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I naufraghi del Poplador/2. Il Poplador

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2. Il Poplador

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1. Due repubbliche in guerra 3. La costa californiana

2.

IL POPLADOR


Il Poplador era una vecchia corvetta di novecentoventicinque tonnellate, varata ventinove anni prima sui cantieri di Cartagena.

Una volta era stata una bella, rapida e forte nave, una delle migliori che contasse la marina spagnola in America, e si era acquistata un buon nome. Nel golfo del Messico e nelle acque del Pacifico si era battuta valorosamente più volte e molte e molte erano state le navi affondate dalle sue batterie o sventrate dal suo sperone di ferro.

Ancora, malgrado i suoi molti anni di servizio, faceva una bella figura, ma ahimè! non valeva più nulla. Vista in porto od in alto mare con buon vento, coll'alta alberatura coperta sempre di vele nuovissime, coi suoi fianchi dipinti di un bel nero e gli sportelli delle batterie bianchi, coi suoi attrezzi puliti, colle sue dorature sempre scintillanti, co' suoi numerosi cannoni, la bandiera ondeggiante sul picco della randa e il gran nastro sull'alberetto di maestra, si poteva ancora dire che era una nave di vecchio stampo sì, ma ancora bella e imponente. Vista da vicino, quale cambiamento!

I suoi alti bordi s'incurvavano per l'estrema vecchiezza, i suoi fianchi erano rientranti e rattoppati in cento luoghi, la sua alberatura malandata, le sue stesse artiglierie lucenti sì, ma vecchie. Né il colore, né le dorature erano sufficienti a celare, anche ad occhi profani, i fori delle bombe e gli strappi della mitraglia di tante battaglie, di tanti abbordaggi.

Era un vecchio illustre, un veterano decrepito che da dieci anni avrebbe dovuto dormire nel fondo di un arsenale, ma che però, quando il mare s'accavallava e il vento urlava, si ridestava e lottava con disperata energia; che quando squillava la tromba sul vascello nemico per l'abbordaggio o ruggivano i cannoni, infuriava con straordinaria lena, vomitando dai suoi diciotto sabordi fiamme e turbini di ferro.

Se il legno era insufficiente per misurarsi colla flotta americana numerosa e forte, il suo equipaggio non valeva di più. Non era vecchio, anzi era giovane, pieno di vita e di energia, ma senza esperienza, turbolento, partitante di questo o quel paese, disposto piuttosto a impugnare le armi per gli Stati Uniti, o per la Spagna, o per la California. Era stato raccozzato alla meglio nei porti di Acapulco, di Tehuantepec, di La Paz e di Monterey poco prima che scoppiasse la guerra, e componevasi di americani del Nord, di californiani, di meticci, di spagnoli e di pochi messicani. Alcuni erano stati filibustieri, altri contrabbandieri, i più barcaiuoli della costa. Già fino dall'anno precedente si era tentato un movimento anti-messicano a bordo. Uno spagnolo aveva sollevato l'equipaggio e alla bandiera messicana aveva sostituita quella spagnola, ma l'imprudente poche ore dopo danzava sul picco della randa con una solida corda al collo. Un californiano, due mesi dopo, aveva ritentato il colpo in favore degli Stati Uniti, ma la sciabola di don Guzman gli aveva spezzato il cranio.

Tale era la nave, tali erano i marinai coi quali il valoroso capitano accingevasi a prendere il mare ed a recarsi sulle coste californiane guardate dalle numerose navi del commodoro americano Sloat. Alla sua improvvisa comparsa a bordo, i marinai che erano dispersi pel ponte, chi aggomitolato all'ombra di un lembo di tela, o seduto a cavalcioni delle murate o sui cannoni, fumando sigarette, o giuocando al montes o discutendo vivamente i bollettini della guerra, s'alzarono come un sol uomo interrogandosi collo sguardo, sicurissimi che vi fosse una qualche grande novità.

Don Guzman, giunto sulla tolda, lanciò un'occhiata sul suo equipaggio, poi gridò:

— Mastro Josè.

Un vecchio marinaio, ma ancora robusto e ben piantato, con una barba arruffata, uno sguardo vivissimo, la carnagione cotta e ricotta dal sole, si fece innanzi con quel dondolamento che è particolare ai lupi di mare.

