I briganti del Riff/7. Il colpo dei valienti

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7. Il colpo dei valienti

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7.

IL COLPO DEI VALIENTI


Le acque intanto non cessavano di alzarsi. Sul mare vi doveva essere una forte marea, e la caverna, avendo delle misteriose comunicazioni coll'esterno, ne risentiva il contraccolpo. La tempesta invece doveva essere cessata completamente, poiché dallo squarcio non scendeva nessun soffio d'aria.

Le alghe pareva che fossero agitate da due correnti, incontrantisi quasi alla base della roccia, poiché era lì che si accumulavano e che si alzavano, per poi, chissà per quale causa, tornare ad affondare. Giravano vorticosamente, poi sostavano, per riprendere poco dopo il movimento circolare.

Janko e Zamora, impressionati da quel fenomeno che non riuscivano a spiegare, si erano nuovamente ritirati verso la cima della roccia, guardando angosciosamente le acque che giungevano coi vegetali marini, borbottando.

Era trascorsa un'altra ora, lunga come una notte intera pei due disgraziati che si credevano ormai destinati a servire infallibilmente di pasto ai pitoni, non credendo di averli distrutti tutti, quando Janko, che non voleva esporre Zamora ad una così orribile fine, quantunque forse in fondo al cuore cominciasse ad odiarla, si alzò dicendo, con voce risoluta: — Fuggiamo!... L'acqua sale sempre.

— Da quale parte, se tu non sai più dove si trova la costa di roccia che ci ha condotti fino qui? — chiese la gitana.

— Andrò a cercarla — rispose Janko.

— Per annegarti o farti stritolare dai rettili?

— Che importa a me della morte? La vita ormai non mi sorride più.

— Tu sei pazzo. Sarebbe un tentativo inutile. Quando siamo giunti qui non vi era tant'acqua in questa caverna: aspettiamo che si ritiri.

Il gitano scosse la testa.

— No, — disse poi — non aspetteremo qui la morte.

— Io non ti seguirei.

— Nemmeno sulle mie spalle? Non ti farò bagnare neppure la punta dei piedi.

La gitana guardò il giovane, il quale aveva nuovamente aperta la navaja. Il viso del gitano era orribilmente alterato, ed i suoi occhi nerissimi scintillavano come quelli d'un lupo.

— Non verrò — disse Zamora.

— Ti costringerò.

— Con quale diritto?

— Il capo della tribù mi ha fatto giurare di vegliare su di te per rivederti a danzare ancora a Siviglia e a Saragozza. Un pericolo ti minaccia ed è mio dovere salvarti... Vieni, sì o no?

Zamora balzò indietro e puntò il mauser.

— Janko — disse con voce minacciosa. — È la seconda volta che io sono costretta a difendermi da te. La tua navaja non mi fa paura, quantunque tu sappia lanciarla a venticinque passi di distanza e piantarla nella gola dell'avversario. Tengo gli occhi bene aperti su di te e spio tutte le tue mosse. Guardati, Janko!... Sono decisa a tutto.

— Anche ad uccidermi? — chiese Janko.

— Se fosse necessario, sì — rispose freddamente la gitana, la quale non perdeva di vista il coltello.

— Perché non sono Carminillo! — ruggì il giovane.

— Avrei già ucciso anche quel giovane se mi avesse minacciata.

— Ed allora muori sola e dannata!... Che i pitoni stritolino ben bene il tuo corpo e divorino le tue tenere carni.

— Saprò difenderle.

— Per l'ultima volta, ti scongiuro di seguirmi... Siamo troppo giovani per morire.

— Ma sei tu che mi conduci verso la morte.

— Tento salvarti!...

— No.

Il gitano si ripiegò su se stesso ed allungò rapidamente il braccio destro, mettendo sul palmo ben aperto il coltello.

— Fermati!... — gridò Zamora, che lo teneva sempre sotto la mira. — Non odi tu?

— Che cosa?

— Ascolta attentamente.

— Non approfitterai per cacciarmi una palla nel cranio?

— Apparteniamo alla medesima tribù, quindi tu sei per me come un fratello. Odi!... Odi!...

Dei rumori strani si propagavano attraverso alla caverna, mentre le alghe, quasi fosse loro mancato improvvisamente ogni sostegno, tornavano ad abbassarsi disgregandosi. — È l'acqua che si ritira — disse il gitano. — Sfugge da tutte le parti attraverso a dei canali sotterranei che noi non potremo mai scorgere.

