I cani/Cane da caccia

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13. Cane da caccia

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Veltri Cane da guardia


Galileo, domandato un giorno a che cosa servisse la geometria, rispose che serviva a misurare gli sciocchi.

Rispose così quell’uomo sommo fra i sommi per levarsi d’attorno un seccatore. Ma egli sapeva che la sciocchezza non si misura, come non si misurano l’amore, l’odio, l’ambizione, la perversità, l’ira, la superbia, l’invidia, il dolore, la gioia, la disperazione.

Un dotto inglese — tanto perché non sia sempre un dotto tedesco — ha trovato oggi il modo di misurare la noia. Questo dotto è il signor Galton. Egli stava un giorno seduto accosto a un professore che faceva un discorso noioso. Gli uditori erano in faccia a lui, in uno spazio disposto a semicircolo, con un colonnato. Ogni intercolonnio conteneva una dozzina di persone, alle quali era quindi facile tener d’occhio. Quegli uditori, per far schermo alla noia, facevano dei movimenti di varie sorta; uno, coi polpastrelli delle dita della mano allungata sul ginocchio, pareva battere il tamburello; un altro contraeva e allontanava con movimento regolare la musculatura della fronte, un altro sollevava un po’ la spalla destra, poi l’abbassava e sollevava un po’ la spalla sinistra. Taluno si metteva di fianco colla seggiola ora da una parte, ora dall’altra; vi era chi chiudeva e apriva regolarmente gli occhi; vi era chi moveva il capo ora allo avanti, ora allo indietro, oppure lo volgeva prima da una parte e poi dall’altra, e allungava e stringeva le labbra. Fu osservato un cotale che, colla faccia immobile, faceva andare in su e in giù la punta del naso, come vien mossa l’appendice digitiforme della proboscide dell’elefante. Vi fu un breve tratto del discorso meno noioso del rimanente, e allora gli uditori si mossero meno.

La scoperta era fatta. — La noia si misura dai movimenti dell’annoiato. — L’autore si propone di perfezionarla misurando la noia secondo l’età, il sesso, la stagione, le condizioni atmosferiche, e via dicendo.

Io mi sono dilungato intorno a questa scoperta sebbene sia fuori del mio argomento, perché è recente e destinata a un grande avvenire, è semplice come tutte le grandi scoperte, perché ognuno può giovarsene essendo di facilissima applicazione, e anche perché ci trovo due difetti.

Il primo è che non si può applicare a tutti. Io che scrivo queste linee, sarei sfuggito alla misura del signor Galton se mi fossi trovato al discorso di quel professore dove egli fece la sua scoperta. A tutti i discorsi ai quali ho dovuto trovarmi e che non ho fatto io, mi sono sempre addormentato.

Il secondo difetto è che il metodo del signor Galton insegna a misurare la noia degli altri, ma non la propria. L’uomo che si mette il termometro clinico sotto l’ascella, vede benissimo le minime variazioni della propria temperatura. L’uomo che assiste a una prolusione accademica, a un discorso elettorale, alla lettura fatta dall’autore di una tragedia inedita, a un rendiconto statistico, a un saggio pedagogico, a una sonata di pianoforte di una signorina sentimentale, non sa dove sia maggiore il grado della noia che prova o ha provata.

Di questo inconveniente del metodo del signor Galton io mi dolgo in particolar modo per ciò che sarei curiosissimo di sapere quale appunto sia il grado di noia che provo ai racconti di due o tre cacciatori, i quali, oltre al ripetermi sempre le stesse cose che ora so forse meglio, o almeno certamente al pari di loro, mi voglion poi sempre provare che le gesta meravigliose dei loro cani erano e sono l’effetto della grande educazione saputa dar loro.

E qui si affaccia il grande quesito intorno alla efficacia dell’educazione.

Il motto francese secondo il quale il valore del cane da caccia dipende tutto dalla buona razza, vuol essere rettamente interpretato. Il cane di buona razza, certamente, porta con sé molte attitudini; ma un buon ammaestramento le sviluppa e le fa fruttare come non avverrebbe mai senza di esso, e il più e il meno sono in rapporto coll’abilità, la pazienza, il senno e il sentimento dello ammaestratore.

Il Brehm dice che le donne non son buone ad ammaestrare i cani, e che gli uomini virtuosi soltanto sono veramente buoni educatori di questi animali. Certo queste asserzioni, tali e quali, sono molto impugnabili. Ma si può dire con certezza che un cacciatore mal pratico, un guastamestieri, non avrà mai un buon cane, per quanto lo sia andato a cercare della più pura e finissima razza.

Quando gli scrittori francesi si divisero in due schiere, quella dei seguaci della nuova scuola romantica e quella dei fedeli alla vecchia scuola classica, si divisero pure i cacciatori in due campi, il primo partigiano del pointer, che rappresentava il romanticismo, il secondo fedele al bracco, bandiera della vecchia scuola.

Il romanticismo impallidì dopo un breve splendore, il pointer rimase.

Alessandro Dumas padre, cacciatore maestro, dipinse, per verità con colori un po’ forti, un pointer modello, e io invito il mio lettore a cercarsi il volumetto che egli scrisse col titolo di «Histoire de mes bêtes», uno dei più attraenti, ciò che non è dir poco, dei tanti volumetti mandati per le stampe da quel piacevolissimo e fecondissimo scrittore.

