I naufraghi del Poplador/5. Il naufragio

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5. Il naufragio

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4. La battaglia 6. Il salvataggio

5.

IL NAUFRAGIO


La vecchia nave messicana ancora una volta aveva vinto, ma a qual prezzo! Non era più una nave, era un rottame che traballava sui flutti, non solo incapace di continuare per dieci minuti ancora una simile battaglia, e di continuare la crociera, ma di trascinarsi nel porto più vicino per subire le riparazioni. Lo spettacolo che presentava, era addirittura spaventevole; era una mutilazione orrenda.

Non più alberi, non più pennoni, non più vele, non più forme di vascello. I suoi fianchi erano irti di tappi, le sue murate erano sfondate, frantumate, o pendevano lungo i bordi o giacevano sulla coperta; i suoi alberi, schiantati prima e poi spezzati in venti luoghi, ingombravano il cassero, il castello di prua, il ponte di comando. Dappertutto rottami, dappertutto gomene recise o vele arse, pennoni, pezzi di imbarcazioni sventrate; dappertutto frammenti di palle e di granate e rivi e macchie di sangue, e fucili, e scuri, e sciabole d'arrembaggio e coltelli da manovra.

Giù nella batteria lo spettacolo era ancora più orribile. Anche qui legni schiantati, sbarre di ferro divelte dallo scoppio delle granate, armi e palle di cannone, sprazzi di ferraccio della mitraglia, cannoni smontati o scoppiati, rivi di sangue, morti colle teste sfracellate e senza testa, o senza braccia, o senza gambe, o col petto sfondato e feriti che si contorcevano per gli spasimi o che si dibattevano nelle ultime strette dell'agonia, invocando Dio e la Madonna o bestemmiando come eretici.

Malgrado così enormi perdite, i messicani non avevano perduto la testa, tutt'altro. Incoraggiati da don Guzman, dal tenente Michele e da mastro Josè miracolosamente sfuggiti all'uragano di ferro, si erano messi al lavoro con febbrile attività, onde salvare il povero legno che minacciava di andarsene a picco come il rivale. Alcuni sgombravano la coperta dai rottami, altri turavano i fori e gli strappi, altri ancora s'affannavano alle pompe, o accomodavano e rialzavano le murate, raddrizzavano alla meglio alberi e alberetti, portavano in coperta pennoni e vele da ricambio e catene e gomene, e paterazzi e boscelli, o curavano i feriti che disgraziatamente abbondavano o gettavano in mare i cadaveri dopo di averli rinchiusi nelle brande e di aver legato ai loro piedi una palla di cannone.

In quattro ore il povero Poplador, mercé l'attività dei suoi marinai e l'abilità dei suoi ufficiali, si trovò in istato di poter, alla meno peggio, navigare. Ma non aveva più la sua superba alberatura; non aveva più le sue grandi e numerosissime vele. In cambio due miseri travi, alti forse quattro metri, cinti e ricinti di corde e di paterazzi, un paio di flocchi e due velacci rattoppati.

— Povero Poplador! — esclamò Michele con voce commossa. — Come sei ridotto! Ed ora che farai?

— Più nulla — disse don Guzman con voce triste. — Il vecchio Poplador ha finito la sua carriera.

— Eppure abbiamo vinto, capitano.

— Sì, ma fu una vittoria pari a quella di Pirro.

— E non intraprenderemo più nulla?

— È assolutamente impossibile continuare la guerra. Dei nostri cent'ottanta uomini soli settantaquattro sono vivi e ventisei di questi, per maggior disgrazia, giaciono sui letti dell'infermeria.

— Che faremo adunque?

— Non trovo di meglio che poggiare su qualche porto e più presto che sia possibile. Se ci coglie una burrasca, il Poplador non resisterà.

— Dannato piroscafo!

— Il Poplador era troppo vecchio, tenente; io non sperava che resistesse a tanta grandine di palle. Ha fatto più di quello che poteva fare e dobbiamo essere riconoscenti.

— E non si potrebbe raddobbarlo?