— Come vedi, anch'io t'ho salvata la vita, poiché ora potremo cercare la costa.

Janko ebbe un sogghigno, simile a quello d'una giovane pantera, poi tornò a guardare le alghe che continuavano ad abbassarsi. In mezzo ad esse si agitava ancora qualche mostruoso pitone, sfuggito al fuoco dei mausers.

— Cerchiamo di guadagnare la prima caverna, ora — suggerì la gitana. — Il fuoco è cessato da molto tempo, e l'aria sarà abbastanza respirabile. Voglio sapere che cos'è successo dei due studenti. Non troveremo che le loro ossa, e del fazzoletto di seta che porta le indicazioni per farmi padrona del totem, nessuna traccia.

— Anche se non hai voluto dirmelo, tu l'avevi affidato a Carminillo, è vero? Il sapientone dell'Università di Salamanca che non sa fare altro che suonare la chitarra!

— Ciò non deve interessarti.

— Anzi, Zamora.

— Tu non ci avresti capito nulla.

— Segnalava il Gurugù come il monte che lo nasconde?

— In altro momento riprenderemo questo discorso. Ora dobbiamo pensare soltanto a metterci in salvo.

— Vuoi darmi per qualche minuto il tuo fucile?

— Che cosa vuoi farne?

— Per cercare la costa senza arrischiare i miei piedi.

— Hai la navaja, può bastarti.

— Scommetterei un reale contro mille pesetas che tu saresti contenta che qualche pitone mi portasse via le gambe.

— Allora poco fa non ti avrei difeso.

— Io non ti comprenderò mai, Zamora, — disse Janko — e quindi è meglio che ci occupiamo a cercare la costa che passa attraverso le alghe, e che andiamo a raccogliere le ossa dei due studenti.

Rise ferocemente, poi continuò a scendere la roccia, piantando la punta del coltello in diverse direzioni.

A un tratto un grido sfuggì, un grido di trionfo: — La costa!... La costa!... Zamora, siamo salvi!...

— E le acque? — chiese la gitana.

— Continuano ad abbassarsi.

— Potremo raggiungere l'altra caverna?

— Lo spero. Vuoi appoggiarti alle mie spalle?

— Preferisco tenere le mani libere per servirmi del fucile. E poi, dei miei piedi di danzatrice, mi fido... È larga la costa!

— Un mezzo metro, che diventerà forse uno, quando la grande marea sarà terminata.

— Un vero sentiero.

— Sul quale noi faremo una rapida marcia se i rettili ci lasciano in pace. Mi pare che siano scomparsi sotto le alghe.

— Per sorprenderci più facilmente.

Lentamente, per non scivolare, i due gitani si abbassarono fino a trovare il passaggio che tagliava la caverna da una estremità all'altra.

Le acque continuavano a gorgogliare sordamente. Pareva che delle pompe le aspirassero per rigettarle in mare.

— Metti una mano sulla mia spalla — disse Janko. — So bene che tu sei la più abile danzatrice di Saragozza e di Siviglia. Non rifiutarmi questo favore che a Carminillo avresti accordato senza farti tanto pregare.

— Sia pure.

La costa, larga un buon mezzo metro, stava dinanzi a loro abbastanza visibile, essendo la luce lunare aumentata.

I due gitani dettero un ultimo sguardo alle alghe, per paura dei pitoni, poi s'incamminarono, mentre la caverna continuava a rumoreggiare come se una piccola burrasca si scatenasse sotto quegli ammassi giganteschi di vegetali marini.

Avevano percorso cautamente una cinquantina di passi, quando la gitana gridò con voce imperiosa: — Fermati, Janko!...

— Torna ad alzarsi l'acqua?

— Ascolta!...

Il gitano si era arrestato tendendo gli orecchi.

— Si direbbe che da qualche parte si sta cacciando qui dentro il vento — disse.

— Sono sibili?

— Mi sembrano latrati soffocati — rispose Zamora.

— È la caverna dei misteri questa!... — urlò il giovane, esasperato.

In quel momento la luce, già debole, quasi scomparve.

— Guarda!... Guarda, Janko!... — gridò la gitana.

— Si avanzano dei cani attraverso le alghe galleggianti?

— No, guarda in alto.

— Che vada all'inferno anche il totem degli zingari!... Comincio ad averne di troppo.

