I rusteghi/Nota storica

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Nota storica

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Atto III
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NOTA STORICA


Che la memoria sovvenisse non sempre fedelmente Goldoni quando in Tarda età scriveva a Parigi i propri ricordi, è risaputo. Così a suo dire, la prima recita dei Rusteghi risalirebbe all’autunno 1757 (Mem. II, XXXIV); mentre si può assegnarle con ogni sicurezza il carnevale 1760. Ce ne fa fede Gaspare Gozzi nel noto articolo inserito nel n. V della sua Gazzetta Veneta intitolato: La Compagnia dei Salvadeghi ossia i Rusteghi, commedia in prosa veneziana in tre atti del sig. Dottor Carlo Goldoni, che principia così: «Addì 16 di Febbraio si vide per la prima volta questa commedia sul teatro di S. Luca, e col ripeterne le rappresentazioni chiusero i comici di quella Compagnia il carnevale di quest’anno 1760»; data, annota giustamente Guido Mazzoni, che trovasi del resto anche nell’edizione Pasquali (Mem. di C. G., Firenze Barbera, 1907, vol. II p. 386).

Ma più importanti a segnalarsi sono la perfezione e l’originalità della commedia, della quale dissero un mondo di bene i critici più autorevoli che la presero ad esame. Né all’acuto giudizio del buon Gaspare dettato al primo udirla sentiamo poter rinunciare, come non rinunciarono Luigi Carrer (Not. sulla comm. ital. P. Ili, pag. 98 e segg.); più che 70 anni dopo, Ernesto Masi (nella Nota prelim. ai Rusteghi in Scelta di comm. di C. G., Firenze 1897); e finalmente Rosolino Guastalla nella sua Antologia goldoniana ad uso delle Scuole (Livorno Giusti, 1908, p. 146). Il Gozzi infatti ne rilevò con tocchi sicuri il valore, non già per la trama abbastanza tenue, quanto pei caratteri scolpiti da grande artefice; nè ci persuade punto il parere discorde del Masi stesso (op. cit.) e del Rabany (C. G. Le Théatre el la vie en Italie ecc. p. 126) che i rusteghi finiscano nello scioglimento collo smentire sè stessi, mentre, come pensava il Gozzi, è da presumersi che restino quelli di prima se anche in ultimo devono cedere unicamente e propriamente per necessità delle circostanze. «Notabile e soprattutto ne’ Rustici», scriveva dunque il bravo Gaspare nella citata Gazzetta Ven., «una cosa che a me par nuova e potrebbe forse stabilire una nuova regola nell’arte comica. Tutti quei poeti che hanno fino a qui imitato un carattere, ne vestirono un solo personaggio. Euclione in Plauto ed Arpagone nel Molière sono i soli avari nell’Aulularia e nella commedia francese. Da ciò nasce spesso cosa non conveniente; e ciò è che volendo il poeta in tal caso far vedere più faccie e diversi aspetti del carattere imitato, dee quasi di necessità tirare qualche scena co’ denti, per mettere il suo personaggio in una novella situazione e toccar, per così dire, del suo carattere le vane corde. Nella presente commedia quattro sono caratterizzati Rustici, onde le situazioni nascono e germogliano da sè facilmente; ed un medesimo carattere, compartito in quattro uomini, ha quattro gradi e quattro aspetti diversi che non violentati si affacciano agli uditori con varietà più grata. Quattro donne vi hanno parte: tre mogli e una figliuola da marito, tutte in soggezione; ma con diverse maniere. Una sola di esse si rende il giogo [p. 98 modifica]leggiero con la destrezza, ma però con riguardo. Tanto più spicca la ruvidezza degli uomini, quanto più le donne sono moderate, nè richiedono oltre il dovere.

Vedesti mai scena di artificio, che uguagli quella in cui si trovano a sedere dall’una parte Canziano e il Conte e dall’altra Marina e la moglie di Canziano, ordigno principale di tutta l’azione?1 In essa col tacere a tempo or delle due donne, or de’ due uomini e col dividere il dialogo, puoi dire, col compasso, vengono informati attori usciti di nuovo delle cose passate nella metà dell’atto primo, senza ripeterle all’udienza, e si apre la strada all’avanzamento del nodo. Tali scene non le fanno se non i periti maestri che soli le possono mettere ad esecuzione senza imbrogliare sè nello scrivere e i recitanti nella rappresentazione». Uditelo ancora: «Lo stile è colto e senza espressioni plebee o idiotismi vili. Sali e parlari urbani frizzano di continuo, e soprattutto sono festive le ultime scene dell’atto secondo, ove si conoscono per la prima volta i due giovani che si devono sposare. Nota il modo di far cavare la maschera a poco a poco; come l’Autore va per gradi, e quanto graziose malizie fanno quella scena brillare; e vedi in qual breve tempo nascono speranza, tema, diletto, romori, e con quant’arte si rinnova l’aspettazione per l’atto terzo, in cui finalmente cedono i Rustici per necessità e sì a stento, che vedi i Rustici obbligati a cedere dalla circostanza, non da cambiato carattere» (l. cit.).

