I naufraghi del Poplador/4. La battaglia

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4. La battaglia

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4.

LA BATTAGLIA


Non c'era un sol minuto da perdere, se si voleva raggiungere il piroscafo prima che lasciasse le coste della Vecchia California e si unisse alla squadra che doveva incrociare nelle acque di Monterey.

L'ordine di virare di bordo e di mettere la prua verso il capo Sant'Eugenio che copre, al sud, l'isola Cedros, fu dato e subito eseguito dall'equipaggio, che ardeva d'impazienza, che anelava di trovarsi di fronte al nemico. Il Poplador, abilmente diretto e spinto da un favorevolissimo vento, ben presto filò lungo la costa, scivolando o rimbalzando sulle lunghe ondate dell'oceano.

Non essendo improbabile che da un momento all'altro si trovassero a poppa del legno nemico, s'incominciarono subito i preparativi per la battaglia, la quale, a giudicare dall'entusiasmo che regnava a bordo, doveva essere terribile, feroce, spietata, senza quartiere. Si esaminarono e si caricarono i cannoni, che, come si disse, erano molti e la maggior parte da sedici; si rizzarono nelle batterie piramidi di palle e di cariche di polvere, sul ponte, a prua, a poppa, sulle gabbie, sulle coffe, si accumularono granate da gettarsi a mano, nel caso che le due navi si abbordassero o si cannoneggiassero a brevissima distanza.

Le murate si rinforzarono con brande strettamente legate, per proteggere i moschettieri; a prua ed a poppa si improvvisarono barricate con barili zeppi di ferraccio e di zavorra, onde poter meglio resistere, qualora il nemico riuscisse a salire sul cassero; si levarono alcune manovre di poca importanza e si rinforzarono altre che potevano seriamente venire danneggiate dalla mitraglia. Da ultimo si visitarono le pompe e le manichelle, si prepararono mastelli d'acqua nella santabarbara e in altri luoghi, per spegnere qualsiasi principio d'incendio e si dispensarono fucili, pistole, sciabole e scuri ai marinai, nonché abbondanti munizioni.

Terminati i preparativi di difesa come di offesa, spiegate tutte le vele possibili, compresi gli scopamari ed i coltellacci, dal tenente Michele furono mandati uomini sulle gabbie e sulle crocette, armati di potenti cannocchiali da notte, incaricati di scoprire il piroscafo che doveva essere facilmente visibile pei suoi tre fanali: il bianco sul trinchetto, il rosso e il verde ai due lati, nonché pel fumo e per le scorie uscenti dalla ciminiera.

— Là, così va bene! — esclamò l'infaticabile tenente, accendendo la sua vecchia pipa e girando uno sguardo sull'ampio oceano e sulla costa che rapidamente fuggiva. — Che si mostri la punta della maestra nemica sull'orizzonte, io aprirò, pel primo il fuoco. Carrai! Ci divertiremo e come ad un fandango1 e la gran cassa sarà il mio cannone da trentadue. Che ne dite, capitano Pablo?

— Io dico che se lo raggiungiamo è legno perduto — disse don Guzman. — È vecchio il Poplador, ma sa di aver sul ponte dei giovani cuori che fremono d'entusiasmo. Ruggirà come ruggiva anni sono nelle acque del Perù e del gran golfo.

— Sperate di raggiungerlo?

— Se il vento si mantiene così favorevole, lo raggiungeremo prima che lasci le coste della Vecchia California. Il sergente ha detto che camminava male, quindi non può avere su di noi un grande vantaggio.

— E se non lo si trovasse?

— Carrai! Andremo a trovarlo nelle acque della Nuova California, fosse pure in vista di Monterey.

— Corpo d'una spingarda!

— Vi spaventa ciò?

— Tutt'altro! Mi mette del piombo fuso nelle vene. Faremo una marmellata di tutti gli americani di Monterey. Guardate, capitano, io fremo tutto pensando che fra poco il cannone tuonerà. Urrah pel Poplador! Viva la guerra!

