I Marmi/Parte prima/Ragionamento settimo/Poeta forestiero, e Gozzo tavernieri

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Poeta forestiero, e Gozzo tavernieri

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Poeta forestiero, e Gozzo tavernieri
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Poeta forestiero, e Gozzo tavernieri.

Poeta. La sta cosí come io v’ho detto; per altro, non son venuto in questa terra che per farmi dichiarare un libro che io ho fatto.

Gozzo. Credetti che voi fusti venuto per ber trebbiáno, tanto vi piace; voi non vi partite mai da bomba; chi vi vedessi sempre alla mia taverna non direbbe altrimenti, o che voi fussi un colombo di gesso.

Poeta. Tu favelli a punto come il mio libro.

Gozzo. Ditemi: il vostro libro, come l’avete fatto voi e non l’intendete?

Poeta. Scritto, scritto, vo’ dire, copiato di qua e di lá. Sa’ tu lèggere?

Gozzo. Messer sí.

Poeta. Oh! tu mi dovresti saper di ciò che egli rilieva in lingua tosca.

Gozzo. Non so di lingue o di bocche: fate che io oda cotesta vostra fantasia; forse che io ve ne saprò dichiarare un buon dato. Oh che libraccio grande! egli ve ne debbe esser quelle quattro!

Poeta. Pensa tu, egli è piú di tre anni che io non fo altro che scrivere scrivere.

Gozzo. E a un bisogno avete fatto come la coda del porco.

Poeta. Sempre tu. Di’ qualche cosa del mio libro: egli è bene che io te ne squaderni a questo fresco qualche pezzo.

Gozzo. «Strambello» si dice a Firenze. Or dite, via.

Poeta. «Questa è una gran pestilenza degli scrittori che ciascuno voglia tarare l’altro. Socrate fu ripreso da Platone, Platone pelato da Aristotile, Aristotile d’Averroè, Secilio da Vulpizio, Lelio da Varrone, Ennio da Orazio, Marino da [p. 161 modifica] Tolomeo, Seneca da Aulogelio, Tesalo da Galieno, Ermagora da Cicerone, Cicerone da Salustio, Ieronimo da Ruffino, Ruffino da Donato, Donato da Prospero».

Gozzo. Il mio trebbiáno, che ve ne pare?

Poeta. Che di’ tu di trebbiáno?

Gozzo. Favello di quel che io m’intendo: cotesto libro non mi canta nell’orecchia.

Poeta. Questo è il preambulo; tu udirai tosto il fiorentin poema.

Gozzo. Se voi non mutate verso, e’ fia bene andare alla volta del rinfrescatoio, ché qua non ci posso badar tanto.

Poeta. Ecco alla risoluzione. «Il magno Alessandro non avrebbe oggi gran nome, se di lui non scriveva Quinto Curzio. Che sarebbe stato Ulisse, senza Omero? Alcibiade non era nulla, se Senofonte non ci metteva mano; e se Chilon filosofo non fosse stato al mondo, la fama di Ciro non si ricordava; Pirro re de’ piroti non poteva passar la banca per uomo da qualcosa, se non s’impacciava del fatto suo Ermicle istoriografo. Tito Livio fece bene a scriver le Deche per amor di Scipione Africano. Che dirò io di Traiano? Che non sarebbe stato nulla, se l’amico suo e famoso Plutarco non ci dava di becco. Che si sarebbe saputo di Cesare, senza Lucano? i dodici Cesari, senza Svetonio? il popolo ebreo, senza Iosefo?».

Gozzo. Se non fosse Valdarno, il trebbiáno, che avete bevuto, non sarebbe stato alla mia taverna. Serrate cotesto libro e andiancene, ché ciò che voi dite è gettato via intorno a Gozzo che non sa per lettera.

Poeta. Aspetta, ché io voglio entrar nel mezzo, poi che tu non mi vuoi ascoltar nel principio.

Gozzo. Non ritornate piú su quei gran maestri alti alti; andatemi come la porcellana, se volete che io intenda.

Poeta. Ecco fatto. «Lascia star quella fanciulla che tu vagheggi, perché tu hai preso un sonaglio per un’anguinaia; perché la ti riuscirá alle strette come le mezzine dall’Impruneta e avverratti come a’ zufoli di montagna».

Gozzo. Seguitate, ché io intendo. [p. 162 modifica]

Poeta. «Egli quando ebbe scherzato con i bischeri del liuto e toccato s’egli era bene incordato, stiacciò il corpo dello stromento su la coltrice, e l’incassò senza piú impellarlo altrimenti».

Gozzo. Ancor questa è da taverna: dite, via.