Quanta serenità e gentilezza in confronto all’agro-dolce sentenza del fegatoso conte Carlo suo fratello, che non si peritava asserire «aver sempre consigliato il Goldoni a ristringersi alla bassezza (sic!) de’ Pettegolezzi delle donne, delle Femmine gelose della signora Lucrezia, della Putta onorata, della Bona muger, de’ Rusteghi, de’ Toderi brontoloni, e di consimili argomenti proporzionati alla sua vena, ne’ quali egli aveva un’abilità indicibile d’innestare tutti i dialoghi in dialetto veneziano, che ricopiava con immensa fatica manuale nelle famiglie del basso popolo, nelle taverne, a’ tragitti, ne’ caffè, e ne’ più nascosti vicoli di Venezia, divertendo moltissimo ne’ Teatri con un mendicume di verità...» (Mem. inut. I, 280), e via via di questo passo con altrettali trappolerie. Ma se la gloria maggiore di Goldoni sta appunto, ripetiamolo con Augusto Franchetti «nell’attitudine a ritrarre artisticamente la vita popolare della sua patria d’origine! Le baruffe di Chioggia e i pettegolezzi dei campielli veneziani, rusteghi, morbinose, massere, done de casa soa ebbero nel Goldoni il loro Callotta!» (nel breve ma sugoso articolo: Gran Goldoni! inserito nel Numero unico Venezia 20 die. 1883).

Domenico Gavi intanto «giurerebbe che più animata e viva cosa di questi Rusteghi non possa formarsi» (Della vita di C. G., p. 187). Meneghezzi domanda «chi potrebbe cessar di laudare questa bellissima commedia ove niuna bassezza» (a proposito delle bassezze scovate da Carlo Gozzi!) «riscontrasi nel dialogo sempre animato, sempre frizzante (Della vita e delle opere di C. G., p. 124). Il Guerzoni ne porge una minuta analisi riportandone scene intiere, e concludendo che i Rusteghi resteranno una delle miniere più ricche di sali e di vis comica, uno degli esemplari più illustri della buona commedia di carattere» (Il teatro ital. nel sec. XVIII, p. 241). Sembra al [p. 99 modifica]Galanti «di ritornare coi Rusteghi all’aura serena dell’arte sana e vera, dell’ arte che sopravvive al tempo» (C. G. e Venezia nel sec XVIII, p. 242). Pompeo Molmenti trova assai giusto quanto scrisse il Gioberti «che Goldoni si mostrò studiosissimo di una delicata sobrietà, ritraendo i difetti degli uomini nelle sue commedie, fra le quali basti citare i Rusteghi che sono forse l’opera più bella del Menandro italiano» (C. G., Venezia Ongania, 1880, p. 102). «Il capolavoro dei capolavori» li giudica Edgardo Maddalena, «dove si scorge quasi l’allegoria della Venezia d’altri giorni, ancora sana, in lotta coi tempi nuovi che con impronta insistenza battono alla porta; e pur, fuori dell’ allegoria, quadro di meravigliosa evidenza, uno spaccato stupendo; scene che senza il più leggero sforzo si svolgono una dall’altra; caratteri nettamente distinti, anche i più affini» (C. G., nel 2. Centenario della sua nascita. Discorso. Trieste Caprin, 1908, p. 23). Pel nostro Ortolani «quei tiranni domestici sono nella loro stolta infallibilità grandemente colpevoli verso le proprie donne e i propri figli: al pregiudizio della superiorità sacrificano le persone più care. E però l’animo generoso di Goldoni, pronto a tutti gli affetti, rifugge da essi e il poeta dice parole di amore e di bontà ai nuovi Italiani. È bene che i Lunardi e i Simoni spariscano travolti nelle rovine del vecchio mondo: la dottrina della vita è inutile, se nemmeno insegna l’indulgenza e il perdono! Di qui la grande umanità di questo capolavoro» (Della vita e dell’arte di C. G., Venezia, Ist. Ven. d’A. Graf., 1907, p. 109). Isidoro Del Lungo nel suo splendido discorso: Lingua e dialetto nelle commedie del Goldoni, tenuto all’Accademia della Crusca e nel nostro Ateneo (Firenze Tip. Galileiana, 1912), dice ricordarsi da tutti i Rusteghi, che dopo un secolo e mezzo conservano la giovinezza riservata ai capilavori, e riporta la scena di sior Lunardo che catechizza in rusticaggine la moglie, e di siora Felice che sopraffàa col suo spirito e la sua «ciàcola» la rusticaggine del marito sior Canzian, e il duetto tra Lunardo e Simone che rimpiangono il loro buon tempo antico (op. cit. p. 35-38). Al De Gubernatis pare «che nei Rusteghi, specialmente, il Goldoni siasi rivelato uomo di genio, se bene, come accade, egli medesimo non siasi forse mai accorto d’avere in quel capolavoro superato sè stesso» C. G, Corso di lezioni. Firenze, 1911, p. 316). Anche Arturo Graf la ritiene tra le commedie goldoniane «non solo una delle più dilettevoli e delle meglio condotte, ma ancora, per varie ragioni, una delle più importanti» (I Rusteghi ediz. Rasi, p. XV). Dove poi Ferdinando Martini abbia trovato «nel dialogo sconcezze e giuochi di parole così triviali, che oggi basterebbero a mettere un autore al bando delle persone educate» (in: La morale e il teatro, lettura fatta al Circolo filologico di Pisa il 12 aprile 1874, e pubblicata nel suo libro: Al teatro Firenze Bemporad, 1895, p. 17), non ci è riescito scoprire. Fatto sta che più tardi in una lettera diretta a Giuseppe Costelli: Come si scrive una commedia, egli termina colle seguenti parole che ci disvelano eziandio in lui un fervido ammiratore dei Rusteghi: «Tu vuoi sapere come faccio io. Io comincio dal pensare un personaggio, anzi dal ripensare, perchè bisogna che l’abbia visto e osservato nella vita reale e che sappia quali sono i pregi suoi e i suoi difetti, il suo modo di sentire e via discorrendo. Supponiamo un uomo; gli metto nome; un nome conveniente all’età, perchè nel mondo della fantasia io non so imaginare, per esempio, nè un Eugenio vecchio, nè un [p. 100 modifica]Girolamo giovine... Poi, secondo l’indole di lui e il minore o maggior grado di simpatia che mi ispira, lo ammoglio o lo lascio celibe: se ha moglie, apro le porte di casa sua a due battenti e ci fo entrare gente d’ogni sesso e d’ogni età; se è celibe lo mando in casa degli altri. Egli passa così accanto a un numero ragguardevole di persone insulse, con le quali non lo trattengo; finchè trova quel tale o quella tale presso cui mi pare non possa fermarsi senza che accada qualcosa. E se accade, osservo gli eventi nella loro successione e nella logica conseguenza; e passo una settimana, un mese, accompagnando i personaggi del dramma che va svolgendosi, e parlo con loro e li ascolto e li consiglio. Quando personaggi, incidenti, scioglimento, ogni cosa insomma è al suo posto, allora arnva il momento di scrivere la commedia. E allora rileggo i Rusteghi, e non la scrivo» (in Pagine raccolte, Firenze Sansoni, 1912, p. 317-18).