— E dove troveremo un bacino di raddobbo? La Vecchia California non ne ha che uno ed è molto lontano di qui. Recarsi a La Paz con simile nave è cosa affatto impossibile.

— Su quale porto poggeremo?

— Non lo so nemmeno io. Abbiamo porto San Bartolomeo al sud e lo Scammon Lagoon all'est, ma non troveremo un carpentiere che ci aiuti.

— Non possiamo recarci all'isola Cedros?

— E chi troveremo in quell'isola?

— Nessuno, capitano — disse mastro Josè che si era avvicinato ai due comandanti.

— È disabitata forse? — chiese Michele.

— Disabitata proprio no, tenente, ma quasi. Ci sono sbarcato parecchie volte, ma non ho trovato che degli indiani e così paurosi che non riuscii mai a prenderne uno pel collo.

— Andremo a San Bartolomeo allora — disse don Guzman.

— Un momento, capitano. Mi permettete una parola?

— Parla, Josè.

Il lupo di mare si tolse la cicca che masticava e dopo essersi grattato la grossa testa, cosa che era abituato a fare quando voleva forzare un'idea a uscirgli dal cervello, disse:

— L'ho trovato, l'ho trovato. Si tratta di condurre il vecchio Poplador a San Quentin.

— A San Quentin! — esclamò don Guzman. — Ma non vi sono carpentieri in quella baia.

— Ma a poche miglia dalla costa vi è una borgata di meticci.

— E ci aiuteranno quegli uomini?

— Se si rifiutano ne appiccheremo una mezza dozzina, capitano.

— Vi sono alberi in quei dintorni?

— Sì capitano, e molti.

— Andiamo a San Quentin adunque. Sarà cosa prudente però costeggiare l'isola Cedros fino al capo settentrionale; di là tenteremo la traversata.

— Alla manovra, ragazzi — gridò mastro Josè ai marinai. — Si parte per la baia di San Quentin.

Le due vele quadre furono tosto spiegate e i due flocchi tesi. Il Poplador stette alcuni istanti immobile, poi sotto la pressione del vento e del timone virò lentamente di bordo veleggiando lungo le coste di Natividad.

Povero legno! Vederlo così, senza murate, con due tronconi d'albero, senza manovre, senza gli sportelli delle batterie, tutto pieno di tappi, tutto pesto, tutto rotto, muoversi lento lento, faceva male e tutti quelli che lo montavano si sentivano stringere il cuore.

Ad ogni colpo di mare s'inclinava pesantemente con mille scricchiolìi, con mille gemiti e pareva che fosse sempre lì lì per sfasciarsi e andarsene a picco. Tremavano le sue costole, oscillavano i suoi mutilati alberi, sbattevano violentemente le vele, si spostavano le cadenti murate, cedevano i puntelli della stiva, penetrava l'acqua dappertutto. Guai se fosse scoppiata una burrasca: pel Poplador sarebbe stata proprio finita.

Nondimeno avanzava, spinto da un legger vento che soffiava da terra. Dopo di essersi aperto il passo fra i numerosi rottami del legno nemico che galleggiavano in balia delle onde, girò il capo settentrionale di Natividad e mise la prua in direzione di Cedros, della quale scorgevasi l'alta montagna che elevasi al sud dell'isola.

Ma quivi il vento invece di soffiare con maggior forza era debole e il mare più irato. Lunghe ondate, colle creste coperte di candidissima spuma, spinte senza dubbio da una forte corrente che veniva dal largo, si precipitavano dentro la vastissima baia di Sebastiano Viscaino, scuotendo orribilmente il vascello. Lo sollevavano come fosse una semplice piuma, lo sbattevano in tutti i sensi.

Lo facevano ricadere negli avallamenti, lo demolivano strappandogli ora un pezzo di murata, ora un frammento di madiere, ora una grue, ora una malferma corda.

Il tenente Michele, per dare maggiore stabilità a quel povero rottame, con un pennone di trinchetto e con una boma della randa aggiunse agli alberi un secondo trevo e fece spiegare due vele di contropappafico, ma quando la difficile e faticosa operazione fu terminata non soffiava più vento. Il Poplador fu arrestato a dodici chilometri dalle coste settentrionali di Natividad, né più avanzò durante la lunga giornata.

