’altra. E nell’animosità istintiva spiavano tutto, cercavano di sorprendere qualche barlume di cospirazione, magari con l’intenzione pia di riferirne in tempo all’ammiraglio e sventare così gli strattagemmi dell’amore.
Ma se il conte Tibaldi era fiducioso fino alla ingenuità, Massimo era furbo e vegliava per tutti, affinchè al nemico non giungessero informazioni sopra i piani strategici. Egli aveva notato l’atteggiamento ostile delle contessine Cingoli, e anzi aveva pensato di profittarne, facendo dar loro delle informazioni false, che giungendo all’ammiraglio, avrebbero servito a disorientarlo.
Frattanto, nei circoli sfaccendati, si seppe che il conte Tibaldi, col suo inseparabile Cybeo, aveva avuto una lunga conferenza segreta, nel fumoir dell’albergo col barone De Renzis e col commendatore Bellotti-Bon e s’era anche notato che, nel separarsi, il conte aveva il viso raggiante e si stropicciava le mani, come uno studente che ne abbia fatto una delle sue. La Santacilia, un po’ più tardi, chiacchierando intimamente con le Cingoli, aveva detto:
— Ve lo dico in tutta segretezza e mi raccomando!... domani, il contino entrerà in casa Sterbini, travestito da portalettere.
Mezz’ora dopo, per mezzo dell’ostricaro, la maggiore delle Cingoli aveva spedito all’ammiraglio questo biglietto:
— In guardia! il nemico verrà domani mascherato da portalettere.
— Va bene! — pensò l’ammiraglio, — mi ci voglio divertire e fargli fare una di quelle figure!...
Ma, mentre stava a tavola, gli giunse questa lettera, che gli cagionò il più profondo stupore:
- “Signor Ammiraglio!
“Non creda ch’io sia diventato pazzo: possiedo lucidamente tutte le mie facoltà mentali: e appunto nella pienezza della ragione, sento che non posso vivere, se non unisco la mia sorte a quella della signorina sua figlia. Ricorrere a mezzi fuori delle abitudini sociali, non è degno nè di me, nè di lei. Le scrivo dunque, un’ultima volta, con la massima serietà e il più deliberato proposito. Vuol concedermi la mano della mia Bice? Una risposta negativa deciderà della mia vita, che mi diventerebbe un fastidio intollerabile. Ci pensi!
“Giorgio.„
— Ma questo davvero è matto da legare! — esclamò l’ammiraglio; e poi, dopo una breve riflessione: — ma già, di che mi preoccupo? se lo dice, è segno che non lo fa.
E per tutta risposta, non rispose nulla.
Intanto, diede le istruzioni necessarie circa il falso portalettere. Appena si fosse presentato, farlo entrare, subito, e chiuderlo per così dire in trappola, onde godere della sua confusione e magari non lasciarlo andar via senza un qualche ricordo.
Non parve vero a Gennaro d’aver una missione di tale importanza, e si piantò sul portone, con aspetto quasi feroce, come un generale che deva difendere il punto più pericoloso, la chiave di tutto il sistema strategico.
Ne passarono due, di fattorini postali, frettolosi come il solito e goccianti sudore, e Gennaro li guardò con l’occhio dell’inquisitore e con un sorriso sarcastico, che pareva dire:
— Mascherina, ti conosco!
Tale era la sua prevenzione, che guardò male e con insistenza noiosa, perfino un giovanetto, fattorino del telegrafo, che gli fece uno sberleffo, gridandogli:
— Ohe, sor baffone, m’avanzate qualche cosa?
Soltanto a ora tarda, vide inoltrarsi un postino barbuto, una faccia nuova, che con un mazzo di lettere e plichi guardava i numeri delle case e si diresse, finalmente, verso la palazzina dell’ammiraglio.
— Ecco, ci siamo! — esclamò Gennaro, con una certa commozione di visceri.
Il fattorino si fermò davanti a lui, con una tranquillità spaventosa, e domandò:
— Sta qui la signora Bice Sterbini?
— Signorina, se vi piace.