Cosa, ora può rimanere a noi da soggiungere, dopo questo coro di lodi da parte di tanti critici autorevoli su di una produzione, in cui non sapete se più ammirare l’evidenza dei caratteri, o la grande naturalezza, o le grazie insuperabili del dialetto? Fegurarse (per servirci dell’intercalare che adopera Margarita, la moglie di Lunardo) se tantissimi non l’hanno già ascoltata a teatro, o pur letta, o almeno appresone il sunto che ne da lo stesso Goldoni nelle sue Memorie (cap. cit.)! E però, se non altro per la bellezza del vernacolo, ci si consenta ripetere qui quello che in proposito scrivemmo altrove (Musatti. Spunti di dial. venez. nei Rusteghi di G., ne l’Ateneo Veneto genn.-febbr. 1910).

Siamo agli sgoccioli del carnovale, quando anche le ragazze più riserbate sospirano una giornata di lecito svago, una su trecento e sessantacinque. Vi aspira pure Lucietta, la figliuola di Lunardo, che sta con la matrigna aspettando che il padre rincasi (a. I, sc. II). Eccolo ch’entra, e s’avanza bel bello senza aprir bocca.

«Marg. (Velo qua per diana!) (s’alza)

Luc. (El vien co fa i gati). (s’alza) Sior pare, patron.

Marg. Sioria. No se saludemo gnanca? (a Lunardo)

Lun. Laorè, laorè. Per farme un complimento tralassè de laorar?

Luc. Ho laorà fin adesso. Ho deboto fenio la calza.

Marg. Stago a veder, figurarse, che siemo pagae a zornada.

Lun. Vu sempre, vegnimo a dir el merito, me de sempre de ste risposte.

Luc. Ma via, caro sior pare; almanco in sti ultimi zorm de carneval che no ’l staga a criar. Se no andemo in nissun liogo, pazienza: stemo in pase almanco.

Marg. Oh elo no pol star un zorno senza criar.

Lun. Senti che strambazza! cossa songio? Un tartaro? Una bestia? De cossa ve podeu lamentar? Le cosse oneste le me piase anca a mi.

Luc. Via donca, ch’el ne mena un pocheto in maschera...» Ma la matrigna che conosce l’umore del vecchio, esclama tra sè: «Adesso el va zoso!»

Sentite infatti se non trascende sior Lunardo, per il quale andar zoso è la sua specialità:

«E gavè tanto muso de dirme che ve mena in maschera? M’aveu mai visto mi, vegnimo a dir el merito, a meterme el volto sul muso? Coss’ela sta maschera? Per cossa se va in maschera? No me fe parlar. Le pute no ha d’andar in maschera». [p. 101 modifica]

Chi non ravvisa fino da bel principio in sior Lunardo un uomo attaccato alla famiglia, ma rude, testardo, formidabile tiranno della casa, adeso al passato come ostrica allo scoglio?

