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Idilli (Mosco)/IV

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Idillio IV. Megara moglie d'Ercole

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Mosco - Idilli (II secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Luca Antonio Pagnini (1827)
Idillio IV. Megara moglie d'Ercole
III V
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MEGARA MOGLIE D’ERCOLE

Idillio IV

 
Perchè mai tanto con atroci doglie,
     O dolce Madre, il core amante affliggi,
     Nè serbi in volto il bel di pria vermiglio?
     Che mai così ti crucia? I mali immensi,
     5A cui vil uom soggetta il tuo gran Figlio,
     Qual cerbiatto un lion? Deh! perchè mai
     Tanta mi fero i Numi eterni ingiuria?
     Perchè origin mi diero i genitori
     Sotto stella sì cruda? Oh me infelice!
     10Dacchè sì degno eroe m’accolse in letto,
     L’onorai sempre al par di mie pupille,
     E lui di cor pur anco onoro e colo.
     Ma fra i viventi alcun giammai non v’ebbe

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     Più sventurato, e in più disastri involto.
     15Ei coll’arco che diegli Apollo stesso,
     Padre infelice, e con gli atroci strali
     Di qualche Parca o Furia i figli ancise,
     E il caro spirto ne divese, acceso
     Di furor per la casa, e pien di stragi.
     20Io con quest’occhi miei perir dal Padre
     (Chi l’avria pur sognato!) ahimè! gli vidi;
     Nè al lungo chiamar madre io lor potea
     Nel sovrastante danno offrir soccorso.
     Ma com’aquila piagne i moribondi
     25Figli, che ancor pulcin tra dense frasche
     Crud’angue ingoja, e la pietosa madre
     Svolazza intorno a lor, con strida acute,
     Nè può i figli giovar per la paura
     D’avvicinarsi al dispieta mostro;
     30Tal io madre infelice lagrimando
     L’amata prole qua e là scorreo
     Co’ furibondi piè tutta la casa.
     Ah! foss’io pur co’ figli morta o Cintia,
     Che sulle molli donne hai tanto impero;
     35E giacess’io da venenato strale
     Punta nel cor. I genitor piangendo
     Con le dilette man non senza onori
     Posti ci avrìan sul comun rogo, e l’ossa
     Di tutti insieme in urna d’or raccolte
     40Avrìan colà riposte, ov’io son nata.
     Or essi in Tebe di cavalli altrice
     Albergo fanno, e dell’aonio campo
     Aran le pingui glebe; io qui in Tirinto
     Aspra città di Giuno ho il cor d’imnense
     45Doglie conquiso ognor; nè il pianto ha tregua.
     Sol breve tempo ho in casa innanzi agli occhi
     Lo sposo, a cui di gran fatiche il pondo
     Sta per mare, e per terra apparecchiato.
     E ben nel petto egli ha di sasso, o ferro

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     50Indomabile spirto. Or tu com’acqua
     In pianto ti disfai le notti, e i giorni,
     Quanti n’abbiam da Febo; e nessun altro
     De’ miei congiunti a confortarmi è presto,
     Chè queste mura a lor non dan ricetto.
     55Oltre l’Istmo pietoso han tutti albergo
     Lungi di qua, nè posso afflitta donna
     Rivolgermi ad alcun per mio conforto
     Fuor che a Pirra sorella; e questa ancora
     Per Ificle tuo figlio, e suo marito
     60Ha troppo ond’attristarsi. Ah! ben cred’io,
     Che i due più sventurati al mondo figli
     D’un Nume abbi concetti, e d’un mortale.
Così diss’ella, e fuor delle palpebre
     Spargea sul molle seno umide stille,
     65Che parean mele, al rammentarsi i figli,
     E appresso i genitor. Del pari Alcmena
     Le bianche guance fea di pianto molli,
     E mettendo dal sen gravi sospiri
     Così parlò a sua nuora in saggi detti:
     70O misera in tua prole, e che t’ingombra
     L’afflitta mente? a che turbarci entrambe
     Col rammentare i casi rei, che pianti
     Or non abbiam la prima volta? Forse
     Non basta il mal, che abbiam di giorno in giorno?
     75Di piagner vago fora ben chi tutti
     Contar volesse i nostri guai. Fa cuore;
     Che no’ tal non abbiam dal Nume incarco.
     Pur sotto il peso d’incessanti affanni
     Lagnarti io veggio, e ben ti escuso, o figlia,
     80Quand’anche il gaudio stesso alfin c’è noja.
     E troppo ti deploro, e ti compiango,
     Perchè a parte se’ tu dell’aspra sorte,
     Che sì grave sovrasta a me sul capo.
     Or io protesto ed alla stigia Dea,
     85E a Cerere velata (a cui sol faccia

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     Spergiuri in prova con suo grave danno
     Chi c’è nemico), che al mio cuor non sei
     Diletta men, che se tu fossi uscita
     Da questo seno, e se mi fossi in casa
     90Ultima prole verginella. E certo
     Ascoso a te nol credo. Or tu non dirmi,
     O caro frutto mio, ch’io te non curo.
     E bench’io lagrimassi anco più spesso,
     Che Niobe da’ bei crin, degna è di scusa
     95Madre, che piagne un tormentato figlio,
     Cui prima di veder, ben dieci mesi
     Portai nel sen con gravi doglie, e quasi
     Fui di Pluto sospinta alle gran porte:
     Tante recommi il partorirlo ambasce.
     100Or ei solo partì nova contesa
     A fornir vôlto, ed io non so, meschina,
     Se ritornato da lontan paese
     Abbraccerollo, o no. Turbommi ancora
     In mezzo a’ dolci sonni un tristo sogno,
     105E temo non l’infesta visïone
     Ministra sia d’avversi casi ai figli.
     Parvemi il mio robusto Ercole avente
     Ben lavorata zappa infra le mani,
     Onde a’ confin d’un verzicante campo
     110(Quasi preso a mercè) facea gran fossa,
     Spogliato senza pur gabbano, o giubba
     Fasciata al petto. Quando venne a fine
     Di suo lavoro, ed ebbe fatto intorno
     Al vitifero suol forte riparo,
     115Piantato il ferro in rilevata piaggia
     Stava per rivestir gli usati panni;
     Quand’ecco fuor della profonda fossa
     Lampeggiò tosto un indefesso foco,
     E al figlio s’avvolgea l’immensa fiamma.
     120Ma questi sempre addietro ritorcea
     Le snelle piante di fuggir bramoso

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     I mortiferi sdegni di Vulcano.
     Ei come scudo ognor dinanzi al corpo
     Movea la zappa, e qua e là cogli occhi
     125In guardia stava per non esser preso
     Dal fiero incendio. Il generoso Ifiele
     (Tal mi parea) per apprestargli aíta
     Move, nè giunto ancor stramazza in terra;
     Nè rilevar potendosi giacea
     130Immobile qual veglio infievolito,
     Cui suo malgrado a ripiegarsi sforza
     L’inamabil vecchiezza, e fitto al suolo
     Riman finchè col braccio nol rilevi
     Un passeggiero a riverenza mosso
     135Dal senil fregio della bianca barba.
     Tal si volgea l’agitator di scudo
     Ificle giù per terra, ed io piangea
     In rimirando i miei smarriti figli:
     Finchè dagli occhi mi si scosse il dolce
     140Sonno, e tosto apparì la lucid’alba.
     Tali mi sbigottîr sogni la mente
     Ben tutta notte, o cara. Ah! questi lunge
     Da nostra casa ad Euristéo sul capo
     Si rivolgano tutti; e sia profeta
     145Il mio desir, nè lo deluda il Cielo.