— Capitano — rispose, salutando.

Don Guzman estrasse l'orologio, un magnifico cronometro d'oro adorno di brillanti, poi disse:

— Sono le nove meno un quarto. A mezzodì la marea avrà raggiunta la massima altezza; per quell'ora che tutto sia pronto per la partenza.

I marinai gli si affollarono intorno in preda ad una viva eccitazione. Tutti gli sguardi erano fissi sul capitano.

— Si parte ? — chiesero.

— Si parte, ho detto — disse il capitano con voce grave. — La repubblica ha finalmente pensato al valoroso equipaggio del Poplador.

— Dove si va? — chiesero cento voci.

Don Guzman dardeggiò sui marinai uno sguardo di fuoco. In altri tempi avrebbe senza dubbio punito la curiosità di quegli uomini, ma non era più il momento, anzi. Raddrizzò l'alta sua statura, stette un momento silenzioso, poi il suo volto animossi, i suoi occhi si accesero.

— Ufficiali e marinai! — gridò egli con voce maschia, squillante. — Santana è battuto, la California è perduta, il Nuovo Messico invaso, Vera-Cruz è bombardata, la repubblica è minacciata dagli yankees che calano come aquile sulla nostra capitale. Ufficiali e marinai, tutti i messicani impugnano le armi in difesa del nostro sacro vessillo. Vecchi e fanciulli accorrono a difendere la capitale minacciata. Nelle città, nelle campagne e sui monti, ovunque rimbomba il grido: Morte o libertà!

Un urlo immenso, improvviso, echeggiò a bordo della vecchia corvetta, coprendo le parole del capitano.

— Alla guerra! Alla guerra! Viva la repubblica! Viva il Poplador.

— Ufficiali e marinai! — continuo il capitano. — La repubblica domanda l'aiuto dei suoi bravi lupi di mare. Chi sarà il codardo che non risponderà al disperato appello della patria pericolante?

— Nessuno! Nessuno! — urlarono i marinai, entusiasmati dalle infuocate parole del prode capitano.

— Sta bene! La patria sapeva che l'equipaggio del glorioso Poplador avrebbe risposto all'appello. I californiani insorgono contro gli yankees, quei prodi sperano nei lupi di mare messicani. Compagni, andiamo in California e mostriamo al nemico, al baleno dei nostri cannoni, il nome della nostra nave e la bandiera della repubblica. Viva il Messico! Viva il Poplador!

Nuove urla entusiastiche scoppiarono a bordo della corvetta.

— Viva il capitano! Viva la repubblica! Viva il Poplador!

Un istante dopo, sotto la sorveglianza del tenente Michele e di mastro Josè, i preparativi della partenza venivano ultimati con grande alacrità. Le sei imbarcazioni ben presto solcarono le acque della baia e tornarono, poco dopo a bordo tanto cariche di viveri, di polvere e di palle, da correre pericolo di affondare. Alle undici il vecchio Poplador, che agli occhi dei marinai entusiasmati, pareva fosse ringiovanito di quindici anni, era pronto a prendere il mare.

Al primo fischio del mastro d'equipaggio i gabbieri si slanciarono sulle griselle salendo fino ai pennoni e le vele furono spiegate, senza dimenticare gli scopamari e i coltellacci. Il Poplador parve sollevarsi e cominciò a ondulare sotto i primi soffi del vento.

— Partiamo — gridò il capitano al tenente Michele.

La marea aveva raggiunta allora la massima altezza. L'equipaggio, alle prime note del fischietto di mastro Josè, si precipitò agli argani e le ancore, non senza fatica, furono strappate dal fondo. La bandiera della repubblica salì maestosamente sul corno e mentre i cannoni del castello di San Diego tuonavano, il Poplador prese il largo salutato dagli entusiastici evviva della popolazione, affollata sulla riva. Girò lentamente la punta Grifo e passando dinanzi alla bocca di Chico piegò verso ovest rasentando l'isola Roqueta. Pochi minuti dopo si trovava fuori del porto, colla prua a nord-ovest.