Una volta all’anno spassarsela, sì: ma «a casa soa, senza strepiti, senza sussuri» egli pensa; tutt’al più in compagnia di due o tre galantuomini, ben s’intende, dello stesso stampo e di scorza ruvida come la sua. Di cotesti, ne ha anzi per quel giorno invitati a pranzo tre: sior Canzian Tartuffola, sior Maurizio dalle Stroppe e sior Simon Maroele, nomi e soprannomi atti a destar subito l’ilarità e non scelti a caso, che nel fabbricare i nomi de’ suoi personaggi, fu il nostro commediografo ingegnosissimo al par di Manzoni con quelli dei Promessi Sposi (Così, e drittamente, il prof. Federico Pellegrini in C. G. ed Aless. Manzoni. Ne l’Ateneo Veneto, genn. - febbr. 1907).

«Cospeto de diana» (non può tenersi dall’osservargli la moglie) «Tre cai su la giusta! I avè ben trovai fora dal mazzo.

Lun. Cossa vorressi dir? no i xe tre omeni cossedie?

Marg. Sior sì, tre salvadeghi come vu».

A buon conto quella loro rispettiva figliola e figliastra è tempo d’accasarla; e sior Lunardo vi ha già riflettuto accordandosi con sior Maurizio d’unirla a Filippetto, figliuolo di costui; però col patto che lo sposo vedrà la sposa soltanto al momento delle nozze.

La scena (V dell’atto I) tra i due sordidi vecchi che discorrono di questa intesa, della dote, del corredo della sposa ridotto ai minimi termini, delle rispettive economie fino all’osso, è comicissima; ma troppo ci vorrebbe a mettere in mostra tutte le bellezze della commedia!

Fatto sta che Filippetto, cui il padre partecipò poco prima lo stabilito connubio, si rode invece, ben naturale, di conoscere prima la fanciulla; e se ne apre con Marina sua zia, e moglie dell’altro rustego, sior Simon:

«Mar. L’aveu vista la puta?

Fil. Siora no.

Mar. Avanti de serar el contrato, i ve la farà veder.

Fil. Mi ho paura de no.

Mar. E se no la ve piase?

Fil. Se no la me piase, mi no la togo perdiana.

Mar. Sarave megio che la vedessi avanti.

Fil. Come vorla che fazza?

Mar. Diseghelo a vostro sior pare.

Fil. Ghe l’ho dito, el m’a da sulla ose».

Troverà il modo di spuntarla siora Felice, una femmina di spirito, assai galante e altrettanto spedita di lingua. Ella, al contrario delle altre donne, anche troppo sommesse alle rispettive metà, fa il proprio comodo, voglia o non voglia il marito Canzian, selvaticone di poca fibra. Tra altro, si lascia volentieri corteggiare dal conte Riccardo, cavaliere servente d’occasione, recatosi a Venezia per divertirsi durante il carnevale, l’unico personaggio (stonatura fatta ad arte, osserva a ragione il Masi op. cit.) che parli in italiano. In compagnia di costui e del marito essa è venuta in buon punto a visitare la Marina, che trepidando capiti da un momento all’altro sior Simon, non vuole che il conte le sieda vicino. Siora Felice non ha di questi timori, e [p. 102 modifica]sentitela se sa toccare per bene il suo tasto: «Per cossa disela ste fredure?

Crédala forse che mio mario sia zeloso? Oe, sior Canzian, defendeve. Sentì, i ve crede zeloso. Me maravegio de ela, sior Conte. Mio mario xe un galantomo, el sa che mugier che el ga, no ’l patisse sti mali e se el li patisse, ghe li farave passar. La saria bela che una dona civil no podesse tratar onestamente un signor, una persona pulita che vien a Venezia per sti quatro zorni de carneval, che me xe stada racomandada da un mio fradelo, che xe a Milan! Cossa diseu. Marina, no saravela una inciviltà? No saravela un’asenaria? Mio mano no xe de sto cuor; el ga ambizion de farse merito, de farse onor, el ga gusto che so mugier se deverta, che la fazza bona figura, che la staga in bona conversazion. N’è vero, sior Canzian?
Canz. Siora si (masticando)».

A la Felice poco dopo la Marina confida il progettato matrimonio del nipote, nonchè il singolare divieto:

«Fel. Nol l’ha vista?

Mar. No, e i no i vol ch’el la veda.

Fel. Ma questo el xe un gran codogno.

Mar. Se savessi! Pagheria qualcossa de belo ch’el la vedesse prima de serar el centrato.

Fel. In casa nol ghe pol andar?

Mar. Oh gnanca per insonio.

Fel. No se podaria co l’ocasion de le maschere...».

Ed è appunto mascherato, insieme a la Felice e al suo cicisbeo che Filippetto viene introdotto in casa di Lunardo e può conoscere la fidanzata.

Peccato che dopo pochi minuti bisogna nascondere lui e il conte in una stanza vicina, essendo piombati sul più bello il padron di casa e i suoi amici ad avvertire Lucietta che «anca per ela xe vegnuda la so zornada»:

«Lun. Sastu chi xe el to novizzo?

Luc. Sior sì.

Lun. (sdegnato) Ti lo sa? come lo sastu? chi te l’ha dito?