— Signorina o signora, poco m’importa! sta qui?
— Manigoldo. — pensò Gennaro, — guarda come sa fare l’indiano.
Poi soggiunse:
— Sì, caro: sta proprio qui: abbiate la compiacenza d’entrare.
Con una cortesia goffa, esagerata, quasi inchinandosi a un principe in incognito, Gennaro introdusse il portalettere nel suo stanzino, chiuse a chiave e andò a chiamare l’ammiraglio, dicendogli:
— Il sorcio è nella trappola.
L’ammiraglio si precipitò nello stanzino, facendosi a esaminare minutamente il portalettere dalla testa ai piedi, e mormorando:
— Non c’è che dire: è perfetto.... persino la camicia bagnata di sudore! ma questo è un vero artista!
Il portalettere, attonito, non capiva nulla di tutte quelle manovre singolari, e spazientito richiese:
— Ma c’è o non c’è, questa signorina Bice Sterbini?
— Avete proprio da parlare con lei personalmente?
— Che parlare d’Egitto! devo consegnare a lei, in persona, questa lettera con ricevuta di ritorno.
— Ma voi non siete il nostro fattorino solito?
— Nossignore: son quello delle raccomandate.
— E dite: l’accettereste, per vostro vantaggio, una buona raccomandazione?
Il portalettere guardò inebetito l’ammiraglio, come se gli parlasse turco.
— Andiamo, via, signor conte! non si vergogna di queste commedie?
— Signor conte! — balbettò il portalettere, — ma son dunque capitato in un manicomio?
— Si levi quella barbaccia, se non vuole che gliela strappi!
— Ohe, strapparmi la barba, poi! — gridò il portalettere interrorito e fece un salto verso l’uscio, ma trovò la via sbarrata da Gennaro, che lo guardava con occhi di gatto inferocito.
— È inutile fingere, — proseguì l’ammiraglio — vedete bene che siete scoperto.
— Ohe, a che gioco si gioca? — urlò il povero portalettere, — io chiamo le guardie. Con chi credono di aver che fare? Sono il portalettere Luigi Carrani e qui c’è una raccomandata per Bice Sterbini: se la vogliono, bene, se no, vadano all’inferno tutti quanti.
L’accento di sincerità sconcertò l’ammiraglio, che guardò Gennaro, il quale guardò l’ammiraglio senza capirci una saetta.
— Dite dunque che proprio avete da consegnare una lettera a mia figlia?
— So assai che sia o non sia sua figlia: ho da consegnare questa lettera a chi si chiama Bice Sterbini: c’è o non c’è?
— E non potete consegnarla a me, che sono suo padre?
— Il regolamento lo proibisce.
— Venite dunque di là.
Il povero portalettere, inquieto e sospettoso, guardandosi davanti e didietro, seguì l’ammiraglio nel vestibolo, dove tosto, chiamata da Lisetta, comparve la figlia.
— È lei Bice Sterbini?
— Appunto io.
— Oh, ci voleva tanto! prenda questa lettera, e mi faccia la ricevuta, qui.
— Ma dunque, — esclamò con accento desolato e stupefatto l’ammiraglio, — siete un vero portalettere?
— O quante volte gliel’ho da ridire? sa, che son già seccato!
— Scusate, galantuomo e prendete queste due lire per bere alla mia salute.
— Mancomale! — esclamò il Carrani e se ne andò, augurando la buona sera a tutti.
— Che cos’è quella lettera? — gridò l’ammiraglio a Bice, che la rigirava tra le dita.
— E che vuoi che ne sappia?
— Qua, chè voglio vedere....
— Perdona, ma se è diretta a me....
— Una ragazza non può aver segreti epistolari per suo padre: qua la lettera.
E più che prenderla, l’ammiraglio le strappò di mano la lettera, rompendone rabbiosamente i suggelli.
— Anche la violenza! — esclamò Bice, — davvero, non ti riconosco più.
Ma l’ammiraglio non la sentiva: stracciata nervosamente la busta, si trovò in mano una seconda busta, sopra cui lesse, sbalordito:
— La violazione del segreto postale è un reato punito con parecchi mesi di reclusione.