— Avresti paura?

— Tu lo sai che la paura non l'hanno mai conosciuta i gitani. Che sia impressionato non te lo nascondo, Zamora.

Sopra di loro passò come una gran folata d'aria, poi centinaia e centinaia di giganteschi pipistrelli, che parevano uscissero da qualche galleria situata all'estremità della caverna, si misero a volteggiare a zig-zag, toccandoli colle loro fredde ali.

— Da dove vengono e che cosa vogliono questi uccellacci della notte? — si chiese il gitano, preparandosi a lavorare di navaja.

— Sono pericolosi? — chiese Zamora. — Ho udito narrare che strappano i capelli alle donne.

— Storie!... — rispose Janko. — Forse vengono a mangiare i pitoni che noi abbiamo uccisi. Si servano pure, che noi di quella carne non ne vogliamo, non avendo la possibilità di cucinarla.

— Pare che abbiano l'intenzione di assalirci, Janko. Sono almeno un mezzo migliaio.

— Io non ho mai udito raccontare che i pipistrelli siano pericolosi. È vero che questi sono ben grossi ed hanno il muso da cane. Bada di non lasciare la costa, anzi, appoggiati salda a me.

— Sì, Janko.

— Grazie, Zamora.

I due gitani ripresero la loro pericolosa marcia, assicurandosi bene coi piedi della continuazione della costa prima di fare un altro passo innanzi, temendo di scomparire improvvisamente fra le alghe. Spiavano anche le pozze d'acqua, per paura che sorgesse qualche pitone, non essendo persuasi di averli distrutti tutti.

Avevano percorsi altri cinquanta passi ed ormai l'entrata della prima caverna non distava più che qualche centinaio di metri, quando i pipistrelli piombarono su di loro agitando furiosamente le ali e mandando dei latrati sommessi.

Janko ne decapitò due o tre, ma l'assalto non accennava a cessare. Gli uccellacci delle tenebre si radunavano in alto, roteavano per qualche mezzo minuto in lunghe file, poi si stringevano e calavano alla battaglia.

— Janko, — disse Zamora, che si sentiva stordire da quello strano attacco — lasciami un momento.

— Cadresti fuori della costa.

— No, vi è posto sufficiente qui anche per due persone.

— Che cosa vuoi fare?

— Sparare.

— Era un po' che mi chiedevo che cosa tu aspettassi. La mia navaja si trova impotente.

La gitana fece due passi indietro, si assicurò della larghezza della costa, poi sparò l'uno dietro l'altro, sei colpi, e proprio nel momento in cui l'attacco stava per rinnovarsi.

Gli uccellacci, fulminati a bruciapelo, spaventati dalle detonazioni che si ripercuotevano acutissime nell'ampia caverna, si rialzarono rapidamente, lasciando cadere parecchi compagni morti o feriti, descrissero un immenso circolo provocando, colle loro ali, una forte corrente d'aria, poi scomparvero, rifugiandosi probabilmente in qualche altra caverna od in qualche galleria.

— Se ne sono andati tutti — disse la gitana, ricaricando, per precauzione, il fucile, poiché pensava sempre a qualche nuova sorpresa.

— Che l'inferno se li tenga! — esclamò Janko. — Non mi sarei aspettato un simile attacco.

— Pitoni ne vedi?

— Non mi pare che ve ne siano.

— Continuiamo?

— Sì, la prima caverna ormai è vicina. Affretta se puoi.

— Ho più fretta io che tu.

— Di vedere gli studenti — disse Janko, aggrottando la fronte.

— Cammina, prima che l'acqua rimonti e che ci anneghi. Qui non vi è più la roccia per salvarci.

Il gitano mormorò qualche cosa, esplorò bene la costa e si avanzò veloce, tenendo la navaja sempre aperta. La gitana, sicura dei suoi piedi di danzatrice, lo seguiva quasi correndo.

Con un ultimo sforzo entrambi superarono la distanza e raggiunsero l'entrata della prima caverna, ma là dovettero subito arrestarsi. Da quella gigantesca arcata uscivano folate d'aria così calda da mozzare quasi il respiro.

— Janko — disse Zamora, che aveva già abbandonata la costa, e che era saltata agilmente su una specie di banchina coperta di cenere. — Potremo noi andare innanzi?