Il vento che soffiava dal sud, increspava fortemente la vasta superficie del Pacifico che scintillava sotto i raggi del sole. Né al nord, né all'ovest, né al sud appariva alcun vascello, alcuna barca, alcun canotto; i marinai della costa temevano una improvvisa comparsa degli svelti e ben armati incrociatori americani, che erano già stati scorti nelle acque della Vecchia California, e si tenevano prudentemente riparati nei porti.

Carico di tela come era, il vecchio Poplador filava con una certa rapidità lasciandosi a poppa l'isola Roqueta e porto Marques, che diventavano a poco a poco invisibili. Non ostante i suoi ventinove anni e la sua estrema pesantezza, si comportava abbastanza bene e visto ad una certa distanza, faceva ancora un'ottima figura colla sua alta alberatura leggermente curvata sotto la spinta del vento, la sua poppa carica di doratura, i suoi diciotto cannoni che sporgevano le bocche dai sabordi e la gran bandiera ondeggiante sul corno. Il tenente Michele, che amava svisceratamente il suo vecchio amico e che spendeva tutto il suo tempo ad abbellirlo, era abbastanza soddisfatto.

— Cospetto! — diss'egli, volgendosi verso il capitano che gli passava accanto. — Il Poplador pare che sia diventato più giovane. Guardate, don Guzman, con che grazia s'avanza e come sormonta l'onda! Gli yankees si spaventeranno al sol vederlo.

— Lo credete? — chiese il capitano, con accento triste.

— Certamente che lo credo. Prima di abbordarci ci penseranno due volte.

— Permettetemi di dubitarne, tenente.

— Perché, di grazia?

— Non ci vorrà molto a riconoscere nel vostro bel Poplador una vecchia e malandata nave. Il Poplador, tenente Michele, non è più che un illustre ma decrepito veterano. Ah! Se avesse quindici anni di meno! Io l'ho veduta parecchi anni, questa brava nave combattere nelle acque peruviane e nel golfo messicano. Non c'era fregata che ardisse abbordarla o venirle a tiro. Il Poplador non era una nave, era un vulcano che eruttava torrenti di ferro che tutto frantumavano, che tutto struggevano. Era allora il terrore dei filibustieri e dei nemici, era la padrona del Pacifico e del gran golfo. Se fosse ancora la nave di una volta, non esiterei ad affrontare le navi dell'ammiraglio Sloat e bombardare tutti i porti dell'Oregon e del Washington, ed invece...

Si tacque e si passò una mano sulla fronte burrascosamente aggrottata.

— Che cosa si farà? — disse, dopo qualche istante. — Povera patria, povero Poplador!

— Il Poplador è vero che è vecchio, ma porta un equipaggio giovane, don Guzman — disse Michele.

— Giovane sì, ma turbolento quanto mai e che non ha dato ancora una prova di coraggio. Non so cosa accadrà di noi quando saremo giunti sulle coste californiane.

— Forse troveremo dei rinforzi, capitano.

— Dei rinforzi? E chi ce li fornirà?

— I californiani.

— Ecco dove vi ingannate, tenente.

— Oh! Non si battono i californiani forse? Lo dice la lettera del presidente.

— Forse si battono, ma per la loro indipendenza.

— È impossibile!

— Voi dovete saperlo che i californiani non hanno mai veduto di buon occhio la bandiera messicana. Non si sono ribellati nel 1836, cacciandoci via?

— È vero, ma dal 1836 al 1847 le opinioni possono essere cangiate.

— Ne dubito, tenente.

— Allora non possiamo sperar nulla dai californiani.

— Anzi bisogna guardarsi.

— E cosa si va a fare in California?

— A rovinare il nostro povero Poplador.

— Diavolo! Diavolo! La faccenda si fa seria.

— Avete paura voi?

— Io! — esclamò il bravo genovese.

— Al mio posto cosa fareste voi?

— Andrei innanzi, fossi sicuro di trovarmi di fronte all'intera flotta dell'ammiraglio Sloat.

— Bravo, tenente — disse il capitano, stringendogli vigorosamente la destra. — Andremo innanzi fin che potremo e quando non avremo più palle, daremo fuoco alle polveri e saltaremo in aria gridando: «Viva la repubblica! Viva il Poplador».