Strappò rabbiosamente anche questa seconda busta, e ne trovò una terza su cui era scritto:
— Bada chè avrai a pentirtene!
Bice rideva e l’ammiraglio, invelenito, lasciandosi scappare una bestemmia, lacerò la terza busta, e finalmente trovò un biglietto sul quale, con una calligrafia che somigliava molto a quella di Cybeo, stava scritto:
“— Quando un padre è tanto indiscreto da aprire le lettere non sue, può anche fare la figura di un imbecille!„
— Non c’è che dire! — mormorò l’ammiraglio, — l’ho fatta.
E per nascondere la propria confusione, si chiuse dispettosamente nel suo studio.
Scendeva, intanto, la sera e cominciava a sentirsi da lontano il fragore musicale e confuso di trombe, tamburi e gran cassa, proveniente dai casotti di meraviglie inaudite, dalle giostre e da tutte quelle baracche rumorose, che costituivano una specie di permanente festival lungo la spiaggia del mare. Ma intorno alla palazzina Sterbini, immersa in placida e completa oscurità, tutto era silenzio. Gennaro stava dietro il suo finestrino, mangiando del prosciutto per bere un bicchier di vino e bevendo un gotto di Chianti per mangiare una fetta di prosciutto, quando, nella via debolmente rischiarata, vide un lampo e sentì echeggiare due botte, secche e sinistre. Non c’era dubbio: eran colpi di revolver!
Gennaro non era un vigliacco. Anzi, una volta s’era perfino buttato in mare, per salvare un bambino. È vero che si trattava di un bimbo caduto in un metro d’acqua, ma l’atto non era meno eroico, poichè il caso era successo in inverno. Con tutto ciò, sarebbe esagerazione affermare che Gennaro fosso tipo adatto a creare un parallelo a Giovanni dalle Bande nere, che volle reggere il lume, mentre gli tagliavano la gamba. A Gennaro qualche volta era capitato di reggere il lume, ma senza farsi tagliare mai nulla.
Quando dunque sentì i due colpi di revolver, il primo e generoso moto dell’animo fu quello d’almeno affacciarsi al finestrino. Ma poi pensò:
— E se si trattasse d’un fattaccio, perchè procurarmi il disturbo d’essere citato per testimonio?
Il ragionamento gli parve viziato d’egoismo e lo temperò con quest’altro:
— E poi, devo badare alla mia consegna!
Nel mentre, il suo esercizio di logica fu interrotto da Prospero il giardiniere, che piombò nello stanzino, chiedendo:
— Hai sentito quelle due botte? che diavolo succede? andiamo a vedere....
— No, non conviene schiudere il portone....
— Dunque, dal finestrino?
— No, non conviene neppure aprire il finestrino: guardiamo piuttosto attraverso i vetri.
E così fecero. A un cantone della via, mal rischiarato da un fanale, si vedeva un certo brulichio di tre o quattro persone, attorno a una cosa nera, stesa sul marciapiede. A Prospero parve di sentire dei gemiti. Poi videro uno che s’allontanava correndo, mentre gli altri gli gridavano:
— Un medico qualsiasi: il primo che capita!
Prospero, malgrado le obiezioni di Gennaro, non potè a meno di spalancare il finestrino e allora un incognito, che passava in furia gridò a Prospero:
— Per carità; avreste dell’acqua.... una catinella.... qualche cosa?
— Ma che c’è? un ferito?
— E grave.
Prospero afferrò la sua catinella, con la brocca, e la porse attraverso il finestrino. Intanto, ritornava il primo ch’era partito, dicendo:
— Ecco ne ho trovato uno.
Un signore lo seguiva di corsa brontolando.
Avvenne un certo movimento in quel gruppo e poi tutti si curvarono a terra, accendendo parecchi cerini.
— Andiamo a dar una mano anche noi! — disse Prospero.
E uscì, seguìto da Gennaro avvicinandosi a quel capannello. Eran tutte persone vestite per bene e un di quei signori disse a Gennaro:
— Dite, brav’uomo, non avreste una poltrona?...
