I briganti del Riff/6. La caverna dei pitoni

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6. La caverna dei pitoni

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5. L'incendio 7. Il colpo dei valienti

6.

LA CAVERNA DEI PITONI


Zamora e Janko, lasciati i due studenti alle prese coi leoni, si erano mossi sollecitamente per esplorare la seconda caverna, colla speranza di trovare da quella parte un'altra uscita non guardata da bestie così pericolose.

Il gitano teneva il grosso fanale di marina; la fanciulla lo seguiva imbracciando il fucile.

La prima caverna fu attraversata senza incidenti, sicché poterono giungere nella seconda, che era ancora un po' illuminata dal fascio di luce che scendeva dalla spaccatura della vòlta.

— È da questa parte che gli studenti vorrebbero fuggire? — disse Janko, colla sua solita voce stizzosa. — Dove andranno a finire?

— Se le belve continuano ad assediarci, è ben necessario che ci cerchiamo un altro passaggio — rispose Zamora.

Il gitano le gettò uno sguardo, in cui brillava una fiamma sinistra.

— Ti preme salvarlo? — disse poi, spegnendo la lampada.

— Chi?

— Carminillo.

— È lui che mi darà il totem del primo re zingaro.

— Ah, lo credi?

— Sa quasi dove si trova nascosto.

— Quasi!... — ripetè il giovane, ironicamente. — Il Riff è lungo, largo, molto alto, ed anche popolato da briganti che odiano gli spagnoli.

— Questo lo si sa. È meglio che esploriamo la caverna — disse la gitana. — Tutta quest'acqua che scorre sotto le alghe da qualche parte uscirà.

— Lo credo anch'io — rispose Janko.

— Andiamo avanti o torniamo indietro ad aiutare i due studenti nella difesa?

— L'entrata della caverna è barricata, quindi nulla hanno da temere.

— Potrebbe venire rovesciata.

Il gitano alzò le spalle.

— Ci pensino loro a cavarsela — disse poi. — Potevano rimanere nella Spagna.

— Sei cattivo, Janko!...

— Sono un gitano.

— Ma anche fra i gitani si trovano degli uomini onesti.

— Oh!... — esclamò Janko, con una brutta smorfia. — Si va?

— Andiamo — rispose la gitana.

— Verso la morte, forse, per salvare quei pezzenti di chitarristi?

— Sono studenti dell'Università di Salamanca.

— Bella professione!... Non saprebbero, in un nostro accampamento, accomodare una pentola di rame.

— Non sono zingari.

— Già, sono principi perché studiano a Salamanca.

— Su, cammina, pauroso.

— A me, pauroso!... — urlò Janko. — Se un'altra persona mi avesse data questa offesa, a quest'ora non sarebbe più viva.

— Ho un fucile anch'io, e ben caricato.

— E oseresti fare fuoco contro di me?

— All'entrata della caverna si spara, e noi stiamo qui a chiacchierare... Salviamo quei due giovani.

— Potevano rimanere all'Università.

— Ed il totem?

— Ah, sì: aspetta il totem!

— Carminillo lo troverà.

— Carminillo!... — disse il gitano, stringendo i denti. — Lo vedremo.

— Basta, abbiamo perduto molto tempo, e non abbiamo fatto nulla.

La gitana scese nella seconda caverna, tutta sussurrante di acque che scorrevano sotto il folto strato di alghe. Aveva percorsi quindici passi, quando Janko, con un grido terribile, l'arrestò.

— No, Zamora, qui vi è la morte!...

— Anche qui dei leoni? — chiese la gitana, preparandosi a far fuoco.

— Guarda come si agitano le alghe!...

Uno spettacolo spaventevole si offriva, in quel momento, dinanzi agli occhi dei gitani. Gli strati d'alghe, impregnate d'acqua, si alzavano e si abbassavano mostrando, attraverso le fenditure, le teste dei terribili pitoni delle caverne.

— Fuggi, Zamora! — urlò Janko.