— Bisognerebbe avere dei polmoni foderati di rame — rispose il gitano, col suo solito accento iroso.

— Eppure il fuoco è spento. Io non vedo serpeggiare, fra quegli ammassi di cenere, nessuna lingua di fuoco.

— Ma qui fa caldo; pare di essere dinanzi ad un forno di dimensioni gigantesche.

— Che cosa pensi di fare? Di ritornare nella caverna umida per cercare un'altra uscita?

— I tuoi stivaletti sono di buon cuoio di Cordova?

— Sì, Janko.

— Anche i miei. Tornare fra i pitoni, i pipistrelli e le acque che minacciano d'annegarti senza dartene l'avviso, non me la sento.

— E potremo noi resistere a questo calore?

— Come farai a resistere quando ti faranno precipitare nell'inferno fiammeggiante sempre?

— Non è il momento di scherzare, Janko.

Il gitano alzò le spalle, poi fece un salto innanzi, sollevando una immensa nuvola di polvere. — Si spara verso la spiaggia!... — gridò.

— Che siano gli studenti ancora alle prese coi leoni? — chiese Zamora.

— Va' a chiederlo a loro — rispose il gitano. — Sono colpi di fuoco questi, quantunque non mi sembrino di mauser.

— Sì, Janko.

Tre, quattro, sei [...] La caverna rintronava tutta e le detonazioni sollevavano nembi e nembi di cenere impalpabile, offuscando la vista. Gli spari si succedevano agli spari, senza nessuna regolarità.

— Contro chi fanno fuoco quei pazzi! — chiese il gitano.

— Non sono uomini da sprecare le munizioni contro un pericolo immaginario — rispose Zamora.

— Vadano all'inferno colle loro chitarre! — mormorò Janko.

— Si va o hai paura?

— Dove vai tu, vado sempre anch'io, fossi certo di morire.

— Se tu vuoi torna pure nella caverna umida.

— Senza di te, no.

— Credi che possiamo compiere la traversata senza cadere asfissiati?

— Io ho l'abitudine di non disperare mai. Alza le sottane, affinchè non s'incendino, poiché qualche scintilla può covare ancora sotto la cenere, e se credi che i tuoi polmoni siano ben solidi andiamo in soccorso dei tuoi studenti.

Ed entrambi si precipitarono in quella immensa fornace, ormai spenta, è vero, però sempre caldissima, dopo d'aver coperte le cartucce colle loro casacche, per paura che scoppiassero. Percorsero a corsa disperata più di cento metri, tenendosi per mano, avvolti in una nuvolaglia foltissima, mentre gli spari continuavano a succedersi disordinatamente, poi si arrestarono. L'asfissia cominciava a sorprenderli, quantunque una certa corrente d'aria si fosse ingolfata nella caverna.

— Ritorniamo, Zamora — disse Janko, che aveva gli occhi e la bocca piena di cenere.

— No — rispose l'intrepida fanciulla, la quale prestava sempre attento orecchio alle fucilate. — Sono vivi e voglio vederli prima di morire.

— Credi tu, per mille saette, di poter giungere fino all'entrata della caverna?

— Come vedi non è lontana.

— Cinquecento passi almeno.

— Eppure io non tornerò nella caverna dei pitoni. Ho veduto troppe volte, là dentro, la morte in faccia.

— Taci!... Non sparano più!...

— Che se ne siano andati?

Janko respirò a lungo, poi afferrò Zamora, che pareva fosse lì lì per cadere, se la strinse fra le braccia e tornò a slanciarsi.

— Grazie, Janko — aveva detto la gitana.

Giungere fino all'uscita della caverna, con tutta quella cenere ancora calda che s'alzava sotto la pressione dei piedi, non era un'impresa facile, tuttavia il gitano non disperava.

Si era messo sulla bocca il fazzoletto di seta rossa che portava al collo, e continuava la corsa ma come smarrito, poiché in certi momenti l'uscita della caverna, che il sole doveva allora illuminare, essendo trascorsa la terribile notte, non si vedeva più. La cenere lo avvolgeva impedendogli di guidarsi e per giunta le detonazioni erano cessate.

Percorse altri duecento metri quasi tutti d'un fiato, stringendosi bene la gitana contro il petto, temendo di vederla, da un momento all'altro, cadere, poi si arrestò gridando: — Siamo perduti!... Non vedo più nulla!... Non so più dove dirigermi!...