Al tramonto però il vento tornò a farsi sentire, non più soffiando da terra ma dal largo. Il Poplador ben presto abbandonò quei paraggi e perdette di vista le coste dirupate di Natividad, veleggiando con bastante rapidità e stabilità.

Verso le dieci di sera don Guzman, che passeggiava in coperta assieme a mastro Josè che faceva il suo quarto di guardia, scorse verso il sud-sud-est un debole lampeggiare. Guardò attentamente verso quella direzione e vide una massa nera, una gran nube, alzarsi e coprire rapidamente le stelle.

— Minaccia un uragano? — chiese con voce triste.

— Sì, capitano — disse il vecchio Josè. — Sono due giorni che l'aria è umida.

— Anche questo ci voleva.

— Non scoraggiamoci, capitano. Forse il Poplador terrà testa alla furia del mare.

— Ma non vedi, vecchio mio, in quale stato sì trova il povero brick? La sua ultima ora sta per suonare, lo sento. Povero Poplador!

— Cani di yankees! — esclamò Josè con collera. — Conciare in questo modo il mio brick! Ma se mi capitano ancora sotto le unghie, vi giuro, signore, che per quanto siano grossi me li mangio tutti!

— Veglia Josè, che io mi ritiro — disse il capitano. — Se l'uragano scoppia mi verrai a chiamare.

— Non dubitatene, capitano.

Don Guzman lasciò il ponte e discese nella sua cabina, per prendere un po' di riposo, finché l'oceano era tranquillo.

Le previsioni del mastro non tardarono ad avverarsi. Era proprio un uragano quello che si avanzava e forse un uragano formidabile.

Le stelle a poco a poco scomparvero sotto la massa delle nubi, avvolgendo l'oceano in una oscurità profondissima. Soffi d'aria calda, soffocante, spiravano di quando in quando dal sud-sud-est, scuotendo gli alberi del vascello e irritando l'oceano, le cui onde si coprivano di spuma.

Alle dodici un gran lampo fendette le nubi, seguito tosto da un furioso tuonare. Don Guzman e Michele, svegliati di colpo, salirono sulla tolda.

— L'uragano? — chiese il capitano a Josè.

— Sta per scoppiare — rispose il mastro.

— Chiama tutti in coperta.

Gli uomini che non erano di quarto lasciarono subito le loro amache. Don Guzman fece rinforzare gli alberi con nuovi paterazzi, ribattere i tappi che chiudevano i fori aperti dalle palle dell'americano, assicurare i cannoni, allestire le pompe, visitare il timone, gettare in mare una parte della zavorra, onde alleggerire il vascello e raddrizzare alla meglio le murate. Da ultimo fece trasportare nelle cabine di poppa i feriti che si trovavano a disagio nella camera di prua.

Quei diversi preparativi erano appena terminati che l'uragano scoppiò con grande furia. Il vento, squarciate le nubi, cominciò a ruggire, e l'oceano si gonfiò scagliando ovunque gigantesche ondate. A quei fragori s'unirono ben presto le scariche elettriche e vivissimi lampi ruppero le profonde tenebre mostrando l'oceano irritato ed in lontananza l'alta montagna dell'isola Cedros.

— Attenti, ragazzi! — gridò il vecchio Josè. — La gran tazza sta per bollire!

Il Poplador, urtato a poppa, a babordo e a tribordo da quelle masse liquide, non istava un sol momento fermo. Affondava pesantemente nei cavi dei marosi, si rialzava con forti scricchiolìi, si rovesciava violentemente or sull'uno e or sull'altro fianco e imbarcava acqua in grande quantità. C'erano dei momenti che don Guzman temeva di sentirselo mancare sotto ai piedi.