La gitana, agile e lesta come un uccello, guadagnò subito l'entrata della seconda caverna, e sparò un primo colpo. Alla detonazione, che rimbombò fortissima, i pitoni tornarono a ricacciarsi sotto le alghe, continuando però a rimuoverle in tutti i sensi.

Janko non aveva tardato a raggiungerla, ma quando stavano per prendere la corsa verso la prima caverna, videro, con loro immenso terrore, le alghe asciutte tumultuare e poi fendersi.

Altri pitoni, che avevano vissuto benissimo anche all'asciutto, comparivano, sibilando rabbiosamente e tentando di liberare le formidabili code.

I due gitani si erano fermati. Non osavano più avanzare né indietreggiare poiché lo stesso pericolo li minacciava da tutte le parti.

— Siamo perduti!... — esclamò Zamora.

— Forse no — rispose Janko, con un brutto sorriso.

— Come vuoi passare attraverso a tutti questi rettili che sono tanto forti da stritolare anche un bue fra le loro spire?

— Dietro di noi vi è una caverna impregnata d'acqua. Diamo fuoco a queste alghe ed arrostiamo tutte queste bestie.

— L'incendio si propagherà e raggiungerà anche gli studenti — disse Zamora.

— Forse essi sono già riusciti a sbarazzarsi delle belve e ad uscire. Non odo più nessun colpo di fucile.

— Non osare, Janko!...

— Non voglio morire io — rispose il gitano. — E poi devo salvare anche te.

— E se l'incendio li sorprendesse ancora dietro la barricata?

— Se la caveranno anche loro come potranno.

Spezzò la lanterna, versò sulle alghe dell'olio, poi gettò uno zolfanello. Una fiamma spaventevole si alzò subito, rovesciando all'intorno miriadi di scintille, pronte a provocare nuovi incendi.

— Che cosa hai fatto, Janko!... — gridò Zamora.

— Ti salvo.

— E bruci gli studenti.

— Il fuoco non si allargherà fino alla barricata. Vuoi farti stritolare? Ritorniamo nella caverna umida: là non correremo nessun pericolo, e l'aria non ci mancherà.

— Janko, ho paura! ...

— Dammi una mano e seguimi.

L'incendio si propagava con rapidità prodigiosa. Le alghe bruciavano a masse, ed insieme ad esse bruciavano i pitoni, i quali non avevano avuto il tempo di fuggire. Un acuto odore di carne arrostita si spandeva in tutte le direzioni.

Janko prese Zamora per una mano e tornò, a gran corsa, nella caverna umida.

Il fumo e le scintille li inseguivano, ed un intenso calore cominciava ad avvolgerli.

— Corri, Zamora!... Corri!... — urlava il giovanotto, trascinandola in una corsa sempre più rapida.

Raggiunti gli strati d'alghe inzuppati d'acqua, si fermarono un momento per sparare alcuni colpi di fucile, per far rintanare i rettili, poi avendo trovato una costa di pietra, simile a quelle che si incontrano sovente nelle savane americane, continuarono la corsa per altri dieci minuti, fermandosi sotto lo squarcio da cui scendeva la luce.

In lontananza il fuoco continuava ad avvampare, però non vi era più nessun pericolo pei due gitani. Le alghe, impregnate d'acqua, non avrebbero potuto ardere.

I pitoni, allarmati da quell'insolito calore, e da qualche nuvola di fumo che si sollevava, di quando in quando, anche dentro la seconda caverna, continuavano ad agitarsi, mostrando le loro teste per poi ricacciarsi subito sotto.

Non volevano far la fine degli altri che avevano avuto la pessima idea, quantunque rettili acquatici, di seppellirsi fra le alghe secche per farsi arrosolare, e cercavano le acque scorrenti sotto l'immenso ammasso di vegetali marini.

Janko e la gitana, dopo d'aver sparato alcune fucilate, avevano raggiunta una roccia la quale emergeva quasi proprio nel centro della caverna, spingendosi in alto per una diecina di metri.

— Ecco la salvezza — disse il giovane, tenendo sempre per mano Zamora. — Lassù non avremo da temere né i pitoni, né il fuoco, né i leoni, ammesso che ve ne fossero.