Coll'alzarsi del sole si era alzata anche la brezza, e delle raffiche entravano, di quando in quando, nella caverna, sollevando le ceneri e facendole roteare fino presso le vòlte.

— Janko!... — gridò la gitana. — Lasciami andare.

— Dove? Non si vede più nulla!...

— Ho il fucile.

— Che cosa vuoi farne?

— Gli studenti, udendo i miei spari comprenderanno che qualche grave pericolo ci minaccia e verranno a cercarci.

— Non saranno così stupidi da cacciarsi fra questo polverone.

— Lasciami andare.

Janko aprì le braccia e la gitana balzò agilmente a terra.

Per un istante scorse in lontananza la bocca della caverna, poi le ceneri ripresero a turbinare più terribili, perché più impalpabili delle sabbie del deserto di Sahara. Si sarebbe detto che il kosmin, il temuto simun degli arabi, si fosse avventato dentro l'immenso antro per provare a scherzare colle ceneri.

— Janko, non ci vedo più — disse la gitana, con voce atterrita.

— Ed io meno di te — rispose il gitano, passandosi e ripassandosi nervosamente sul viso il fazzoletto di seta per riparare la bocca e gli occhi.

— Non cesserà questo vento?

— Solo un marinaio saprebbe dirlo, mentre io non lo sono mai stato... Prova a sparare.

Zamora si tolse il fucile che portava a tracolla, lo puntò in alto e bruciò due cartucce, destando l'eco della caverna. Non erano passati due secondi che due spari fortissimi risposero.

— Gli studenti!... — gridò la gitana. — Sono ancora vivi e verranno in nostro aiuto.

Janko crollò il capo, chiedendosi come avrebbero potuto dirigersi con tutta quella cenere che intercettava la luce sboccante dall'entrata della caverna.

— Consuma un'altra cartuccia — disse dopo qualche istante.

La gitana sparò un terzo, poi un quarto colpo.

Altri spari risposero a poca distanza. Non potevano essere che gli studenti, quindi la salvezza era quasi assicurata.

— Andiamo loro incontro — disse la gitana, prendendo, questa volta, il giovane per una mano. — Chissà che in qualche luogo li incontriamo.

— Magre speranze — rispose Janko. — Finché il vento non sarà cessato noi non potremo scoprirli.

— Ho veduto in questo momento la bocca della caverna.

— Che ora è scomparsa e chissà quando la rivedrai, Zamora. Maledette raffiche!... Non bastava forse l'aria infuocata? Si vuole proprio la nostra morte? All'inferno il totem!...

— Taci, Janko, e cammina invece — disse Zamora. — Gli studenti non sono lontani.

— Che cosa fanno a me i tuoi amici di Salamanca? Finora non mi hanno dato che delle noie.

— Cammina!...

Zamora teneva stretto per una mano il gitano e lo trascinava violentemente, ma la disgraziata, dopo pochi passi, era costretta a fermarsi. La caverna era diventata oscura e la cenere infuriava, passando a grandi ondate, sospinte dalle raffiche del vento marino.

Gli spari intanto continuavano dall'altra parte, ad intervalli di mezzo minuto.

Già più di venti colpi avevano echeggiato dentro la caverna, quando Janko si liberò bruscamente dalla stretta di Zamora, mandando una imprecazione.

— Siamo ben stupidi! — esclamò. — Gli studenti erano pure armati di mausers.

— Sì — rispose Zamora.

— Questi spari sono d'altri fucili, e forse di fucili riffani.

— Ne sei ben sicuro, Janko? — chiese Zamora, con angoscia.

— Ti ripeto che non sono mausers quelli che fanno fuoco.

— Allora gli studenti?...

— Saranno stati catturati.

— E lo saremo ben presto anche noi.

— Ringrazia la cenere, prima maledetta, e che ora ci protegge.

— E dove andiamo noi, Janko?

— Che ne so io — rispose il gitano.

— Se potessimo ritornare nella caverna dei pitoni? Almeno là non vi troveremmo la cenere.

— Ora è troppo tardi, e poi è impossibile guidarsi in mezzo a questa oscurità che, di momento in momento, diventa più fitta. L'uscita della caverna io non la vedo più.

— E nemmeno io, e poi non ci converrebbe spingersi fino là se vi sono i riffani.

— I quali ci farebbero prigionieri e subito — osservò Janko.

— Allora anche gli studenti sono stati presi.