Luc. Sior no, no so gnente. La compatissa che no so gnanca mi cossa che diga.

Lun. (a Sim. e Canz.) Ah povara inocente! Cussì la xe arlevada, vedeu!

Fel. (piano a Marg.) Se el savesse tutto!

Marg. (a Fel.) M’inspirito ch’el lo sapia».

Maurizio ch’è corso a casa per levar el putto, giacchè le nozze si devono far subito, non ve lo trova; e ritorna disperato, gridando che il ragazzone fu veduto in compagnia di certo signor Riccardo, un avventuriere che pratica siora Felice. Apriti cielo! Il conte salta fuori dal nascondiglio, protestando e protesta pure la sua donna, che se ne va con lui e pianta in asso la compagnia nella maggior confusione.

A questo tafferuglio segue una specie di consiglio dei dieci che i rusteghi anche se sono quattro, bastano a formare egualmente; trattasi di stabilire le pene da infliggersi alle mogli per quel po’ po’ di scandalo. Sior Simon propone cacciarle in un ritiro; ma «questo, vegnimo a dir el merito (risponde sor Lunardo) sarave un castigo più per nu che per ele; e là dentro le gavaria più spasso e più libertà che no le ga in casa nostra». Cui Simon: [p. 103 modifica]«Disè benissimo; specialmente da mi e da vu che no ghe lassemo la brena sul collo come mio compare Canzian». Per quanti castighi però ripensino, non sanno decidersi per alcuno; chi riesce finalmente con la sua irresistibile parlantina a domarli e ad ottenere che Filipetto sposi la sua Lucietta è la Felice «il Deus ex machina» (scrive a ragione il Masi nella nota cit.) di tutta la commedia. La brava donna principia col rinfacciare ai nostri tiranni domestici la loro rusticaggine per cui vengono considerati dalle loro mogli non già mariti, ma «tartari, orsi, aguzzini. Poi viene al fatto: il signor Lunardo ha da maritar la figliuola, ma piacciale o non piacciale, non l’ha da vedere prima delle nozze, deve prenderlo a ogni costo». «Ma el putto xe un putto de sesto, el xe bon, el xe zovene, no ’l xe bruto, el ghe piaserà. Seu seguro, vegnimo a dir el merito, ch’el gabia da piàser? e se no ’l ghe piasesse?»... «Sior sì, avemo fato ben a far che i se veda. Vostra mugier lo desiderava, ma no la gaveva coragio. Siora Manna a mi s’ha racomandà. Mi ho trovà l’invenzion de la maschera, mi ho pregà el forestier. I s’ha visto, i s’ha piasso, i xe contenti. Vu dovaressi esser più quieto, più consolà. Xe compatibile vostra mugier, merita lode siora Marina. Mi ho operà per bon cuor. Se sè omeni, persuadeve; se sè tangheri, sodisfeve. La puta xe onesta, el puto no ha falà, nu altre semo done d’onor. Ho fenio l’arenga; laude el matrimonio, e compatì l’avocato». I rusteghi ne rimangono scossi; non sanno che rispondere; e bisogna convenirne, la causa non poteva essere affidata a miglior difensore, sia pure in gonnella.

Se dovessimo ora registrare tutte le recite nelle varie città italiane di questi Rusteghi sempre piaciuti e piacenti, staremmo freschi. Contentatevi di quelle datesi a Venezia, notando però prima con Luigi Rasi che la parte di Filipetto ebbe brillanti interpreti non solo in attori di compagnie goldoniane, ma in Amilcare Belotti (Com. ital. I, 339), in Domenico Alberti (Il Barbiere di Siviglia, Milano 11 genn. 1834) in Alamanno Morelli (Rasi Com. ital. II, p. 155) e in Edoardo Scarpetta (ibid., p. 524); e che quella di Lunardo n’ebbe di eccellenti in F. A. Bon, in Luigi Duse, Antonio Papadopoli, G. B. Zoppetti, Angelo Morolin, Luigi Covi, Guglielmo Privato, e sarebbe superfluo ricordarlo, nel Bennii e nello Zago.

La commedia dunque venne rappresentata per la prima volta in Venezia al S. Luca il 16 febbr. 1760 col titolo: La Compagnia dei Salvadeghi o sia I Rusteghi, e ridata per tre sere consecutive. A proposito dei due noti intercalari di Lunardo e di Margherita racconta Gaspare Gozzi nel cit. numero della Gazzetta Veneta (20 febbr. I 760. n. 5) un grazioso casetto. Discorrendosi in una conversazione di tali superfluità del discorso «cadde in animo ad un bello spinto di quel circolo d’invitare a cena otto persone fra uomini e donne che avessero questo vezzo...» Quando si riunirono «fu nel principio un bell’udire ogni ragionamento ricamato con queste ripetizioni vuote: osservela, no so se me spiega, me capissela, la se figura, el forte è questo, alle quante lo vustu, e simili altri delizie. Andando avanti, ognuno in suo cuore notava il difetto dei compagni, poi si fece coscienza del suo proprio, tanto che per vergogna si parlava poco per non urtare nell’amica parola; e stavano mutili. Ma una signora, stanca forse di tacere e più spiritosa degli altri balzò in piedi e disse: Amici, qui si tace, e io so il perchè. In un momento [p. 104 modifica]non possiamo guarire. È meglio che ci sfoghiamo alla prima, e parliamo. Tutti intesero; risero, s’apersero le chiacchiere, e quando le lingue ricadevano nelle loro usanze, si faceva festa e remore onde la burla servì in fine di spasso».