— Ma si potrebbe trasportare? — soggiunse un’altra voce.
— Che cosa crede il dottore?
— Qui, si lavora male: se ci fosse una camera a pianterreno.... con precauzione....
Gennaro, confuso, intontito, disse:
— Se vogliono profittare del mio stanzino, è qua a pochi passi.
Quella gente allora, spenti i cerini, sollevò da terra la cosa nera e si diresse verso la villa Sterbini. Gennaro, tuttochè confuso, raccolse da terra la concolina e la brocca e seguì il convoglio, che pareva conoscere la strada quanto lui.
Quella cosa nera, era poi un giovanotto pallido, con gli abiti tutti sconvolti e una camicia finissima, sulla quale apparivano sinistramente macchie rossiccie.
Uno di quei signori chiese al medico:
— Come le par che vada, dottore?
— Secondo me, non credo vi sia pericolo, salvo complicazioni. Ho fatto alla meglio una prima fasciatura, e per adesso non conviene rimetterci mano. Vedremo domattina.
— Ma che è stato? — chiese Gennaro, — una aggressione?
— Che aggressione! è un suicidio.
— Oh, povero giovane.
Il suicida schiuse penosamente gli occhi e domandò, con voce fievole:
— Dove sono?
— In casa dell’ammiraglio Sterbini, — rispose Prospero.
— Che combinazione! — mormorò il ferito, con un pallido sorriso, — un amico!...
— Un amico del padrone? — esclamò Gennaro, — andiamo subito a chiamarlo.
E mentre il portiere correva dall’ammiraglio, il dottore chiese al suicida:
— Come si sente adesso?
Il suicida gli volse un’occhiata di riconoscenza, rispondendo:
— Grazie; non mi sono sentito mai tanto bene.
L’ammiraglio non poteva credere alle parole di Gennaro, e masticando dei per Cristo! che fulminavano, accorse nello stanzino, dove, alla vista del conte Tibaldi, si mise a gridare:
— Ma dunque siete proprio matto, disgraziato? e volete far impazzire anche me? oh Dio santissimo e santo: che avete fatto?
— Perdonate! gemette il ferito, — ve ne avevo pure avvisato....
— Ma chi poteva mai supporre?... per mille diavoli! e ora che si fa? che si fa? — urlava l’ammiraglio, cacciandosi la mano nei capegli.
— Si calmi, signor ammiraglio! — disse il dottore, — quel che si poteva far di meglio, già è stato fatto. Non credo che il caso sia dei più gravi, sebbene la ferita sia molto pericolosa. Per il momento il ferito ha bisogno unicamente di riposo....
— Va bene: ma intanto? animo, portiamolo di là, sul sofà dello studio mio: vi starà molto meglio.
Non aveva finito di parlare, che tutti afferrarono il ferito, e lo portarono con sollecitudine nella camera indicata dall’ammiraglio, mentre il dottore diceva:
— Spero che, tra qualche ora, lo potremo riportare al suo domicilio: anzi andrò all’ospedale, a dar ordine per una barella, chè così si eviteranno le scosse.
E senz’altro, con quella specie di freddezza che è propria della professione, il dottore se ne andò. Mentre s’avviava, uno di quei signori gli disse:
— Vengo anch’io....
— Oh, non serve! resti pure, — rispose il dottore, con sorriso indefinibile, e uscì.
Intanto il conte, con moto convulso, stringeva la mano dell’ammiraglio, dicendo:
— Perdonate.... non sapevo più quello che facessi!... e la signorina Bice?... dov’è?... potrei vederla, un momento solo?
L’ammiraglio, lì per lì, non seppe che rispondere, poi farfugliò:
— Non mi sembra conveniente.... vi pare, che nello stato in cui siete?... e poi davanti a degli estranei!... lei è tanto sensibile....