Alle dodici e mezzo un furioso colpo di vento abbattè i due alberi, i quali caddero con grande fracasso in coperta assieme ai pennoni, alle vele e alle manovre. Un marinaio, colpito alla testa da un grosso boscello, rotolò sul ponte tramortito. Quasi nel medesimo istante, un terribile colpo di mare, superata la murata di babordo, si rovesciava sul brick atterrando quanti uomini stavano lavorando attorno ai due alberi.

— Carramba! — bestemmiò mastro Josè, rimettendosi in equilibrio. — La faccenda diventa seria.

— Guarda a prua! — gridò ad un tratto una voce. — Siamo sotto gli scogli di Cedros!

Don Guzman e Michele, che si tenevano aggrappati all'argano di poppa, si precipitarono verso prua. A un chilometro appena, si rizzava un gigantesco accatastamento di rocce, contro il quale frangevasi con indicibile furore l'oceano.

— Siamo perduti — disse don Guzman. — L'uragano ci spinge verso quelle rupi.

— Ma siamo già sotto la costa di Cedros? — chiese Michele.

— Presso la punta meridionale, tenente. Ecco lassù la montagna che tuffa la sua vetta nelle nubi.

— Non si potrà arrestare il Poplador?

— Non abbiamo più un lembo di tela per virar di bordo e riprendere il largo.

— Fulmini e lampi! Tutto è contro di noi.

— Coraggio, Michele.

— Non ho paura, capitano. Mi rincresce pel povero Poplador.

— Il destino così vuole.

— Cerchiamo di investire con calma.

— Lo tenteremo, Michele.

Il capitano lasciò la prua e si diresse verso i marinai che si erano radunati attorno a mastro Josè. Erano tutti pallidi e guardavano con angoscia la costa di Cedros che i lampi illuminavano.

— Tranquillatevi, ragazzi — disse don Guzman. — Se dovremo urtare avremo la spiaggia poco lontana. Portate in coperta i feriti, dei viveri e delle armi. Bisogna pensare a tutto.

— Capitano — disse il vecchio mastro con voce commossa. — Non si potrà salvare il mio povero amico, il mio disgraziato Poplador?

— Temo, vecchio mio, che pel brick la sia proprio finita.

— Finita! Finita!... Povero amico!

— Affrettiamoci, Josè. Non c'è tempo da perdere.

I marinai, che non ostante l'imminente pericolo conservavano un certo sangue freddo, si misero subito all'opera sotto la condotta di Michele, di Josè e del mastro cannoniere Harguez. I boccaporti che erano stati ermeticamente chiusi onde l'acqua non irrompesse nell'interno della nave, vennero aperti ed i feriti che gemevano nelle amache furono trasportati sul ponte, parte a prua e parte a poppa. Ciò fatto, vennero tirati fuori dai magazzini barili di carne secca, di biscotti, di farina, alcuni di polvere e parecchi fucili, scuri e pistole.

— Ora possiamo naufragare — disse Michele che non si smarriva.

— Attenzione! — gridò una voce a prua. — Siamo sotto i frangenti!

— Capitano! — gridarono alcuni marinai con accento di terrore.

— Calma, ragazzi — rispose don Guzman che aveva afferrata la ribolla del timone.

Il Poplador, spinto dal vento e dalle onde s'avvicinava rapidamente alla costa sulla quale spumeggiava rabbiosamente il mare. L'urto doveva senza dubbio essere violentissimo.

I marinai, aggrappati alle murate, parte a prua e parte a poppa, guardavano con terrore l'alta montagna dell'isola che pareva si avvicinasse con fantastica rapidità.

Alle due del mattino il Poplador era a poche braccia dai frangenti. Mastro Josè, che stava ritto sul castello di prua accanto a mastro Harguez, mandò un urlo: — Attenti che urtiamo!

Un'onda gigantesca sollevò il povero legno e lo spinse sopra una lunga e stretta scogliera. Avvenne un urto violentissimo seguito da uno scricchiolìo sinistro. Un grido di spavento s'alzò fra i marinai mescendosi ai muggiti dell'oceano, all'infrangersi dei legni e agli strazianti lamenti dei feriti.

Il Poplador, lasciato cadere di peso sulla scogliera, si era spezzato per metà!