— E poi? Che cosa faremo? — chiese la gitana.

— Aspetteremo che tutte le alghe della prima caverna abbiano finito di bruciare, e cercheremo di ritrovare i tuoi amici, se il fuoco li avrà risparmiati — rispose il gitano. — Vi sono delle casse di munizioni in mezzo alla barricata, e salteranno tutti. Io spero di non ritrovare più nessuno vivo.

— Janko!... — gridò Zamora, con voce minacciosa. — Tu hai scatenato il fuoco per arrostirli, è vero?

— No, per salvarti dalle strette mortali dei pitoni. Quegli studenti sono uomini, hanno delle armi, cerchino di raggiungere l'orca. Là nulla avranno da temere.

— Tu hai cercato di assassinarli codardamente, Janko!...

— Io? Che cosa m'importa di quegli stranieri? Non appartengono a nessuna tribù di gitani, e quindi io non ho l'obbligo di proteggerli.

— Altri uomini avrebbero data una risposta ben diversa.

— Io sono un gitano — disse Janko, alzando le spalle. — Non ho né patria, né amici.

— Miserabile!...

— Non spaventare i pitoni. Cominciano già ad inquietarsi della nostra presenza, e probabilmente tenteranno la salita della roccia.

— Siamo armati.

— Sono troppi i rettili da distruggere. Su via, coricati presso di me e vediamo che cosa sta per succedere.

— Nell'altra caverna si spara, ora. Non odi le detonazioni?

— Sono gli studenti che si difendono e fanno benissimo — disse tranquillamente il gitano. — Se avranno caldo vengano a raggiungerci. Qui si sta bene anche se le alghe divampano fra nuvoli di scintille. Potremo prendere anzi dei bagni deliziosi.

— E non pensi agli altri?

— Io? Ma che! Non sono gitani come noi, e basta; io per loro nulla arrischierò.

— Ed il totem che farà di me la regina di tutti gli zingari della Spagna?

— È un affare che non mi riguarda — rispose brutalmente Janko.

— Eppure l'avrò, malgrado tutti i tuoi tradimenti!... — gridò Zamora.

— Va' a prenderlo insieme al bel Carminillo. Comincia intanto ad attraversare la caverna piena di fuoco se vuoi raggiungere i tuoi amici. Per ora mi trovo bene qui e rimango... Bada però che i pitoni tentano l'assalto della roccia.

— Vengano, e vedranno che accoglienza farò loro. Questi fucili, che il capitano della Kabilia tentava di contrabbandare, sono veramente meravigliosi.

Zamora si era seduta su una sporgenza ed aveva imbracciato il mauser.

Ogni pitone che cercava di avvicinarsi alla roccia, cadeva colla testa attraversata da una buona verga di piombo. I colpi si seguivano ai colpi, e nella prima caverna facevano eco i fucili degli studenti, in lotta non più contro un paio di leoni soltanto, ma bensì contro una vera orda di belve feroci.

Zamora sparò venticinque colpi, poi disse: — Basta. Le munizioni sono troppo preziose in questo paese abitato da briganti.

Si rannicchiò su se stessa, a qualche passo da Janko, e guardò verso la prima caverna. Tutto bruciava là dentro, e nuvole di fumo continuavano ad uscire.

Ormai la caverna doveva essere diventata un gigantesco forno.

— Ah, Janko!... — disse la gitana, mentre la luce diminuiva, essendo il sole prossimo a scomparire in mare. — Tu hai perduti quei due valorosi, e forse questo terribile tranello l'avevi già meditato.

— Cominci ad annoiarmi — rispose il gitano. — Ti ho salvata, e mi pare che dovresti essere contenta.

— Ma gli altri?

— Sono giovani di buon fegato che non s'impressionano per la presenza d'un leone . Li abbiamo veduti alla prova. Io sono certo che sono più al sicuro essi che noi.

— Vorrei saperlo, io — disse la gitana, con voce alterata.

— Pensiamo a noi. Fra poco calerà la notte, ed i pitoni non rimarranno fermi. Ho fatto male a rompere la lampada, ma ormai ciò che è successo è successo. I rimpianti sono inutili.