Janko alzò le spalle, pulì alla gitana il viso tutto cosparso di cenere, poi disse: — Tentiamo la sorte.

In quel momento scoppiarono due fucilate, producendo un baccano ben superiore a quello dei mausers che hanno una detonazione molto secca.

— Armi a polvere vecchia — soggiunse Janko, dopo aver ascoltato lungamente. — Dopo i leoni, i pitoni, i pipistrelli, eccoci ora addosso i briganti della montagna. Saremo ben bravi se ce la caveremo, Zamora.

— Ho sempre il mio fucile ed una sessantina di cartucce. Dammi le tue che a te non servono più ora.

— Vuoi anche la navaja?

— No, sei troppo abile a lanciarla ed anche ad usarla in duello mortale — disse Zamora. — Non restiamo più qui, Janko. Mi sento soffocare.

— E dove andare? A gettarci fra le braccia dei briganti della montagna? — rispose il gitano, con voce rauca.

Stette un momento fermo, guardando verso il luogo ove avrebbe dovuto trovarsi l'entrata della caverna, poi afferrò a sua volta per una mano la gitana e la trascinò con sé in una corsa furibonda.

Le ceneri, sollevate dalle raffiche che non cessavano di ululare sulla banchina, roteavano sempre vertiginosamente, rendendo impossibile la marcia. Sotto i loro piedi, di quando in quando, s'alzavano delle scintille le quali, spinte dal vento, attraversavano l'immenso antro, veloci come saette.

— Via!... Via!... — continuava Janko, con voce strozzata. — Qui vi è la morte!...

Ed i disgraziati continuavano a fuggire come pazzi, senza sapere dove andavano, sperduti in quella foschìa di nuovo genere, ma che si poteva paragonare ad una nebbia intensa, scatenatasi su qualche alta montagna.

Ansanti, sudati, mezzi soffocati, finalmente andarono ad urtare contro un ostacolo che li fece stramazzare.

— Che cos'è, Janko? — chiese Zamora.

— Siamo contro una delle pareti della caverna — rispose il gitano. — Seguendola si potrebbe giungere all'uscita... Ci vedi tu?

— Io no — disse Zamora.

— E nemmeno io — affermò il gitano. — Sono smarrito, non so più dove andare, ed i riffani continuano a sparare. Perché non li ammazzano i tuoi valorosi studenti?

Il gitano si appoggiò contro la parete, poi si lasciò scivolare al suolo, in mezzo al fitto strato di cenere, dicendo: — Se è destino aspettiamo la morte.

— Janko, ho sete. Puliscimi gli occhi: non ci veggo più.

— Non ho un sorso d'acqua. Se anche tornassi nella seconda caverna giungerei qui troppo tardi per salvarti, Zamora... E poi come giungervi? E quell'acqua chissà se sarà dolce a quest'ora.

— E ci lasceremo morire senza lottare, Janko? Siamo gitani!...

Il giovanotto invece di rispondere aveva spiccato un gran salto ed aveva aperta la navaja.

— Sei impazzito? — chiese Zamora.

— Guarda verso l'uscita della caverna, che in questo momento è visibile — rispose il gitano.

Le raffiche erano per un momento cessate, e la spaccatura dell'antro si mostrava illuminata da un gran fascio di luce solare.

Due mahari (specie di cammelli) giganteschi, montati da due uomini che indossavano dei mantelloni oscuri che li avvolgevano quasi tutti, si avanzavano cautamente.

— I riffani... — mormorò il gitano. — Ah, scucirò loro la gola od il ventre!

Zamora l'aveva afferrato per una mano.

— Lasciali venire: non ho il fucile io? — disse.

— Io non l'ho e preferisco il colpo del valiente, giacché poco fa mi hai creduto pauroso. Sono zingaro e mi difendo da zingaro.

— Ti uccideranno con una fucilata.

— Bah!... Appoggiati alla parete e non muoverti, perché io possa, più tardi, ritrovarti. Mi hai creduto da meno del tuo Carminillo!... Ti sei ingannata, Zamora.

Il fascio di luce solare attraversava la caverna, illuminandola abbastanza bene, ora che gli avanzi delle alghe non volteggiavano più coll'impetuosità di prima.

I due mahari continuavano ad avanzarsi, sollevando colle larghe zampe, nuvoloni di cenere.

— Prendi il mio fucile, Janko!... — disse la gitana.

