I Mille/Capitolo XXVI
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CAPITOLO XXVI.
LA BORBONA.
Dondola, graziosa Naiade, i lucenti tuoi fianchi sull’onde increspate del Tirreno. Lontana col ricordo, o vicina, colle eleganti tue forme mi ringiovanisci, e mi riconduci coll’anima ai pericoli d’un’età poetica pur troppo spazzata dal tempo. (Autore conosciuto). |
La Borbona! — I francesi chiamaron Borbone le patate al tempo di Luigi XVIII, essendone ghiotto quel monarca.
Borbona! — Eppure eri una bella fregata anche con questo nome poco simpatico. — Non appartenevi più a quella classe elegante della fregata inglese o americana da vela — vera aquila dell’Oceano, che all’occhio esperto ed innamorato d’un figlio d’Anfitrite, rappresentava il bello ideale della sua fantasia.
Nelson, padrone degli Oceani, dominava nel Mediterraneo dall’ampia baia di Agincourt, di rimpetto all’Isola della Maddalena sulla Sardegna, tutti i littorali di quel mare, ed inviava le sue fregate sulle coste Italiane, Africane e Francesi, informandosi con esse di qualunque occorrenza e di qualunque mossa delle flotte francesi.
Era bel vedere due fregate inglesi alla vista di Tolone, ove ancoravano cinquanta navi da guerra francesi, dal brigantino al vascello a tre ponti, e qualunque movimento importante di quelle navi veniva, dopo pochi giorni, segnalato da una delle due fregate all’Ammiraglio.
L’altra fregata, agile come l’Albatros1, si manteneva alla vista della flotta nemica, veleggiando verso Agincourt, se perseguíta da forze superiori, ma sempre pronta a combattere ove la partita non fosse molto ineguale.
Vi era della vera e maschia poesia in quelle fregate a vela coi loro cinquecento lupi di mare per cui le tempeste e la morte erano un gioco.
La Borbona apparteneva ad un periodo di decadenza per la vela, ma di progresso nell’arte della distruzione, perfezionata poi dalle odierne corazzate: essa era fregata ad elice di 1a classe ed anche molto elegante.
Io l’ho veduta dall’alto di Villa San Giovanni cannoneggiando una povera batteria che le povere camicie rosse avean edificato sulla punta del faro, con due cannoni borbonici, e l’ho contemplata con orgoglio, per esser legno italiano, da poter comparire con decoro al cospetto delle fregate suddette.
Era il 24 luglio, quando per la prima volta in questa campagna la Borbona, destinata inutilmente alla difesa di Melazzo, approdava nel porto di Messina, e sbarcava nella cittadella un conosciuto nostro, il più astuto corifeo del negromantismo, il gesuita Corvo; e siccome dopo la battaglia di Melazzo, le camicie rosse cominciavano a segnalarsi sulle alture di Messina, il discepolo di Lojola credè meglio impartire le sue istruzioni al Comandante della cittadella, e tornarsene a bordo sulle ali dei venti e del vapore. Egli diceva: «meglio uccello di bosco, che uccello di gabbia».
Il Comandante della Borbona era, come tutti i servitori di Re, uomo col cuore nella pancia, e bastava perciò che non l’avessero disturbato nei suoi quattro pasti diurni, e dal suo favorito caffè, due volte al giorno, perchè egli potesse passare per un buontempone.
Il comandante d’una fregata come la Borbona a bordo è un sovrano, e non abbisogna per ciò essere un Nelson.
La rigorosa disciplina, ancor più facilmente attuabile sui bastimenti da guerra che nell’esercito, fa sì che ognuno deve ubbidire al capo, inesorabilmente. Di qui non si diserta, non si fugge, non v’è nascondiglio nei combattimenti e per poco coraggio che abbia un marino — ciò che succede raramente — la sua vita stava un dì come la ruggine annessa ad un proietto lanciato dal nemico, oggi essa fa parte dell’acciaio del terribile sperone.
Il contr’ammiraglio Banderuola era dunque, poco più, poco meno, ciò che dev’essere un ufficiale imperiale o regio; cioè: Onnipotente a bordo della sua nave, ma umile servitore del padrone e pronto a bombardare la casa natía con dentro il padre e la madre, al comando di quello.
E con tutta la sua onnipotenza, Banderuola sapeva benissimo quanto più onnipotente di lui e del suo padrone era il Gesuitismo, e quindi il rappresentante di esso, il tentatore della nostra valorosa ed infelice Marzia.
«Non vanno le cose molto bene» diceva Corvo a Banderuola, la stessa sera del 24 luglio 1860 nella camera del comandante della Borbona, mentre questa incrociava a ponente dello stretto di Messina.
«I generali nostri assuefatti ad una vita imbelle ed inoperosa, non si son mostrati all’altezza dei tempi e delle circostanze, e temo molto che nell’anima di alquanti di loro si nasconda il tradimento, e quindi il culto al Sole che leva».
«Che al valore dei soldati, non abbia corrisposto la bravura dei capi, lo credo anch’io» rispondeva il marino «ma tradimento non lo crederei (mentre egli stesso aveva cercato di patteggiare cogli agenti Sardi, allora numerosi ed attivissimi nel Napoletano). «Ed io dirò, circa all’amato nostro giovane sovrano, come diceva il Metastasio:
«Lo seguitai felice quand’era il ciel sereno,
«Delle tempeste in seno, voglio seguirlo ancor.»
Un pieno bicchiere di Marsala aveva suscitato l’estro poetico nell’Ammiraglio, ma un colpo d’occhio scrutatore del gesuita, che lo penetrò sino nell’intimo dell’anima di fango, gli fece abbassare lo sguardo, e senza dubbio il suo interlocutore che la sapeva più lunga assai del marino in materia massime di dissimulazione e di tradimenti, avrà detto fra sè stesso:
«Mi sta fresco Franceschiello con questi fedeli.»
Avendo però bisogno per i suoi fini particolari del comandante, il prete, da maestro com’era, ripigliò:
«Oh! sicuro, di tradimento non credo capaci i nostri capi dell’esercito e della marina particolarmente.»
E senza dar tempo al cicaleccio del Banderuola ch’ei scorse pronto a sostenere con calore il decoro della marina, egli proseguì:
«Ammiraglio, ricordatevi che noi dobbiam lasciare in Messina la signora contessa N., tanto raccomandata da S. Santità, e giuntaci or ora a bordo per una importantissima missione, e questa notte stessa essa deve esser trasbordata nel faro a bordo della Formidabile per esser sbarcata con tutta sicurezza».
«Immediatamente, Monsignore» era la replica del marino, forse soddisfatto di non trovarsi obbligato a sostenere una questione esosa, «Immediatamente! ed il miglior palischermo della fregata sarà destinato a tale missione».
Chi sarà codesta signora raccomandata dal Capo dei corruttori d’Italia? — Lo vedremo nel seguente capitolo; ci basti per ora osservare e deplorare che il maggior sostegno del prete è la donna! La donna, la più perfetta delle creature, quando buona, ma un vero demonio quando dominata dai tentatori e traditori delle genti — i chiercuti.
- ↑ Uccello dell’Oceano.