Idilli (Mosco)/IV
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MEGARA MOGLIE D’ERCOLE
Idillio IV
Perchè mai tanto con atroci doglie,
O dolce Madre, il core amante affliggi,
Nè serbi in volto il bel di pria vermiglio?
Che mai così ti crucia? I mali immensi,
5A cui vil uom soggetta il tuo gran Figlio,
Qual cerbiatto un lion? Deh! perchè mai
Tanta mi fero i Numi eterni ingiuria?
Perchè origin mi diero i genitori
Sotto stella sì cruda? Oh me infelice!
10Dacchè sì degno eroe m’accolse in letto,
L’onorai sempre al par di mie pupille,
E lui di cor pur anco onoro e colo.
Ma fra i viventi alcun giammai non v’ebbe
Più sventurato, e in più disastri involto.
15Ei coll’arco che diegli Apollo stesso,
Padre infelice, e con gli atroci strali
Di qualche Parca o Furia i figli ancise,
E il caro spirto ne divese, acceso
Di furor per la casa, e pien di stragi.
20Io con quest’occhi miei perir dal Padre
(Chi l’avria pur sognato!) ahimè! gli vidi;
Nè al lungo chiamar madre io lor potea
Nel sovrastante danno offrir soccorso.
Ma com’aquila piagne i moribondi
25Figli, che ancor pulcin tra dense frasche
Crud’angue ingoja, e la pietosa madre
Svolazza intorno a lor, con strida acute,
Nè può i figli giovar per la paura
D’avvicinarsi al dispieta mostro;
30Tal io madre infelice lagrimando
L’amata prole qua e là scorreo
Co’ furibondi piè tutta la casa.
Ah! foss’io pur co’ figli morta o Cintia,
Che sulle molli donne hai tanto impero;
35E giacess’io da venenato strale
Punta nel cor. I genitor piangendo
Con le dilette man non senza onori
Posti ci avrìan sul comun rogo, e l’ossa
Di tutti insieme in urna d’or raccolte
40Avrìan colà riposte, ov’io son nata.
Or essi in Tebe di cavalli altrice
Albergo fanno, e dell’aonio campo
Aran le pingui glebe; io qui in Tirinto
Aspra città di Giuno ho il cor d’imnense
45Doglie conquiso ognor; nè il pianto ha tregua.
Sol breve tempo ho in casa innanzi agli occhi
Lo sposo, a cui di gran fatiche il pondo
Sta per mare, e per terra apparecchiato.
E ben nel petto egli ha di sasso, o ferro
50Indomabile spirto. Or tu com’acqua
In pianto ti disfai le notti, e i giorni,
Quanti n’abbiam da Febo; e nessun altro
De’ miei congiunti a confortarmi è presto,
Chè queste mura a lor non dan ricetto.
55Oltre l’Istmo pietoso han tutti albergo
Lungi di qua, nè posso afflitta donna
Rivolgermi ad alcun per mio conforto
Fuor che a Pirra sorella; e questa ancora
Per Ificle tuo figlio, e suo marito
60Ha troppo ond’attristarsi. Ah! ben cred’io,
Che i due più sventurati al mondo figli
D’un Nume abbi concetti, e d’un mortale.
Così diss’ella, e fuor delle palpebre
Spargea sul molle seno umide stille,
65Che parean mele, al rammentarsi i figli,
E appresso i genitor. Del pari Alcmena
Le bianche guance fea di pianto molli,
E mettendo dal sen gravi sospiri
Così parlò a sua nuora in saggi detti:
70O misera in tua prole, e che t’ingombra
L’afflitta mente? a che turbarci entrambe
Col rammentare i casi rei, che pianti
Or non abbiam la prima volta? Forse
Non basta il mal, che abbiam di giorno in giorno?
75Di piagner vago fora ben chi tutti
Contar volesse i nostri guai. Fa cuore;
Che no’ tal non abbiam dal Nume incarco.
Pur sotto il peso d’incessanti affanni
Lagnarti io veggio, e ben ti escuso, o figlia,
80Quand’anche il gaudio stesso alfin c’è noja.
E troppo ti deploro, e ti compiango,
Perchè a parte se’ tu dell’aspra sorte,
Che sì grave sovrasta a me sul capo.
Or io protesto ed alla stigia Dea,
85E a Cerere velata (a cui sol faccia
Spergiuri in prova con suo grave danno
Chi c’è nemico), che al mio cuor non sei
Diletta men, che se tu fossi uscita
Da questo seno, e se mi fossi in casa
90Ultima prole verginella. E certo
Ascoso a te nol credo. Or tu non dirmi,
O caro frutto mio, ch’io te non curo.
E bench’io lagrimassi anco più spesso,
Che Niobe da’ bei crin, degna è di scusa
95Madre, che piagne un tormentato figlio,
Cui prima di veder, ben dieci mesi
Portai nel sen con gravi doglie, e quasi
Fui di Pluto sospinta alle gran porte:
Tante recommi il partorirlo ambasce.
100Or ei solo partì nova contesa
A fornir vôlto, ed io non so, meschina,
Se ritornato da lontan paese
Abbraccerollo, o no. Turbommi ancora
In mezzo a’ dolci sonni un tristo sogno,
105E temo non l’infesta visïone
Ministra sia d’avversi casi ai figli.
Parvemi il mio robusto Ercole avente
Ben lavorata zappa infra le mani,
Onde a’ confin d’un verzicante campo
110(Quasi preso a mercè) facea gran fossa,
Spogliato senza pur gabbano, o giubba
Fasciata al petto. Quando venne a fine
Di suo lavoro, ed ebbe fatto intorno
Al vitifero suol forte riparo,
115Piantato il ferro in rilevata piaggia
Stava per rivestir gli usati panni;
Quand’ecco fuor della profonda fossa
Lampeggiò tosto un indefesso foco,
E al figlio s’avvolgea l’immensa fiamma.
120Ma questi sempre addietro ritorcea
Le snelle piante di fuggir bramoso
I mortiferi sdegni di Vulcano.
Ei come scudo ognor dinanzi al corpo
Movea la zappa, e qua e là cogli occhi
125In guardia stava per non esser preso
Dal fiero incendio. Il generoso Ifiele
(Tal mi parea) per apprestargli aíta
Move, nè giunto ancor stramazza in terra;
Nè rilevar potendosi giacea
130Immobile qual veglio infievolito,
Cui suo malgrado a ripiegarsi sforza
L’inamabil vecchiezza, e fitto al suolo
Riman finchè col braccio nol rilevi
Un passeggiero a riverenza mosso
135Dal senil fregio della bianca barba.
Tal si volgea l’agitator di scudo
Ificle giù per terra, ed io piangea
In rimirando i miei smarriti figli:
Finchè dagli occhi mi si scosse il dolce
140Sonno, e tosto apparì la lucid’alba.
Tali mi sbigottîr sogni la mente
Ben tutta notte, o cara. Ah! questi lunge
Da nostra casa ad Euristéo sul capo
Si rivolgano tutti; e sia profeta
145Il mio desir, nè lo deluda il Cielo.