— Comprendo tutto, caro ammiraglio; ma si può salvare ogni convenienza, non è necessario dirle quel ch’è avvenuto. Fingerò di star male, d’un male qualsiasi.... E quel che le vorrei dire, poi, può essere inteso da tutti. Vi supplico! non desidero che vederla, sia pure un’ultima volta. Non potete negare questo favore supremo a uno che.... non sa se avrà un domani.
Gli astanti erano o parevano commossi, e l’ammiraglio faceva sforzi eroici per nascondere il proprio turbamento. Finalmente, alzò gli occhi e incontrò appunto quelli di Lisetta, che pareva aspettasse un ordine.
— Va un po’ a vedere, — le disse, — se mia figlia può venir qui nello studio.
Seguì un silenzio perfetto, che fu interrotto da Giorgio, il quale pregò uno di quei signori tanto amabili, che sconosciuti, di prestargli un paltoncino leggero, grigio, con cui riparare al disordine della propria toletta. In quel mentre, dall’uscio di strada, rimasto aperto, entrarono due signore, una delle quali era la Santacilia, insieme col dottor Baccelli, e fecero irruzione nello studio, con grande sorpresa dell’ammiraglio.
— Abbiamo sentito parlare di una disgrazia: è dunque vero?
L’ammiraglio, rimasto senza parole, indicò Giorgio mezzo raggomitolato sopra un divano.
— Proprio vero! — esclamò la Santacilia, congiungendo le mani, in atto di grazioso terrore, — ma guarda che pazzia! abbiamo portato con noi l’amico Baccelli, per il caso che....
— Grazie, non serve, — rispose Giorgio, — pur troppo, ho già trovato un dottore, che mi ha imposto l’esistenza.
L’onorevole Baccelli non disse nulla, guardando con curiosità e tenendo le mani sprofondate nelle saccoccie.
Lisetta aveva trovato la signorina nello châlet, mentre faceva, con miss Trollope, una gran chiacchiera in inglese, interrotta da frequenti risate.
Il musetto malizioso della cameriera assunse un’espressione intraducibile, quando disse a Bice:
— Signorina: l’ammiraglio la desidera nel suo studio, dove c’è molta gente.
Bice diede un’occhiata all’istitutrice e le disse in inglese:
— Ci siamo, vieni con me.
Nell’entrare in quella sala tanto affollata, Bice si fece rossa come una fiamma, e, istintivamente, si appoggiò al braccio di miss Trollope.
La Santacilia le corse incontro, l’abbracciò e la baciò più volte, con grande tenerezza.
Poi, tutti si ritirarono rispettosamente e discretamente in un cantone, mentre Bice, abbassando modestamente gli occhi, ma tutto vedendo, s’inoltrava verso il padre, che stava accanto a Giorgio. L’ammiraglio, in tale novità di caso e di situazione, si sentiva molto impacciato; e non sapendo come cavarsela, disse alla figlia con un’intonazione quasi gaia, che contrastava molto con la fisonomia così rannuvolata:
— Guarda chi c’è! una visita che proprio non s’aspettava.... il conte Tibaldi.... vedi? vorrebbe alzarsi, ma non può.... gli è capitato un male improvviso.... un disturbo.... un giramento di....
— Sta male veramente, signor Giorgio? — chiese Bice, con la sua vocetta d’argento.
— Stavo male e molto! — rispose Giorgio: — ma lei diffonde tanta grazia, che già mi sento meglio. È un vero prodigio! guardi: son sicuro che, se lei m’imponesse di alzarmi, lo farei e mi parrebbe d’essere perfettamente guarito.
— Non facciamo altre scioccherie! — brontolò l’ammiraglio.
— Mi perdoni di averla disturbata, — proseguì Giorgio, prendendo la mano di Bice e baciandola, — ma proprio, appunto in queste mie poco liete condizioni di salute, sentivo la necessità prepotente di vederla, non fosse che per un minuto.
— Ma io spero che ci vedremo più a lungo.
— Così spero anch’io.
— Quando sarete guarito! — brontolò l’ammiraglio, un po’ inquieto della piega del discorso.
— Suo padre — soggiunse il conte — sa quali sentimenti io abbia per lei....