Il Poplador intanto si avanzava con una rapidità stimata non inferiore agli otto nodi e mezzo. Sbandato sul tribordo, scivolava come un gigantesco uccello sulla superficie dell'oceano, lasciandosi a poppa una gorgogliante scia, nella quale guizzavano mostruosi e voracissimi squali.

Tutti i marinai erano in coperta, chi ritti sul castello di prua o sul cassero, o aggrappati alle griselle, o sulle coffe e perfino sulle crocette, cercando ovunque il piroscafo o almeno qualche cosa che dasse indizio del suo passaggio. Pareva che quegli uomini, quantunque in gran parte raccozzati da pochi mesi e nuovi alla guerra, ardessero tutti d'impazienza e sospirassero l'istante di impugnare le armi e di far tuonare i cannoni. Persino i quindici o venti anglo-sassoni, che dovevano patteggiare più per gli americani del Nord, che per la repubblica messicana, sembravano entusiasmati.

Alla una del mattino il vecchio Josè, dalla crocetta di maistra segnalava San Rocco, piccola isola affatto simile ad Assuncion, dirupata, senza vegetazione ed a quel tempo senza abitazioni.

Il capitano, temendo che il piroscafo avesse gettato l'ancora in uno di quei piccoli seni che forma la costa, diresse la nave a quella volta, ma nessun fanale fu visto, né alcuna colonna di fumo s'alzò dietro le rocce e le scogliere dei piccoli fiords. Fece sparare una cannonata sperando di ottenere qualche risposta, ma soli risposero i muggiti delle onde.

— Al capo Santa Eugenia! — gridò Michele. — Là, o più innanzi, lo abborderemo.

Il Poplador tornò a piegare verso la costa, oscura, rocciosa, incavata, percossa dalle larghe ondate dell'oceano, che vi si frangevano contro con cupo fragore. L'alba spuntò, ma il piroscafo non si era ancora fatto vedere. Una sorda collera regnava fra l'equipaggio. Si imprecava, si ingiuriava, si minacciava il vile che fuggiva.

— Se lo scopriamo, — diceva il tenente, che era il più impaziente ed il più irritato, — non gli lasceremo un albero in piedi e lo manderemo a picco con tutti quelli che lo montano.

A mezzodì il vento scemò tanto che il Poplador ridusse la sua marcia a tre miseri nodi all'ora. Fortunatamente alle quattro pomeridiane ricominciò a soffiare, ma l'oceano si gonfiò, facendo vivamente rollare il legno.

Alle sei, mastro Harguez segnalava il porto di San Bartolomeo, ampia insenatura quasi circolare, difesa da una piccola penisola, ma senza un villaggio. Una scialuppa montata da dieci marinai e guidata da mastro Josè, fu mandata in perlustrazione, ma ritornò senza nulla aver veduto.

— Cosa facciamo? — chiese Michele a don Guzman che mordevasi i baffi.

— Andremo innanzi — rispose il messicano.

— La prua?

— A Sant'Eugenia, poi dritti a Natividad. Se anche là non lo troveremo ci spingeremo fino all'isola Cedros e allo Scammon Lagoon.

Il Poplador ripigliò la corsa, tenendosi sempre presso la costa che continuava a essere deserta e dirupata. Verso la mezzanotte fu scoperto un lume, ma si riconobbe tosto che era un falò acceso da pescatori indiani.

Alle due del mattino il capo Sant'Eugenia, che si protendeva assai verso l'oceano e che forma l'estremo limite di una ragguardevole penisola, veniva girato. Quasi subito apparve, verso il nord, l'isoletta di Natividad che assieme a quella, assai maggiore, di Cedros o Cerros, racchiude l'ampia baia di Sebastiano Viscaino.

Don Guzman diresse la nave verso la costa occidentale dell'isoletta, avendo intenzione di visitare la costa meridionale di Cedros, prima di entrare nella baia e perlustrare lo Scammon Lagoon che si interna per buon tratto nella penisola californiana.