— E dovremo aspettare l'alba su questa roccia?

— Vorresti, Zamora, avventurarti su questi strati d'alghe, senza poterci vedere? Potremmo correre il pericolo di venire inghiottiti, poiché io non so più dove ora si trovi la costa di pietra che ci ha guidati fino qui.

— Janko, la mia paura aumenta.

— Tu, la più coraggiosa fanciulla della tribù?

— Non vedo altro che il fuoco che arde sempre laggiù.

— Qui non verrà, dunque se vuoi, potresti prenderti anche qualche ora di sonno.

— Coi pitoni che forse, approfittando delle tenebre, si avanzano, tentando di scalare la roccia!

— Ma no, Zamora. Sono troppo pigri. Toh!... Ecco un po' di luce che torna a scendere dalla spaccatura. La luna deve essersi alzata sul mare.

Si guardò intorno e non potè fare a meno di provare un brivido di spavento.

Quantunque la luce fosse scarsa, aveva potuto distinguere una quindicina di pitoni, lunghi sette od otto metri, e grossi come la coscia d'un uomo, schierati alla base della roccia, pronti a tentarne l'assalto, quantunque assai difficile per loro.

— Notte spaventosa! — esclamò Janko. — Sarà cattiva per gli studenti e nemmeno per noi allegra... Zamora, riprendi il fucile. Li vedi?

— Sì — rispose la gitana, con voce un po' tremula. — Vengono a mangiarci.

— Io ho ancora un buon centinaio di cartucce ed anche tu devi averne parecchie. Aspettiamo che la luce si diffonda meglio, e poi daremo battaglia. Siamo troppo abili per sprecare le munizioni senza ottenere qualche risultato... Si provino pure a salire.

I rettili, affamati, avendo fiutata la preda, facevano sforzi disperati per spingersi su per la roccia, senza però riuscirvi.

Si allungavano più che potevano, sibilando rabbiosamente, poi scivolavano tutto d'un colpo e sprofondavano nelle alghe, sollevando alti getti d'acqua.

Tornavano però all'assalto, sempre più accaniti, tentando perfino di aiutarsi l'un l'altro.

Janko, vedendo che uno già si allungava verso la cima del rifugio, gli fece scoppiare la testa con un colpo di mauser. Il rettile precipitò come uno straccio, s'immerse e rimase sotto le alghe.

Anche Zamora aveva sparato un colpo e, come sempre, aveva colpito il bersaglio.

— Erano quindici, poiché io li avevo contati attentamente, ed ora non sono più che tredici — disse Janko. — Avevi torto ad aver paura. I pitoni non sono dei leoni.

— Che gli studenti si siano sbarazzati dei felini che li assediavano?

— Non avevano dinanzi a loro che un leone ed una leonessa, allora.

— Possono essersene aggiunti degli altri, Janko.

— I fucili del capitano della Kabilia sono splendide armi da fuoco, l'abbiamo già provato. Anche i tuoi due studenti se la saranno cavata con un po' di emozione. Ecco un altro pitone che è quasi riuscito a raggiungerci... A te, prendi!... Ora non sono che dodici.

Il gitano aveva sparato fra le mascelle spalancate del rettile, fracassandogli la testa.

Gli altri, spaventati, si lasciarono scivolare fino allo strato d'alghe, dimenando furiosamente le possenti code.

In quel momento una detonazione echeggiò nella prima caverna, ed una forte corrente d'aria calda si rovesciò sui gitani, quasi asfissiandoli.

— Janko!... — chiese Zamora, appena potè parlare. — Che cosa è successo? Me lo sapresti dire?

— Io so che il fuoco si è spento di colpo — rispose il giovanotto.

— E quella detonazione?

— Sono scoppiate le casse delle munizioni che formavano la barricata. È una cosa facile a capirsi.

— E gli studenti?

— Non avranno aspettato di saltare in aria.

— Janko, sono molto inquieta.

— Ed io niente affatto.

— Perché tu sei qui al sicuro.

— Circondato dai pitoni!... Nemmeno la nostra posizione è invidiabile.