Il Brehm, nella sua «Vita degli animali», che ho già ripetutamente citata e da cui ho preso molto di quanto sono venuto fin qui dicendo, parla a lungo del cane da caccia, dà alcune norme intorno allo ammaestramento di esso, e racconta certi fatti eccezionali rispetto al modo di comportarsi di taluni di questi cani colla selvaggina. Io consiglio il mio lettore a cercare il volume del Brehm; non mi piace riferire qui ciò che egli ha detto, perché nello ammaestramento non tutti i buoni cacciatori seguono lo stesso metodo, e non a tutti i buoni cani lo stesso metodo giova.

Quanto sono mirabili le astuzie del cane dietro alla selvaggina, altrettanto sono mirabili le astuzie della selvaggina per schermirsi dal cane. Ma di queste l’uomo tien poco conto e parla di malavoglia, mentre va in estasi per le prime.

Sovente la lepre fa perder le tracce cacciandosi nella tana di una volpe, anche saltando per la finestrina entro una cappella solitaria fra i boschi, o sopra un muricciuolo, perfino sopra una tettoia, dove si appiatta per sottrarsi alla vista, e sta immobile anche alle prime sassate. Allora accade al cane ciò che accadde a Sacripante, Orlando e Ferraù che inseguivano Angelica, quando essa si mise in bocca quel meraviglioso anello che rendeva la persona invisibile:

Volgon pel bosco or quinci or quindi in fretta
Quelli scherniti la stupida faccia,
Come il cane talor se gli è intercetta
O lepre o volpe a cui dava la caccia,
Che d’improvviso in qualche tana stretta
O in folta macchia o in un fosso si caccia...

Shakespeare fa dire a Rodrigo in «Otello»:

«Eccomi correre, non come il cane che insegue la preda, ma come quello che riempie invano l’aria dei suoi gridi».

In «Troilo e Cressida», Tersite parla del cattivo segugio che abbaia senza essere sulla traccia.

La lepre fa interminabili giri e rigiri per confondere i suoi persecutori, ma il buon cane ci si ritrova e, secondoché l’esperienza gli ha insegnato, s’avvia talora di corsa in una direzione diversa da quella per cui va l’animale, sicuro del fatto suo.

Il vecchio eremita che segue le tracce di Angelica, s’ingegna in modo da poterla raggiungere:

E qual sagace can nel monte usato
A volpi o lepri dar spesso la caccia,
Che se la fera andar vede da un lato,
Ne va da un altro e par sprezzi la traccia,
Al varco poi lo sentono arrivato
Ché l’ha già in bocca, e l’apre il fianco e straccia;
Tal l’eremita per diversa strada
Aggiungerà la donna ovunque vada.

Doralice fuggiva sopra un cavallo, nel corpo del quale, per virtù d’incanti, Malagigi aveva cacciato un demonio, Rodomonte e Mandricardo la inseguivano:

Rodomonte col figlio d’Agricane
La seguitaro il primo giorno un pezzo,
Ché le vedean le spalle, ma lontane:
Di vista poi perderonla da sezzo;
E venner per la traccia, come il cane,
La lepre o il capriol trovare avvezzo.

Orlando impazzito vede Angelica, non la ravvisa, ma le piace quel delicato sembiante cosiffattamente che

Gli corre dietro, e tien quella maniera
Che terría il cane a seguitar la fera.

Qualche volta il compito del cane, nella caccia della volpe, è facilissimo; esso non ha da far altro che aspettarla al varco: l’uomo affumica la tana, la volpe è costretta ad uscirne per non morire asfissiata e il cane la addenta.

Rodomonte caccia i nemici in fuga precipitosa, ma la fuga non è scampo: fuggendo da Rodomonte vanno incontro a Ruggero e Marfisa e trovano la morte:

Chi fugge l’un pericolo, rimane
Ne l’altro, e paga il fio d’ossa e di polpe.
Così cader coi figli in bocca al cane
Suol, sperando fuggir, timida volpe
Poiché la caccia de l’antique tane
Il suo vicin che le dà mille colpe,
E cautamente con fumo e con fuoco
Turbata l’ha da non temuto loco.

Il buon bracco, col suo atteggiamento, lascia scorgere subito al cacciatore quando ha trovato la traccia della selvaggina; anche ciò esprime ottimamente l’Ariosto. I cavalieri che descrivono a Grifone l’Orco, il quale, sprovveduto della vista, si giova del finissimo odorato, dicono che esso

Correndo viene, e ’l muso a guisa porta,
Che il bracco suol, quando entra in su la traccia.

I cattivi cani da caccia corrono dietro alle lucertole, ai topi, alle lodole, perfino alle rondini. Lo Steller dice che al Kamtschatka certi cani non sono mai adoperati pel tiro, ma sono ammaestrati in special modo per la caccia, e vengono nudriti colla carne delle cornacchie, che sono in quelle regioni straordinariamente numerose. Quei cani, prosegue il naturalista, che in estate devono tener dietro alle anatre, alle oche, ai cigni, inseguono pure le cornacchie con danno della caccia. Ma anche fra noi, dove non c’è la ragione menzionata dallo Steller, i cani inseguono le cornacchie, che sembrano burlarsene.

Bradamante vorrebbe impadronirsi dell’ippogrifo:

La donna va per prenderlo nel freno;
E quel l’aspetta fin che se gli accosta;
Poi spiega l’ale per l’aer sereno,
E si ripon non lunge a mezza costa.
Ella lo segue; e quel né più né meno
Si leva in aria, e non troppo si scosta,
Come fa la cornacchia in secca arena
Che dietro il cane or qua or là si mena.

I cani abbaiano anche alle cornacchie, e Shakespeare nel «Molto rumore per nulla» mette in bocca a Beatrice queste energiche parole:

«Preferisco sentire il mio cane abbaiare a un corvo, piuttostoché un uomo che mi giuri che mi adora».