— Sparerai tu se mi uccideranno — rispose il giovanotto, con voce ferma.

Si pulì il viso col fazzoletto di seta, poi si avanzò quasi carponi, tenendosi a poca distanza dalla parete, che ora distingueva abbastanza bene, cercando di non farsi scorgere prima del tempo.

I due riffani continuavano intanto ad avanzarsi, senza fretta, tenendo in pugno dei lunghi fucili col calcio ricurvo. Di quando in quando scomparivano in mezzo alla cenere per poi riapparire, poiché il sole sfolgorava i suoi primi raggi proprio direttamente dentro l'antro.

Janko continuava la sua marcia. Non pareva più un uomo, bensì un serpente.

Si contraeva, alzava un momento la testa per guardare, poi tornava ad allungarsi in mezzo alle ceneri, pronto però a scattare.

La gitana, appoggiata alla parete, lo guardava allontanarsi, pronta ad accorrere in suo aiuto.

Ad un tratto, mentre una nuova raffica di vento si cacciava dentro la caverna, si vide come un lampo attraversare il fascio di luce, che non si era ancora offuscato, poi si udirono due grida: una dell'uomo che muore e l'altra dell'uomo vittorioso.

Janko, udendo il vento sibilare, e temendo che sollevando nuovamente le ceneri egli non potesse più distinguere i due riffani, lanciò la navaja alla distanza di venticinque passi, e la punta della terribile arma aveva spaccata la gola all'avversario più vicino.

Poi si seguirono raffiche su raffiche, sempre più impetuose, e la notte parve scendere nell'ampia caverna.

Il raggio di sole era scomparso e le ceneri tornavano a turbinare, alzandosi, abbassandosi, raggruppandosi in masse per disperdersi.

Janko aveva avuto il tempo di vedere l'uomo cadere dalla sella del mahari. Spiccò dieci o dodici salti coll'agilità d'una pantera, e raggiunse la gitana nel momento in cui rimbombava uno sparo, ma assai lontano.

— L'hai ucciso? — chiese Zamora.

— Sì — rispose il giovane. — Quando io lancio il mio coltello, l'avversario può raccomandare la sua anima a Dio.

— Erano due, è vero?

— Sì, due, ma credo che l'altro sia fuggito. Maledetta cenere che offusca tutto!...

— Ed il mahari?

— Sarà forse fuggito anche lui.

— Se potessimo raggiungerlo, Janko?

— Per servircene noi?

— Muoio di sete e quegli animali portano sempre delle provviste d'acqua... Janko, io muoio.

— Dove cercarlo, Zamora? Non vedi come le ceneri si abbattono in tutte le direzioni? Vuoi che proviamo? Dammi la mano e andiamo, affidandoci al caso.

— Se resteremo qui qualche ora ancora, Janko, noi non ci alzeremo mai più — disse la gitana.

— Lo so — rispose il giovane, con voce sorda. — Anche le mie forze cominciano ad andarsene, e mi pare di avere del fuoco dentro i polmoni.

— Cerchiamo il mahari, Janko.

— Sì, Zamora.

I due disgraziati raccolsero tutta la loro energia e si ricacciarono in mezzo alle nuvole di cenere, le quali non cessavano di agitarsi.

Si erano presi strettamente per una mano per paura di rimanere indietro, e che l'uno o l'altra cadessero e sparissero in mezzo a quella foschìa che, in certi momenti, diventava d'un grigio così intenso da non poter nulla scorgere a due passi di distanza. Andavano a casaccio, affondando fino alle ginocchia negli avanzi delle alghe, fermandosi sovente colla speranza di scorgere di nuovo la luce solare, e quindi regolare su quella la loro marcia.

Nulla invece. Il vento continuava ad ululare e scombussolava quelle cortine polverose, sventrandole, torcendole e ritorcendole per poi abbatterle contro il suolo.

Già si sentivano mancare le forze e stavano per lasciarsi cadere in attesa della morte, quando il fascio di luce si distese entro la caverna, illuminandola per pochi momenti.

Subito Janko aveva mandato un grido e si era precipitato innanzi, trascinando Zamora in una corsa folle.

Un'ombra gigantesca si era delineata fra le nubi di cenere, quella d'un mahari.

Il bravo animale non aveva abbandonato il suo estinto signore che giaceva al suolo, colla gola squarciata dalla navaja del giovane gitano, ed aspettava colla speranza che si risollevasse e rimontasse in sella.