— Si è proprio spento il fuoco che divorava le vecchie alghe della caverna?

— Non vedo risplendere più nessun barlume di luce, né uscire alcuna nuvola di fumo gravida di scintille.

— Farà caldo però là dentro — osservò Zamora.

— Come dentro un forno — rispose Janko. — Il pane potrebbe cucinare comodamente. Che cosa vorresti fare, tu? Andare in cerca degli studenti? Non dirmi di no, Zamora, lo leggo nei tuoi occhi.

— Se fosse possibile, sì, e subito. Dovessi passare sul corpo dei pitoni.

— Ti preme Carminillo!...

— M'interessano tutti e due.

— Se quel Pedro fosse saltato in aria insieme alle casse, non saresti inquieta. Ma Carminillo non conosce ancora l'odio mio.

— Che cosa intendi dire, Janko? — chiese la gitana, impugnando il mauser per la canna e facendo girare il calcio sulla testa del giovanotto.

— Che se non l'ho potuto scucire con un buon colpo di navaja sul ponte della Kabilia, altre occasioni non potrebbero mancare per vendicarmi. Quando un rivale dà noia, si cerca di sopprimerlo.

Il gitano aveva pronunciate quelle parole minacciose con voce ben decisa, digrignando i denti come una jena in collera.

Zamora fu lì lì per abbassare il calcio del mauser sulla testa del miserabile, ma proprio in quel momento i pitoni ritornavano alla carica. Avevano sollevato delle grosse masse d'alghe, accumulandole contro la roccia, poi puntando le robuste code si erano spinti in alto, decisi a guadagnarsi quella preda umana.

— Lascia Carminillo e bada ai rettili — disse Janko. — Sarebbero ben contenti di divorare il tuo bel corpo... Tira dunque!...

— Su di te o sui pitoni? — chiese Zamora.

— Ti ho salvata e minacci ancora di assassinarmi? È vero che si dice che i gitani non sono riconoscenti.

Un serpentaccio enorme stava per raggiungere la cima della roccia. Altri lo seguivano, cercando di aiutarsi a vicenda.

Non era il momento di altercare, di fronte ad un pericolo così imminente e terribile.

— Su, Zamora — disse Janko. — Aiutami.

— Sono pronta — rispose la gitana, la quale fissava intrepida gli schifosi assalitori.

— Fuoco!...

— Per qualche minuto la caverna echeggiò di colpi. I mausers facevano miracoli. Ogni colpo che partiva era un pitone che ritornava nel fitto letto di alghe, per non uscirne più.

— Basta — disse Janko, il quale non voleva sprecare le munizioni. — Mi pare che ne abbiano avuto abbastanza questa volta. Potremo riposarci qualche po', quantunque il letto sia estremamente duro, ma i gitani sono abituati a tutto... Vuoi coricarti, Zamora? Veglierò io.

— Non sei stanco, tu?

— Piuttosto affamato — rispose il giovanotto. — Sono molte ore che nessun alimento entra nel mio stomaco.

— Cucinati un pitone.

— Se avessi la possibilità, lo farei, e la carne di quelle gigantesche anguille non mi farebbe nausea.

— Portane una nella prima caverna, così saprai dirmi qualche cosa dei due studenti.

— E da quale parte potrei passare? E poi caricarmi sulle spalle uno di questi colubri che pesano più di me?

— E se...

— Taci, Zamora.

— Tornano all'attacco?

— Io mi domando se per caso questa caverna ha qualche comunicazione col mare. Odi?

— Si direbbe che l'acqua ribolle.

— E non hai osservata una cosa tu? È vero che la luce è piuttosto scarsa.

— Vuoi sempre spaventarmi?

— Tu sei più coraggiosa d'un uomo, quindi non mi ci provo nemmeno.

— Che cos'è che hai notato, adunque? — chiese la gitana.

— Che lo strato d'alghe, da quando noi siamo qui, si è innalzato almeno d'un metro.

— Concludi.

— La marea le alza.

— Morremo annegati? — chiese Zamora.