Alle tre e mezza il Poplador girava la punta settentrionale di Natividad. Quasi nel medesimo istante, dall'alto della crocetta di maestra si udì una voce stentorea a gridare:

— Fanale a sette miglia sottovento! Luce bianca!

A quel grido, con tanta impazienza atteso, mezzo equipaggio si slanciò verso le griselle inerpicandosi sui pennoni, sulle gabbie, sulle crocette, sui paterazzi, sugli stragli.

— Stella o fanale? — chiese il capitano, scrutando il mare.

— Fanale — rispose il gabbiere.

— Sei certo?

— Sì, capitano.

Don Guzman si aggrappò alle griselle e salì sulla coffa di maestra seguito da Michele. Colà giunto puntò il cannocchiale, osservando attentamente l'orizzonte meridionale.

— Dunque? — chiese Michele.

— Vedo un fanale — rispose don Pablo.

— Bianco?...

— Sì, bianco, e ad una certa altezza sopra i flutti.

— Per mille bombe! — urlò il gabbiere, sempre ritto sulla crocetta. — Fanale rosso... Ecco il verde!...

— Il piroscafo!... Il piroscafo... — urlarono i marinai.

— Tuoni e lampi!... — esclamò Michele.

Don Pablo rimontò le griselle spingendosi più in alto, puntando una seconda volta il cannocchiale.

— Bastimento in vista! — gridò. — Ognuno a posto di combattimento.

I marinai in un baleno si lasciarono scivolare giù pei paterazzi e per le sartie.

— Mastro Josè, — gridò ancora don Pablo, — governa dritto quei fanali!

Il Poplador che navigava verso oriente mise la prua al sud, onde impedire al piroscafo nemico di guadagnare il nord, sia tenendosi sotto la costa californiana sia sotto l'isola di Natividad.

Sessanta uomini scesero nella batteria guidati dal mastro cannoniere Harguez, pronti a far ruggire i sedici pezzi d'artiglieria; venti altri si disposero attorno ai due pezzi da ventiquattro che erano in coperta, pronti a prestare man forte ai primi; quaranta fucilieri si appiattarono dietro alle due trincee di prua e di poppa o salirono nelle gabbie o nelle crocette, pronti a tempestare il ponte del vascello nemico colle palle delle loro carabine; venti svelti marinai si inerpicarono sui pennoni, sugli alberetti, sulle griselle, per riunire le corde nel caso che venissero danneggiate o tagliate dalla mitraglia; i rimanenti, guidati da mastro Josè, si sparsero pel ponte, ai bracci delle manovre sotto gli alberi dietro le murate, sul castello di prua e sul cassero.

Alle quattro tutti erano pronti per la battaglia, impazienti di udire il formidabile rimbombo dei bronzi e il sibilo della mitraglia, e risoluti di vincere o di saltare in aria col valoroso Poplador, piuttosto che ammainare lo stendardo della repubblica.

Una luce biancastra cominciava ad apparire a oriente, fugando le tenebre e facendo impallidire gli astri. Don Guzman e Michele, sul ponte di comando, coi cannocchiali in mano, osservarono attentamente la nave nemica che avanzavasi a piccolo vapore radendo le coste di Natividad.

— È proprio un legno yankee — disse Michele. — Ho scorto la sua bandiera rigata e stellata.

— Sì, sì, è un piroscafo americano, — confermò don Pablo, — e mi sembra che abbia le caldaie guaste. Se fugge ci sarà facile raggiungerlo.

— Ed ha un tonnellaggio non molto superiore a quello del nostro Poplador.

La marcia dei due legni continuava ma lenta, prudente. Il piroscafo si teneva sempre sotto le coste di Natividad, che non presentavano rifugi; il Poplador si teneva invece assai lontano, volendo manovrare liberamente, risoluto però a non lasciare che la preda fuggisse verso la Nuova California. Alle 4,43 minuti apparve il sole, illuminando d'un solo tratto l'oceano, Natividad e la costa californiana.

— Attenzione! — gridò il capitano Guzman.