Ma riprendiamo i’ elenco delle rappresentazioni:

1760, 6 ottobre altra recita al S. Luca col titolo: La Compagnia dei Salvadeghi (Gazz. Ven. 6 ott. 1760, n. 71).

1762, 13 marzo al S. Luca col titolo: La Compagnia de’ Rustici (Nuova Ven. Gazz., 17 marzo 1762, n. 2).

1765, 17 febbr. sempre al S. Luca, col titolo: La Compagnia de’ rustici o sia i selvatici; e così il 18, e pure il 19, ultimo giorno di carnevale (V. Diario Veneto).

1790, ottobre. Al S. Luca (leggesi nella Gazz. urb. veneta 27 ott. 1790) «si udirono con molta soddisfazione delle più vecchie commedie del Goldoni, come Le Baruffe chiozzote, I quattro Brontoloni (nuova intitolazione), Il medico olandese ed altre. Sappia il Molière dell’Italia che la sua Patria non si scorda di lui, e che al venir dal teatro dopo aver udita qualche sua commedia si sente a ripetere: Vale più una di queste scene che tutte le nuove stramberie de’ moderni Autori".

1801, 30 e 31 ottobre nuove repliche della comp. Pellandi al S. Angelo; e così il 30 e 31 dic. 1801 (Giorn. dei teatri).

1803, 14 genn., altra rappresentazione (Giorn. dei teatri).

1804, 5 genn. e 13 febbr. al S. Samuele (Giornaletto teatr.).

1820, 6 febbr. al S. Luca col falso titolo: Un matrimonio ridicolo (Bibl. teatr.); il 6 marzo al S. Benedetto, e il 24 ott. al S. Luca dalla comp. Modena (l. cit.).

1821, 25 maggio, comp. Morelli e Borelli (desumonsi questa recita e le successive dalla Gazz. di Venezia).

1822, 1 e 22 marzo al S. Luca, comp. Morelli.

1823, 4 marzo al S. Luca dalla com. comp. dei Concordi; l’11 agosto dalla comp. Morelli.

1824, 9 e 10 genn. al S. Luca, comp. Morelli.

1828, 3 genn., al S. Benedetto, comp. Morelli, col titolo: Quattro rusteghi brontoloni.

1830, 21 ott., al S. Benedetto, com. comp. Carlo Goldoni.

1831, 27 ott., al S. Benedetto, comp. comp. Carlo Goldoni dir. da Bon, Romagnoli e Barlaffa.

1834, 3 genn., al t. Apollo (ch’è poi il S. Luca) comp. Giandolini: I quattro Rusteghi con sior Filippetto.

1838, 24 nov. al t. Apollo, comp. di R. Mascherpa al servizio di S. M. Maria Luigia.

1840, 20 genn., all’Apollo, comp. Pila e Bonuzzi; il 10 sett., al S. Benedetto, comp. Mascherpa; il 31 ott., e 14 nov., dalla comp. De Rossi.

1841, 4 sett., al Malibran, comp. di Giuseppe Vivarelli.

1842, 26 genn., 27 genn., 1 marzo, 14 marzo al S. Samuele dalla comp. dir. da Luigi Duse.

1843, 3 e 6 febbr. all’Apollo, comp. di Luigi Duse; al Malibran il 26 luglio, comp. Vivarelli, il 3 nov., di nuovo all’Apollo dalla comp. Duse.

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1844, 2 genn., 8 mano e 22 dic. sempre all’Apollo e dalla comp. di Luigi Duse.

1845, 24, 25 e 26 febbr., e 11 apr. egualmente all’Apollo da L. Duse; il 22 luglio al S. Benedetto, comp. Minzoni, Prosperi, e Gandini.

1846, 9 genn., e 24 febbr. all’Apollo da Luigi Duse.

1847, 15 e 16 febbr, al Malibran da Luigi Duse; e 22 e 23 ottobre allo stesso teatro, comp. Bosello e socio.

1848, 2 maggio al teatro diurno Malibran da G. B. Zoppetti e socio.

1849, 23 genn. all’Apollo, comica comp. goldoniana.

1852, 12 febbr. nel teatro sulle Zattere da Luigi Duse.

1853, 17, 18 e 19 genn. all’Apollo dalla comp. Veneta dir. da Cesare Asti, il 31 genn. dal teatrino sulle Zattere da Luigi Duse.

1855, 5, 6 e 7 luglio al Malibran dalla comp. Pascali e Covi; e così il 12 sett. All’Apollo il 15 ott. comp. già Robotti e V’estri.

1856, 29 genn., e 8 marzo al t. Camploy a S. Samuele, comp. F. Lottini. All’Apollo 14 aprile da Cesare Dondini. Il 17 e il 18 nov., al Malibran da Lorenzo Paoli. Al S. Benedetto il 5 dic. dalla comp. di G. Leigheb.