— Siamo troppo in alto — rispose Janko. — E poi noi sapremo trovare la costa che attraversa la caverna. Dammi retta: coricati, e non aver paura. Il fido Janko veglia su di te ed è pronto a morire per te.

— Preferisco vegliare.

— Diffideresti di me?

— E perché? Mio povero Janko, hai la testa che ti gira.

Il gitano masticò una bestemmia.

— Tu pensi troppo a quei pezzenti di Salamanca — disse poi, con voce rauca.

— Certo che ci penso, e vorrei sapere se sono ancora vivi o se il fuoco li ha consumati — soggiunse la gitana.

— Tu che sei una famosa indovina, dovresti saperlo — rispose Janko.

Zamora stava per rispondere, quando le alghe subirono un improvviso rialzamento.

Era già il secondo che succedeva in meno di un'ora. La gitana e Janko si guardarono in viso, alla pallida luce che scendeva dallo squarcio.

— Che siano i pitoni che lo alzano? — chiese Zamora.

— Se li abbiamo distrutti quasi tutti — rispose Janko, il quale però era diventato assai pallido.

— Tu credi dunque...?

— Che questa caverna abbia delle comunicazioni col mare, e che sia l'alta marea che le fa salire.

— E quei torrenti che prima udivamo gorgogliare?

— Saranno stati assorbiti, e riprenderanno il loro corso a bassa marea.

— Vorrei assaggiare quest'acqua per sapere se è salata o dolce.

— Tieni il mio fucile e la mia navaja ed io scendo.

— Ed i pitoni?

— Veglierai tu su di me.

— Tieni almeno il coltello.

— Forse hai ragione, Zamora.

Il gitano si alzò, guardò attentamente intorno, e non avendo scorto nessun rettile, si lasciò scivolare dalla roccia, sicuro di poterla risalire subito in caso di pericolo, poiché vi erano molte screpolature contro le quali si potevano posare i piedi.

Discese sei o sette metri, tenendo la navaja aperta dentro la fascia, e raggiunse lo strato delle alghe. Zamora si era inginocchiata, col fucile imbracciato, pronta a far fuoco.

— Acqua salata!... — gridò Janko, il quale aveva bagnato un dito e l'aveva accostato alle labbra.

— Risali subito.

Il gitano stava per obbedire, quando la massa delle alghe si squarciò proprio vicino a lui, ed un mostruoso pitone gli si precipitò addosso, tentando, con una mossa fulminea, di avvolgerlo e di portarselo via.

— Bada, Janko!... — aveva gridato la gitana, facendo precipitosamente fuoco.

Il giovanotto si era però accorto della presenza del terribile serpente d'acqua.

Impugnò la navaja, piantò un piede in un crepaccio della roccia, si rovesciò sul dorso per non farsi avvolgere, e cominciò a menare coltellate su coltellate, gridando ogni volta: — Prendi, brutta bestia!...

Il pitone gli stava sopra, contorcendosi rabbiosamente e fischiando come una piccola locomotiva. Tentava di spostare quel corpo umano per poterlo stringere, ma Janko, che doveva possedere, oltre ad un grande coraggio, molto sangue freddo, stava come fissato contro la roccia, non cessando di lavorare di coltello.

Zamora, sulla cima del rifugio, assisteva impotente alla terribile lotta, poiché l'uomo ed il rettile erano così l'uno addosso all'altro, che non osava più far fuoco. Decisa però ad accorrere in aiuto del compagno, stava per cercare il luogo migliore per discendere, quando un urlo selvaggio del gitano l'arrestò.

Si curvò tenendo il fucile per la canna, e fu in tempo a vedere il pitone sprofondare fra le alghe privo della testa. La navaja aveva avuto ragione sulla forza brutale del mostro.

Il gitano ancora in preda a una vivissima emozione, facile a comprendersi, rimase qualche istante immobile, respirando a pieni polmoni, poi tentò di risalire.

— Aggrappati al fucile, Janko!... — gridò Zamora, la quale si trovava già a breve distanza dal luogo ove si era svolta la terribile lotta.

Il giovane, vedendo il calcio dell'arma a portata di mano, vi si afferrò con suprema energia.