— Credo di conoscerli anch’io...!
— Se potessi dunque sperare?...
Bice, arrossendo, gli strinse la mano, mormorando:
— È un peccato mortale indurre la gente in disperazione.
La Santacilia, che s’era avvicinata all’ammiraglio, gli bisbigliò:
— Ma guardi che bella coppia; è un vero peccato!
— Un matto da catena! — mugolò il vecchio crollando le spalle.
— Dunque? — chiese Giorgio, guardando Bice negli occhi.
— Dunque.... guarisca subito: e pensi che il mio cuore.... d’amica non può a meno di augurare che si avveri tutto quel che desidera!
— Ma allora, eccomi guarito! — esclamò Giorgio, e levandosi in piedi, stese la mano, ridendo, all’ammiraglio, dicendogli — Carissimo suocero, la vostra figlia adorabile ne sa più dell’onorevole Baccelli.
L’ammiraglio pareva a dirittura don Bartolo, nel momento più critico.
— Questa è un’indegnità! — balbettava, soffocato dalla bile, — una mistificazione!... e mi meraviglio che anche questi signori!...
— Papà: e la calma?
— Calma! voi ritiratevi subito, chè voglio dire il fatto mio a....
— Ammiraglio! — lo interruppe la Santacilia, — badate a non dire cose che vi farebbero torto. Se si sapesse che avreste preferito la tragedia a un lieto fine, tutta la società sarebbe contro di voi.
— E io me ne strainfischio della società! — urlò l’ammiraglio.
— E invece la società vi augura la felicissima notte! — replicò gaiamente la Santacilia, e dato il braccio a Giorgio, che guardava Bice allontanarsi, cominciò la ritirata di quella curiosa comitiva, che sfilò davanti all’ammiraglio, mezzo inebetito da simile baraonda.
Quando furono usciti, l’ammiraglio si volse attorno guardando con occhi spiritati Gennaro, che balbettò:
— Bisognerà prendere più precauzioni!
— Hai ragione, intanto.... piglia questa!
E gli consegnò un solennissimo schiaffo.
Quando i reduci dalla palazzina Sterbini, tra un sacco di ciarle e di risate, giunsero al Grand Hôtel, il commendatore Bellotti-Bon stava seduto fuori del portone, al fresco, bevendo una ghiacciata di caffè, e appena li vide, domandò:
— E così, com’è andata a finire?
— Perchè non è rimasto anche lei?
— Non era conveniente: un dottore che ha tempo da perdere, non è più verosimile. E poi, mentre si trasportava questo caro suicida... A proposito, dica la verità, conte: come ho saputo fasciarlo?
— Anche troppo bene: e se permettono vado a cancellare le traccie ancora visibili del mio suicidio.
Il conte salì nelle sue stanze e il commendatore proseguì:
— Avevo visto, da lontano, due carabinieri: e la mia paura, francamente, era che, attratti dai colpi, venissero a ficcare un naso importuno nella nostra commedia di salon.
— Con prologo in mezzo a una strada! — soggiunse il cavaliere Garzes, che gentilmente si era assunto una modesta, ma utilissima parte di comparsa, — e io, non fo per vantarmi, ho fatto a dovere la mia parte di persona caritatevole che non parla. L’ammiraglio ogni tanto mi guardava stupefatto, quasi chiedendosi: ma chi è costui? E io gli sorridevo familiarmente, quasi fossi uno di casa.
— Dunque, com’è finita? — ridomandò il commendatore.
La Santacilia ricostruì spiritosamente la scena singolare e patetica, e finito il racconto, il commendatore esclamò:
— Bellissimo risultato! non s’è conchiuso assolutamente nulla: siamo al punto di prima, mi pare.
Oh, no: per questo, s’è fatto un gran passo. Tibaldi ha saputo fare più di quel che si poteva aspettare da lui, e ora almeno si conoscono le ferme intenzioni della ragazza: vale a dire che si può tentare qualunque cosa, certi d’essere vigorosamente secondati da lei. Ora, tra una ragazza e un ammiraglio, la vittoria non può essere che della ragazza.
