Idilli (Teocrito - Pagnini)/III

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III

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Luca Antonio Pagnini
III
II IV
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IL CAPRAJO, O AMARILLI,

OVVERO IL TRESCATORE

Idillio III

Vo in tresca d’Amarilli; al poggio intanto
Pascon mie capre, e Titiro le regge.
Titiro, amor mio bello, il gregge pasci,
Menalo al fonte, o Titiro, e quel bianco
Capron di Libia intier ve’ non ti cozzi.
Vaga Amarilli, perchè fuor dell’antro
Più non pieghi la testa, e me non chiami
Il vagheggino tuo? M’hai forse a schifo?
Forse a te, Ninfa, da vicin rassembro
Camuso, e con la barba troppo lunga?
Tu farai sì, ch’io mi sospenda a un laccio.
Eccoti dieci mele: io queste ho côlte
Là donde avevi a me di corle imposto.
Altre n’avrai doman. Deh! volgi il guardo
Al mio fiero dolor. Potessi io farmi
Ronzante pecchia, e nel tuo speco entrando
Strisciarmi giù per l’edera, e la felce
Che ti fa siepe. Or io conosco Amore.
È un Dio crudel. Certo ei succhiò le poppe
Di lionessa, e la sua madre in selve
Nudrillo. Ei m’arde, e sugge infino all’osso.
O Ninfa dal bel guardo, o ciglio nero,
O tutta selce, me capraro abbraccia
Perch’io ti baci. Un piacer dolce è ancora

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Ne’ baci vani. Tu vuoi far, che in pezzi
Tantosto i’ metta la ghirlanda d’ellera
Che a te, cara Amarilli, intesta serbo
Di bei bocciuoli, e d’odorifer appio.
Ahi! di me, che sarà? di me tapino?
Nè tu m’ascolti? Or la pelliccia svesto
Per fare un salto in mezzo là a quell’onde,
Ov’Olpi pescator fa guardia a’ tonni.
Bench’io non vi morissi, il tuo piacere
Pur sarìa fatto. Io me n’avvidi allora,
Che, cercando se m’ami, non fe’ scoppio
La foglia del papavero schiacciata,
Ma sul morbido gomito appassita
Invan restommi. Il ver mi disse ancora
Agreon, che indovina col crivello,
Lei, che a mercede un dì l’erba cogliea,
Ch’io dietro a te mi perdo, e tu mi sprezzi.
Una candida capra affè ti serbo
Madre di due gemelli, ch’Eritàce,
Quella brunetta di Mernone figlia,
Chiede, e l’avrà, s’io ti son gioco e scherno.
Battemi l’occhio destro. E che? vedrolla?
Qui canterò poggiato al pin. Fors’anco
Verrà a veder, chè alfin non è un diamante.
Ippomene allorchè la Vergin volle
Sposar, co’ pomi in man fornì suo corso.
Come il vide Atalanta, come in furia
Levossi, come in cupo amor s’immerse!
Dall’Otri a Pilo l’indovin Melampo
Guidò l’armento, e sua mercè la madre
Vezzosa della saggia Alfesibea
Fu di Biante infra le braccia accolta.
Adone ancor, che pecore pascea
Su le montagne, a tal furor non trasse
La bella Citerea, che neppur morto
Dal petto sel diparte? Ah! per me certo

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D’invidia è degno Endimion, che dorme
L’eterno sonno; e invidia porto, o cara,
A Giasion, che tante cose ottenne,
Quante non fien mai conte a voi, profani.
Ma duolmi il capo, e tu nol curi. Io taccia.
Qui getterommi giù per terra, e i lupi
Qui mangeranmi. Ti sarà poi questo
Giù per la gola un saporito mele.