Poeta. «Tutte le manovelle dell’opera non gne ne avrebbon levato da dosso: queste son cose veramente da fare ai sassi per i forni».

Gozzo. Ve ne saprei lèggere in catedra di coteste! Ma quei Giuseppi e Pirri e Tisbe non ne so boccicata.

Poeta. Insegnami queste che tu sai.

Gozzo. Finite pure.

Poeta. «Aver possi tu quel piacer della tua cena che ha la bòtta dell’erpice».

Gozzo. La non va cosí; e’ si dice: «Come disse la Bòtta all’Erpice: — Senza tornata —».

Poeta. Non ne son capace cosí alla prima: come ho finito, le dirò tutte a una a una.

Gozzo. Sta bene — come disse Toccio.

Poeta. «Fa di starti sempre in franchigia, altrimenti tu saprai a quanti di vien san Biagio; chi l’ha per mal, si scinga: a ogni modo noi sián per far due fuochi; perché tu ti stai tutto di a donzellarti, so che tu sei una donzellina da domasco; a me non darai tu codesta suzzacchera né apiccherai cotesta nespola. Se tu sei uso a far delle giacchere, a tuo posta: di questa che s’apartiene a me, sturatene gli orecchi, ché non se ne fará nulla, perché io non compro vesciche e non voglio per tue baie perder la cupola di veduta. Va, mostra lucciole per lanterne a chi ha i bagliori agli occhi e non mi tenére in ponte, ché, lodato sia Dio, io veggo il pel nell’uovo: se ben la vecchiaia vien con ogni mal mendo, io ho a queste cose, come disse colui, sempre gli occhi a le mani; e chi si vuole ingrognare, ingrogni».

Gozzo. Voi vi siate fatto da cattivo lato, a cominciar dal trebbiano; voi roviglierete tutta la mia taverna, che non ci fia chi non si rida del fatto vostro: la roba viene e va; sí che [p. 163 modifica] spendete in questa dolcitudine il piú che voi potete. Voi dovete essere uomo randagio, ferrigno e rubizzo; spendete pure in trebbiano, ché quei danari non andranno altrimenti alla Grascia: anco il duca murava.

Poeta. Tu mi pari ubriaco.

Gozzo. Fate che non vadi nulla in capperuccia, e lasciate andar l’acqua alla china; voi séte salito su’ muricciuoli e, da che avete gustato il trebbiano, voi séte tutto razzimato: or cosí ogni uno aguzzi i suoi ferri.

Poeta. Il vino ti fa dar la volta.

Gozzo. «Tu se’ cotto,» si dice a Firenze; ma io anaspo le parole anch’io a mente come voi l’avete scritte, che una cosa non s’accorda con l’altra.

Poeta. Odi ancor queste quattro e poi andremo a trebbianare.

Gozzo. A tracannar trebbiáno, direi io. Dite su.

Poeta. «Io non vorrei tanti andirivieni né tante schifiltá, né mi piace cotesto lume anacquato, che getta un poco d’albóre; piú tosto vorrei mettere un tallo sul vecchio ed esser Beccopappataci; ché io non vorrei che san Chimenti mi facesse la grazia. E’ mi vien voglia di ridere, e ho male, sapendo certo che egli ha da esser una tresca il fatto nostro. S’io mi racconcio la cappellina in capo...».

Gozzo. Le cose che voi dite son dette la maggior parte fuor del dovere; ma questa della «cappellina» passa battaglia, arrovescissimo. Finite, di grazia, ché ’l trebbiáno è meglio assai.

Poeta. «Tu non sai ancor mezze le messe; sí che guarda dove egli l’aveva! Penso che ci covi sotto qualche cosa, da poi che ’ paperi menano a ber l’oche: non ti creder d’aver questa pera monda e non andare stiamazzando ghignaceci, ch’io non voglio rimanere in su le secche».

Gozzo. Non piú, di grazia, ché voi mi tenete qui a piuolo come un zugo e siate entrato in un leccieto da non ne uscire a bene stasera: al trebbiáno vi voglio, e tutte codeste filatere vi svilupperò; a ber, vi dico, se volete. [p. 164 modifica]

Poeta. Andianne, ché tu m’hai fracido; con patto che tu m’accompagni all’aloggiamento.

Gozzo. Mancheranno i cotti che vi daranno mano.

Poeta. Non si può giá poetare, se l’uomo non è un poco caldetto; però si dice «poeta divino».

Gozzo. Sta bene, andiano alla volta sua. Cotesto libro, guardate non lo perdere, ché ’l pizzicagnolo s’adirerebbe.

Poeta. Va lá, che io vengo.