1857, 9 genn., al S. Samuele dalla comp. di Felippo Lottini, della quale faceva parte l’Alcesta Duse, ottima Felice.

1858, 15 genn. e l’11 febbr. al S. Benedetto dalla comp. veneto-goldoniana di Cesare Asti.

1859, 10 genn., al S. Samuele, comp. dir. da Giorgio Duse; e 23 ott., all’ Apollo, comp. Stacchini.

1860, 9 genn., e 14 marzo al t. Malibran dalla comp. di Giorgio Duse.

1863, 7 genn. 6 e 13 febbr. all’Apollo dalla comp. Duse e Lagnnaz diretta da Giacomo Landozzi.

1864, 28 genn., e 4 febbr. all’Apollo dalla comp. ital., di F. Boldrini; nello stesso teatro 23 febbr. e 16 marzo dalla comica comp. nazionale; al Malibran il 21 aprile dalla drammat. comp. goldoniana.

1865, 22 e 23 genn. all’Apollo dalla comica soc. goldoniana, di cui facevano parte la Leontina Papa, Adelaide Paladini, Eleonora Duse, Ettore Paladini e Alessandro Duse: e replica il 18 febbr.

1866, 1 e 24 marzo al Malibran, comp. dir. da Gius. Lagnnaz. Nello stesso teatro l’11 aprile dalla comp., dir. da Giac. Landozzi.

1867, 31 marzo e 5 apr. da Antonio Papadopoli; al Malibran il 12 ott. dalla comp. Tassani e Covi.

1868, 15 maggio al S. Benedetto, comp. dir. da G. B. Zoppetti. Il 23 agosto e il 16 ott. al Malibran dalla Nuova comp. goldoniana che aveva per prima attrice Cecilia Bellotti-Duse.

1869, 16 e 21 marzo all’Apollo dalla comp. goldon. dir. dalla famiglia Ninfa-Priuli.

1870, 13 febbr. all’Apollo dalla comp. dir. da Augusto Bertini; al Camploy ossia al S. Samuele il 30 sett. dalla comp. di G. Armellini condotta da Angelo Morolin.

1871, 29 genn. e 1 febbr., allo stesso teatro Camploy dalla medesima Compagnia.

1872, 7 genn. e 13 febbr. dalla veneta comp. di Angelo Morolin.

1873, 27 aprile dalla Società iìlodr. «Alberto Nota» residente a S. Maria Materdomini.

1874, 5 genn. all’Apollo da Angelo Morolin.

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1873, 4 febbr. pure all’Apollo dal Morolin; e replica il 5 marzo inaugurandosi un busto a Goldoni, del cui nome si fregierà d’ora in poi il teatro.

1876, 4 dic. al Camploy dalla comp. di Matilde Arnous-Tollo ed Alessandro Gelidi, della quale fa parte Antonio Papadopoli. Al Rossini l’11 aprile da Angelo Morolin.

1877, 13 febbr. al Goldoni dal Morolin.

1880, 27 agosto al Goldoni dalla Soc. filodr. Carlo Goldoni, inaugurandosi una lapide in memoria della valorosa attrice Marianna Morolin.

1882, Il giugno al Malibran, recita straordinaria dell’artista Antonio Papadopoli. E il 31 dic. al Goldoni dalla Comp. G. Beninie G. Rospini dir. da F. Paladini.

1883, 3 febbr. al Goldoni dalla stessa Compagnia.

1884, 11 maggio al Goldoni dalla comp. venez. E. Zago e C. Borisi dir. da Giacinto Gallina.

1883, 29 ott. al Goldoni dalla stessa Compagnia.

1886, 24 ott. al Goldoni dalla comp. venez. Emilio Zago dir. da Giacinto Gallina.

1887, 30 gen. al Rossini dalla comp. veneta di G. Benini dir. da Angelo Pezzaglia; che aveva per brillante Ferruccio Benini, figlio di Gaetano. — Il 17 ott. al Goldoni dalla comp. dir. da Albano Mozzetti. — Il 26 dic. al Rossini dalla comp. di Enrico Gallina.

1888, 1 nov. al Goldoni dalla comp. di Emilio Zago e Guglielmo Privato.

1889, 26 ott. al Goldoni da Zago e Privato.

1890, 12 genn. al Goldoni dalla comp. Benini-Sambo. — Il 22 ott. pure al Goldoni, da Zago e Privato.

1892, 14 genn. al Goldoni dalla comp. Gallina-Giozza, primo attore Ferruccio Benini.

1894, 27 ott. al Rossini, da Zago e Privato.

1896, 29 ott., al Rossini, dalla stessa Compagnia.

1897, 26 nov. al Malibran, dalla stessa Compagnia.

1898, 21 nov., al Malibran dalla stessa Compagnia.

1899, 3 nov. al Malibran, dalla stessa Compagnia.

1900, 23 ott. al Rossini, dalla stessa Compagnia.

1901, 10 nov. al Malibran, dalla stessa Compagnia.