— Se dovessi subire un investimento, — esclamò il Garzes, — piuttosto da lei, che da lui?
— Vergogna! — lo interruppe il commendatore, — simili cose in bocca d’uno sposo morigerato! e che succederà adesso, in casa dell’ammiraglio?
— Lo sapremo più tardi, — rispose il barone De Renzis, — da Massimo, che deve ricevere un rapporto dall’ inglesina.
— Anche quella non c’è male, — mormorò il Garzes, — ha una bella prua!
— Se non la smetti, finirò per applicarti la museruola.
Giorgio, rimesso per così dire a nuovo, raggiunse la comitiva, facendo portare pasticcini, the, cognac e rinfreschi.
— Come le pare che me l’abbia cavata? — chiese al commendatore.
— Piuttosto benino: come un discreto filodrammatico: le manca il possesso di scena.
— Nonchè quello di Bice! — esclamò la Santacilia.
— Procuri di acquistare il primo e avrà anche l’altro; perchè verremo alle scene più grosse.
— Ecco il signor Cybeo.
— Ebbene? che notizie? — chiese il conte Massimo.
— Ecco il foglio che è cascato da una finestra, oscuro, laconico, ma consolante.
E lesse:
“L’ammiraglio sta chiuso; non parla con nessuno; tutto tranquillo; soltanto temesi imminente venuta Liberti; sarebbe grave complicazione; agite, seconderemo.„
— E non c’è altro?
Massimo arrossì:
— Ancora due parole in inglese, ma non ti riguardano.
— Ho capito; sono tuoi speciali studi di lingua. Questo Liberti, dunque?...
— A proposito, — s’affrettò a dire il barone, — ho parlato stasera col comandante Cottrau e mi ha detto che il legno deve giungere a Napoli, sicuramente, tra un giorno o due, e fors’anche più presto.
— Che il diavolo se lo porti.
— Sarebbe davvero una complicazione spaventevole.
— Il mio parere sarebbe questo, — disse il Bellotti-Bon, — anticipare l’arrivo del capitano Liberti.
— Non capisco.
— Capisco io! — esclamò il barone, — egli ha ragione; dal momento che l’ammiraglio non sa più come sia fatto, perchè non presentargli un falso Liberti?
— Piano: ma qui si va addirittura sui margini del codice penale.
— Ma che! la stagione balneare è il carnevale estivo, e tutto è permesso. In ogni caso, garantisco io, sono membro della commissione del bilancio e amico intimo del guardasigilli.
— Non si tratta del guardasigilli; piuttosto del questore! — fece Massimo.
— Anche il questore è un amico e per giunta con fantasia di romanziere; è il commendator Serrao; dove occorra, me lo combino io.
— Tutto sta bene, ma veniamo al difficile: chi può essere capace di simulare un capitano Liberti?
— Massimo, per esempio: con un po’ di truccatura, se ne farebbe un tipo di marinaio perfetto.
— Per me, ci starei; ma non è possibile; sarei riconosciuto da quella stregaccia della governante.
— In tal caso, dove pescarlo?
Bellotti-Bon, sorridendo sotto i baffi, soggiunse:
— Non c’è che uno, capace di sostener bene la parte: l’amico Garzes....
— Io? ma che?
— Oseresti ribellarti alla suprema autorità del capocomico? È vero ch’egli sarebbe un individuo pericoloso: possiede appunto una magnifica uniforme di capitano di vascello; e quando se la mette, v’assicuro io, è irresistibile.
— Me lo ricordo, infatti! — esclamò la Santacilia, — le va proprio a perfezione.
Il cavalier Garzes parve molto lusingato di tale ricordo, ma oppose ancora qualche resistenza.
Il commendatore ne combattè vittoriosamente tutte le obiezioni: quindi espose un piano così brillante, che l’uditorio fu elettrizzato d’entusiasmo, e tra le acclamazioni unanimi fu strappato il consenso al Garzes, il quale conchiuse:
— Badiamo: se la ragazza poi volesse sposare me, io non garantisco di nulla.