Il piroscafo aveva messo la prua verso il capo settentrionale dell'isola e sforzava la sua macchina. Nubi di nerissimo fumo uscivano dal suo camino assieme a faville. Ad un comando di don Guzman il Poplador mise la prua verso Natividad, in modo da tagliare il passo all'americano. Michele si slanciò subito in coperta mettendosi dietro ad uno dei due cannoni da ventiquattro. La distanza che separava i due legni scemava rapidamente. L'americano bruciava carbone, ma il vecchio vascello aveva il vento favorevole e camminava assai di più.

— Arriveremo a tempo! — borbottava il tenente, accarezzando il suo grosso cannone.

A tremila metri l'americano cominciò il fuoco. Si udì una forte detonazione seguita da un fischio acutissimo, poi uno schianto. La delfiniera del Poplador, spaccata vicino al bompresso, capitombolò in mare, rimanendo attaccata alle sole trinche. Un gabbiere la liberò con pochi colpi di coltello. Mastro Harguez comparve sul ponte.

— Capitano, — disse, — dobbiamo cominciare? I nostri artiglieri fremono.

— Lasciate parlare i pezzi da ventiquattro. A voi, tenente! — gridò don Pablo.

Il genovese non aspettava che quel comando: si chinò sul cannone, l'abbassò di qualche centimetro, indi diede fuoco facendo tosto un salto indietro. Un uragano di fuoco e di fumo uscì dalla negra gola dell'enorme mostro, e la detonazione fu così formidabile, che scosse il vascello da poppa a prua.

Il proiettile, lanciato pochi metri sopra la superficie dell'oceano si sprofondò nel ventre del piroscafo, un po' innanzi la ruota di babordo. Un urrah entusiastico scoppiò a bordo del veliero.

— Bravo tenente! — gridò don Guzman.

— Devo continuare? — chiese il genovese.

— Sempre. Attenzione!

Un lampo balenò a prua del piroscafo, seguito da uno scoppio secco e dal solito fischio. La palla, di piccolo calibro a quanto sembrava, arrivò a destinazione, ma senza causar altro danno che quello di aprire un foro nella murata di poppa.

— Quella gente non sa sparare il cannone — disse Michele. — Questa è la risposta!

Tornò a curvarsi sul pezzo che era stato prontamente caricato e lanciò la seconda palla sul ponte del piroscafo, frantumando buona parte del camino. L'americano parve sbigottito della matematica precisione di quelle due cannonate. Rallentò la marcia e descrisse un mezzo cerchio, lasciando intravedere l'intenzione o di tornare indietro o di poggiare verso la costa californiana, probabilmente per rifugiarsi in qualche baia e forse nel profondo e stretto Scammon Lagoon.

— Barra a babordo! — gridò don Guzman. — Sempre dritti sull'yankee!

Il Poplador mise la prua al sud, facendo capire che era deciso a dare la caccia e continuare il combattimento. Il piroscafo se ne accorse e tornò verso Natividad forzando la sua macchina, coprendosi di fumo e di scintille.

Per altri cinque minuti, i due legni lottarono di velocità, l'uno precipitando tonnellate di carbone nei suoi forni, l'altro spiegando tutte le vele, perfino i coltellacci e gli scopamari. A millecinquecento metri l'americano ripigliò il cannoneggiamento, ma don Guzman non diede il comando di rispondere. Voleva scaricargli addosso una bordata e più vicino che era possibile, sicuro di fracassare le tambure e di immobilizzarlo.

La grandine di palle diventò ben presto insopportabile. L'americano, che possedeva buon numero di cannoni, tirava con furia indicibile, tentando di devastare il vascello nemico, alternando palle e granate.

Ad un tratto echeggiò la tuonante voce di don Guzman.

— Fuoco di bordata e avanti! Timoniere, orza!

Mastro Josè cacciò la ribolla all'orza. Non appena il veliero mostrò il fianco al piroscafo, la batteria s'incendiò con orrendo frastuono. Una tempesta di ferro solcò l'aria e l'acqua fischiando.