— Bada di non cadere, Zamora — disse. — Sono troppo spaventosi quei rettili.

— Non temere, sono bene assicurata in una fessura.

Janko sostò un altro momento, respirò di nuovo a lungo, poi raggiunse la cima della roccia senza quasi più servirsi del fucile che la gitana gli porgeva.

Scosse di dosso l'acqua che inzuppava le sue vesti, poi, drizzandosi di fronte a Zamora, che lo guardava con inquietudine, le chiese: — Credi tu che il tuo Carminillo sarebbe stato capace di fare altrettanto?

— Io l'ho veduto uccidere un leone — rispose la gitana. — Un uomo che ammazza quelle bestie non può essere un pauroso.

— Sì, nascosto dietro la barricata — rispose Janko. — Anche un fanciullo avrebbe potuto compiere una simile prodezza, purché avesse avuto fra le mani un fucile, e specialmente un mauser.

— Finiscila, noioso!... — esclamò Zamora. — Lascia in pace quei due giovani che tu, forse, hai assassinati.

— Non io, le alghe troppo secche — rispose il gitano. — E poi non credo che siano morti... Ancora un aumento? Che cosa sta per succedere in questa dannata caverna?

— Tornano ad alzarsi le acque?

— Sì, Zamora.

— Fuggiamo, Janko.

— Dove?

— Verso la prima caverna.

— Passando su che cosa?

— Sulle alghe.

— Hai dimenticato i pitoni?

— Ah, no!...

— Ed allora rassegnati ad aspettare che giunga il deflusso.

— Il totem comincia a costare troppi sacrifici.

— Avresti fatto meglio a rimanere a Siviglia col titolo di figlia della regina senza essere una regina.

— Ah, no!... — urlò la gitana. — Mia madre, prima di morire, mi ha consegnato il fazzoletto di seta.

— Sì, va' a cercare il totem sul Gurugù — disse il gitano, con ironia. — Chi ha decifrati quegli sgorbi che nemmeno il capo della tribù, che ci terrebbe come te ad avere l'insegna dei primi re gitani, ci ha capito niente?

— Carminillo.

— E lo ha lui il fazzoletto?

— Io non lo so.

— Lui o Pedro?

— Non lo so.

Janko stette un momento silenzioso, poi stringendo i denti disse con voce irosa: — Non siamo ancora sul Gurugù.

— Vorresti rubargli quel fazzoletto?

— Io? Non ne ho bisogno. Io so, forse, dove i primi gitani spagnoli, chi sa per quale capriccio, sono venuti a seppellire nelle terre del Riff il loro primo re ed i suoi tesori.

— Tu menti, Janko.

Il gitano impugnò la navaja e fece un salto innanzi, ma si trovò davanti al fucile di Zamora.

— Un passo ancora, — disse la gitana, mentre gettava via l'altro mauser affondandolo in mezzo alle alghe — e tu sei morto.

— Non ti fidi più di me, dunque?

— No.

— Già, non sono Carminillo!... Sarebbe stato meglio che quel pitone mi avesse trascinato sotto le alghe, o che mi avesse spezzate tutte le costole. Bada, Zamora!... L'odio dei gitani, tu già lo sai, fa paura anche agli uomini più orgogliosi.

— Io non ti temo, Janko — rispose la giovane, la quale teneva sempre un dito sul grilletto del fucile.

Il giovane indietreggiò di alcuni passi, finché lo permetteva la superficie della roccia, aprì la mano destra, vi mise sopra la navaja e disse: — Tu conosci il colpo dei valienti, che a venti passi sgozzano una persona?

— Purché si lasci sorprendere — rispose la gitana. — Se vedo il lampo dell'acciaio sparo, e tu sai che difficilmente sbaglio.

— Vorresti assassinarmi dopo che ti ho salvata?

— Giù quell'arma, obbedisci!...

Gli sguardi del gitano, poco prima fiammeggianti, a poco a poco si spegnevano.

Con un colpo secco chiuse la navaja, la rimise nella fascia e si sedette, o meglio si lasciò cadere, mormorando: — Aspetteremo!...