1902, 5 ott. al Rossini, comp. venez. di Emilio Zago (Guglielmo Privato, l’eletto artista, simpatia da tanto tempo di tante platee, morì a Padova il 30 marzo). Il 1 nov. al Malibran dalla stessa Comp.; che la replica il 23 nov.

1903, 1 ott. al Rossini da Emilio Zago.

1904, 2 e 4 dic. al Malibian dalla comp. di Emilio Zago, con Dora Baldanello, una Felice graziosissima, Alberto Brizzi buon Filippetto, e Vittorio Bratti, buon Lunardo.

1906, 3 dic. al Malibran, comp. di Dora Baldanello dir. da G. Pietriboni.

1907, 27 genn., 9 ott. e 28 ott. al Goldoni da Emilio Zago.

1908, 20 febbr. al Goldoni da Ferruccio Benini.

" 8 e 13 dic al Malibran dalla comp. di Dora Baldanello.

1909, 7 genn. e 26 dic. al Goldoni dalla comp. di Emilio Zago; con Giselda Gasparini, una Felice piena di brio e di grazie.

1910, 27 genn. al Goldoni, da Emilio Zago.

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1911, 27 genn. al Goldoni, da Ferruccio Benini.

» 31 dic. nello stesso teatro dallo Zago.

1912, 24 genn. al Goldoni dallo Zago.

» 14 febbr. da dilettanti in casa della distinta famiglia veneziana Cipollato. Nè paia indiscreto soggiungere che vi vestì superbamente i panni di Lunardo un caro amico nostro, l’avv. Marco Allegri.


Sono dunque cencinquant’anni che i Rusteghi calcano le scene veneziane, e le calcheranno ancora chissà quanto altro tempo! Gran Goldoni, lasciateci ripetere! Oggi pure sentiamo poter far nostro il giudizio d’un fine critico, Clotaldo Piucco, quando ebbe a scrivere che i Rusteghi, sior Todaro, il Campiello, le Barufe chiozole di Goldoni e i Ludri di Bon «sono i modelli che non si devono dimenticare, pur facendo la commedia moderna (Prime rappresentazioni dei teatri di prosa (1848-1866) Venezia Tip. della Gazzetta, 1884, p. 27).

Circa alle riduzioni e versioni della commedia, indichiamo delle prime una sola; quella del Moncalvo, Dio non voglia in milanese, data nel settembre 1858 in Milano al teatro della Commenda (Bertolotti. Gius. Moncaluo artista comico, Milano Ricordi, p. 77), e quella trasformata, ahimè! per soli uomini da L. Schiavi (Udine 1907). Delle versioni, una in italiano col titolo: I quattro Rustici (Nuovo Repert. Dramm. Fasc. 100, Firenze Romei, 1857); una in romanesco di Luigi Randanini col titolo: Una quaterna de scontenti oppuramente co sti strilloni nun ce ne va una bene, e due tedesche: una del Saal: Die Grobiane (in H. C. Goldoni. Sàmmtl. Lustspiele. Siebenter Theil 1770, pp. 1-108); e un’altra del co. Wolf Bandissin: Die Haustyrannen (in Italienische Theater ubersetzt... Leipzig Hirzel, 1877, pp. 159-254).

Anche a tre melodrammi giocosi porsero tema i Rusteghi: il primo, in 4 atti, parole d’autore incerto, musica di Vincenzo Moscuzza, nel 1875; il secondo, poesia di Fortunato Pontecchi, musica di Adolfo Gallori, nel giugno 1891; e un terzo con parole di Giuseppe Pizzolato tradotte in tedesco da Hermann Teibler, musica di Ermanno Wolf-Ferrari, nel 1906.

Goldoni dedicò la fortunatissima commedia al conte De Baschi, ambasciatore francese presso la Repubblica di Venezia e buon intenditore del nostro dialetto; del quale scrive Goldoni nella dedica aver avuto in mente di scrivere il dizionario, «ma credere sieno meglio i lettori serviti, dando loro la spiegazione sul fatto, anzichè distrarli dalla lettura per ricorrere al lessico» (Cfr. Musatti, Goldoni e il vocabol. venez. ne L’Ateneo Veneto, genn. - febbr. 1913).

C. M.


I Rusteghi furono pubblicati la prima volta a Venezia nella primavera del 1762. nel t. III dell’ed. Pasquali e l'anno stesso a Bologna (a S. Tomaso d’Aquino). Uscirono poi a Torino (Guibert e Orgeas III, 1772), a Venezia più volte (Savioli XI. 1774 e Pilteri XI, 1774; Zatta cl. I, VII. 1789; Garbo VII, 1795) a Lucca (Bonsignori 111, 1788), a Livorno (Masi XX, 1791) e forse altrove nel Settecento. — La presente ristampa seguì più fedelmente l’ed. Pasquali, curata dall’autore. Per la grafia del dialetto veneziano ricordiamo la nostra prelazione al primo volume e ciò che più volte abbiamo detto per altre commedie, per esempio a pag. 406 del volume terzo. Le note a piè di pagina segnate da lettera alfabetica appartengono al Goldoni, quelle segnate da cifra al compilatore dì questa edizione.

  1. È la scena IX dell’atto I.