Quando il fumo fu dissipato si vide il piroscafo senz'alberi. Pennoni, trevi, corde, sartie, griselle, vele, erano ammucchiate alla rinfusa sul suo ponte. Giammai una bordata aveva ottenuto effetto eguale.

Ma non era ancora finito. Il Poplador in meno che lo si dica virò di bordo e presentando l'altro fianco scaricò gli altri otto pezzi, fracassando madieri e corbetti, sfondando murate, sventrando imbarcazioni. Poi un nembo di mitraglia, lanciato dai cannoni della coperta, andò a percuotere la tambura di tribordo dell'americano, schiantando le pale ed i ferri di sostegno.

Un immenso grido di trionfo rimbombò a bordo del Poplador.

— Viva la repubblica! Viva il Poplador!

L'americano, gravemente avariato, arrestò la sua macchina. Inchiodò la sua bandiera sull'asta di poppa, sgombrò in fretta il ponte, virò di bordo in maniera di presentare il fianco e cominciò a cannoneggiare con furia estrema, vomitando palle, granate e mitraglia. Non pensava più a fuggire; pensava a vendere caramente la vita.

La battaglia s'impegnò da ambe le parti con rabbia inaudita a meno di trecento passi di distanza. Tuonava tremendamente il Poplador, ma tuonava pure tremendamente l'americano.

Dalle fumanti batterie uscivano, assieme alle fiamme, palle, granate e uragani di mitraglia; dai ponti, dalle coffe, dalle crocette, dai pennoni, grandinavano palle. Tentennavano e cadevano con orribile fracasso gli alberetti e gli alberi, si spezzavano i pennoni, si piegavano le murate, si spaccavano le imbarcazioni, le grue, i madieri, s'aprivano fori e strappi pei quali precipitavasi l'acqua, cadevano gli uomini sotto e sopra coperta, scorreva il sangue in gran copia sfuggendo per gli ombrinali e arrossando le acque dell'oceano, ma nessuno parlava di resa: nessuno ammainava la bandiera e nessuno chiedeva un minuto solo di tregua.

Tre volte il capitano Guzman tentò di abbordare l'americano che avvampava come un vulcano e tre volte fu respinto e col vascello orribilmente malconcio. Tre volte intimò la resa e tre volte si ebbe un uragano di ferro.

Per due interminabili ore la lotta durò sempre più feroce, sempre più sanguinosa. Non c'era più un albero in piedi; non c'era più un madiere intatto; non c'era più una murata che non fosse in cento luoghi forata, non c'era più una imbarcazione sulla quale salvarsi; non c'era più un tappo da cacciare nei fori; non c'era più una lamina per otturare gli strappi e non c'erano quasi più bombe! Dappertutto si vedevano invece rottami, morti e feriti che si contorcevano nel sangue, emettendo lugubri urla e scagliando maledizioni.

Alle otto del mattino l'americano, tutto forato, fracassato, cessò il fuoco. L'acqua aveva invaso la stiva e saliva rapidamente, minacciando i pochi uomini che si erano rifugiati nella batteria. Don Guzman cercò di far avanzare il Poplador, ma non riuscendovi per la totale mancanza di alberi e di vele, intimò la resa.

Due colpi di cannone furono la risposta. L'americano ancora rifiutava. Il cannoneggiamento fu ripreso, ma durò pochi istanti. Il piroscafo affondava rapidamente, inclinandosi ora a babordo e ora a tribordo. Un'ultima volta fu intimata la resa, ma senza effetto. Gli yankees, abbandonata la batteria, in trentacinque circa, salirono sul ponte battendosi a colpi di carabina.

Ma l'acqua saliva, saliva. Scomparvero gli sportelli delle batterie, scomparvero le murate, il ponte fu invaso dai cavalloni. Quei trentacinque eroi si inerpicarono sui trevi degli alberi di maestra e di trinchetto, e di là lanciarono l'ultima scarica.

Alle otto e dieci il vascello s'inabissava nell'Oceano Pacifico trascinando nel vortice tutti quelli che lo montavano.


Note

  1. Fandango, ballo messicano.