— Sciagurato! vuoi dunque impiantare la setta dei mormoni?
La comitiva dei congiurati, presi i debiti accordi, si separò verso la mezzanotte, dicendo in coro:
— A domani.
La simulazione del suicidio fu il gran fatto della rotonda, il giorno appresso, e il chiacchiericcio infinito, dalle più alte sfere aristocratiche, scese fino al mondo ignoto dei bagnini e dei camerieri di caffè, dell’ostricaro e di quel cupo venditore di coralli, che sembra un tiranno in permesso. Tenebrone, dopo aver ascoltato il cicaleccio delle bagnine, pronunciò una delle sue più solenni sentenze.
— Se Teresina vuole, non c’è Dio che tenga!
Verso il meriggio, le due Cingoli, che quel giorno parevano morsicate dalla tarantola, sparsero una gran notizia, dolenti solo di non poter affiggere un manifesto:
— Questi scandali ridicoli, la Dio grazia, sarebbero finiti! L’ammiraglio aveva ricevuto da Roma un dispaccio che gli annunciava essere in viaggio il capitano Liberti, il quale sarebbe giunto col treno delle quattro.
Per curiosa combinazione, anche il capitano Liberti sarebbe sceso al Grand Hôtel.
E le Cingoli aggiungevano:
— Noi lo conosciamo benissimo, questo Liberti: è un giovane che non si lascia far la barba da nessuno. Figuratevi, che ha già avuto dieci o dodici duelli: mentre quel cosino di Tibaldi non ha certamente l’aspetto di un eroe. Vedrete che piano, piano, dopo tanto chiasso indecente, fa le sue valigie e si squaglia, come niente fosse. E così, sparirà pure quell’antipatico di suo segretario, un ineducato che manda il fumo in faccia e guarda fisso, con un’insolenza proprio da schiaffi.
La curiosità divenne così acuta, che parecchi sfaccendati, tra cui alcune signore, andarono alla stazione, a presenziare l’arrivo del capitano Liberti.
Con quel treno arrivò un visibilio di gente, essendo il treno del sabato, il cosidetto treno dei mariti, istituzione puntuale e bonaria che, ogni settimana, produce, per almeno ventiquattr’ore, dei singolari cambiamenti a vista, con largo pascolo della malignità. Anche le Cingoli erano alla stazione e facevano centro del gruppo dei curiosi, per essersi vantate di conoscere il capitano Liberti.
Per quanto guardassero, non si vide nessuna uniforme d’ufficiali di marina.
— È naturale! — dissero le Cingoli, — gli ufficiali di marina viaggiano sempre in borghese: tanto più poi il capitano Liberti, che sta in permesso.
— Ma, insomma, c’è o non c’è?
— E che volete distinguere, in questa confusione?
— Andiamo allora a far la posta presso l’omnibus dell’albergo.
— E se fosse andato in carrozzella?
— Proviamo intanto: ma come mai l’ammiraglio non è venuto alla stazione?
— Dite per burletta? e vi par possibile che un ammiraglio vada a ricevere un capitano? lo aspetterà in casa sua.
— Anche un genero è dunque sottoposto alla gerarchia?
— Si sa: lui più d’un altro.
Il gruppo dei curiosi uscì all’aperto, ispezionando l’omnibus del Grand Hôtel. Anche lì, nessuna traccia d’uniforme. Erano saliti in quell’arca di Noè cinque o sei viaggiatori di vario sesso, e tra gli altri, seduto in un cantone, c’era un giovanotto bruno, abbronzato, con la barba nera, che attirò maggiormente la curiosità delle Cingoli. La maggiore bisbigliò all’orecchio della sorella:
— Che ti pare? non può essere che quello.
— Così sembra anche a me: gli altri non presentano analogia con l’individuo.
— Che ho da dire: sarà quello!
E raggiunta la comitiva dei curiosi, la Cingoli disse con franchezza:
— Vedete quel pezzo di giovanotto nel cantone? è lui il capitano Liberti.
— Ha infatti il viso d’un uomo che non ischerza.