Vedendo comparire quei due sconosciuti, il mahari mandò una specie di nitrito assai acuto e sgradevole, e tentò di prendere la corsa, ma Janko, più lesto, lo aveva afferrato per la corda che serve di briglia, e con una strappata poderosa l'aveva costretto a inginocchiarsi.

— Aiutami, Zamora!... — gridò il giovane. — Tieni ferma anche tu questa bestia mentre raccolgo la navaja.

— Lasciala andare — rispose la gitana.

— Oh, mai!... È l'arma dei valienti!... Hai sete? A te, ecco un otre, bevi pure senza timore per me, perché ve ne sono degli altri appesi ai fianchi del mahari.

Così dicendo porse alla gitana una lunga borsa di pelle di capra, che doveva contenere ancora parecchi litri d'acqua.

Riafferrò la corda affinchè l'animale non gli fuggisse, e si avvicinò al riffano che le ceneri avevano in parte sepolto.

Trasse dall'orribile ferita la navaja ancora grondante di sangue, la pulì sulla pelle dell'animale, se la passò nella cintura, poi, staccato un altro otre si mise a bere a garganella.

In quel momento il fascio di luce tornò a mostrarsi, più vivido di prima.

— L'uscita è là, Zamora — disse Janko, dopo essersi dissetato abbondantemente.

— Lasciamo il morto e conduciamo via il mahari il quale potrà renderci dei preziosi servigi.

— Ed il compagno del morto non ci aspetterà sulla banchina? — chiese Zamora.

— Se ci assalirà, ci difenderemo.

— E gli studenti?

— Vadano al diavolo!... — gridò Janko.

Poi mormorò sottovoce: — Potessi non rivederli mai più!

Janko, vedendo che la luce tornava a oscurarsi, pose la gitana sulla sella larga ed abbastanza comoda, con un fischio stridulo fece alzare il mahari, si avvolse intorno al pugno ben stretta la corda e si spinse innanzi, ascoltando attentamente, poiché temeva qualche sorpresa da parte del secondo riffano, il quale poteva trovarsi ancora dentro la caverna.

Cinque minuti dopo finalmente la gitana e Janko, coperti di cenere e mezzi soffocati sì, ma ancora vivi, giungevano dinanzi alla barricata.

Tutte le casse erano saltate e giacevano qua e là disarticolate. Perfino i quattro barili pieni di farina erano stati scaraventati fuori della caverna, verso la banchina.

— Che l'esplosione li abbia uccisi? — si chiese Zamora con angoscia, lasciandosi scivolare dalla sella. — Non li vedi tu, Janko?

— No — rispose asciuttamente, il gitano.

— Dove saranno andati?

— Saranno, innanzi tutto, ancora vivi? — osservò il gitano. — Il fuoco, lo scoppio delle munizioni, poi i riffani.

Zamora era diventata pallidissima.

— Ed il fazzoletto che deve segnare il luogo ove è nascosto il totem? — disse, con voce angosciata.

— Non l'hai dunque tu?

— No, l'ho dato a Carminillo perché lui solo, come ti ho detto, è stato capace di decifrare tutti quei segni che né io, né tu, potevamo comprendere.

— Ne faremo a meno — soggiunse Janko. — C'è la Strega dei Vènti che ne sa qualche cosa del totem.

— Tu mi hai parlato ancora di quella donna — disse la gitana. — Dove l'hai conosciuta? è dunque vero che il capo della tribù ti ha mandato qui, tempo addietro, per farmi rubare il totem che spetta a me sola?

Janko, invece di rispondere, le balzò addosso, le strappò il fucile e si mise in posizione di sparare.

Sul margine della banchina si avanzava, cautamente, un secondo mahari, montato da un uomo tutto avvolto in un ampio mantello oscuro, con qualche striscia di stoffa rossa.

Una detonazione rintronò dentro la caverna, poiché i due gitani avevano raggiunta la barricata, ma non fu l'uomo a cadere. Era stramazzato il povero abitante dei deserti e per non sollevarsi più, poiché, come sappiamo, il giovane non maneggiava il fucile con altrettanta abilità del coltello.

Il cavaliere, con un volteggio si era slanciato giù dalla sella ed era scomparso, a gran salti, in direzione dell'orca, sempre arenata e semisventrata.