Il Baretti - Anno II, nn. 6-7/Il teatro

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Leo Ferrero

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Paul Morand I critici

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IL TEATRO

Fra gli scrittori di teatro, c’è chi risolve il dialogo imprimendo a tutte le battute il proprio stile, e chi invece si adatta allo stile del suo personaggio. Nel primo caso lo spettatore sarà fin da principio riempito di questa unità stilistica e si avvezzerà a poco a poco, fino a non badarci più affatto, all’armonioso artificio di un mondo, visto attraverso un vetro colorato; nel secondo, la battuta stessa per esser sorpresa in bocca al personaggio un po’ a tradimento, acquista grazie alla sua veracità una importanza di osservazione psicologica, che stupisce e sveglia continuamente lo spettatore, e, dirci quasi, un valore di segreta satira. Nel primo caso l’autore domina la battuta; nel secondo la battuta, così come è, si impone all’autore.

Fra queste due forme di scrittura drammatica, ce n’è una mediana, che chiamerei quella della stilizzazione sotterranea; in cui a prima vista il dialogo ha l’aria di essere impersonale, borghese e facile, e ogni battuta, presa in sè, non svela nessuna riposta volontà stilistica; ma alla fine, ciò nonostante, lo spettatore non potrà liberarsi da una generica e fluida impressione di unità. Ci sono certi musicisti, come Pizzetti, in cui lo stile è di questo genere.

Queste tre maniere di risolvere il dialogo sono poi le tre maniere di concepire, più largamente, il dramma. Perchè infatti troviamo il dramma lirico, in cui il drammaturgo, è, senza dirlo il misterioso e solo macchinista di tutto l’intrigo, l’unico cantore e ispiratore, che riempie di sè le altre figure, fino a dar loro una vita di seconda mano. Questo autore può rivelarsi addirittura in un personaggio che lo rappresenta e raccoglie, o mantenersi ipocritamente nascosto, spandendosi sui suoi personaggi e facendoli brillare, come il sole dà alle cose la veste illusoria dei colori.

Troviamo poi il dramma di osservazione, in cui l’autore naufraga dentro la fredda inconciliabilità dei suoi personaggi, e non crede che nemmeno sul teatro, sia il caso di placarle nella sua espressione verbale, con la libertà che gli concede la convenzione dell’arte.

Troviamo finalmente i lirici trattenuti, che sono come quei disegnatori sensibili e casti, che non osando e non volendo confidarsi troppo languidamente al calore di un carboncino arruffato in piccoli e sfumati triangoli d’ombre, ove la pagina segnata di linee povere trova calore e illuminazione.

E queste mi paiono le tre divisioni insieme stilistiche e sostanziali, che si possono stabilire, per mettere un po’ d’ordine nella grande produzione drammatica della Francia moderna. Ai lirici confessi appartengono Claudel, Raynal, Ghéon. Agli osservatori Géraldy, Vildrac, Amiel. Ai lirici trattenuti Sarment, Bernard, Bouhélier, Lenormand, Romain.

Il primo che abbia trovato la strada del dramma moderno a espressione convenzionale, è Paul Claudel. Claudel può dirsi, in un certo senso, il padre dei lirici confessi, e per questo, anche se non se ne sono accorti e se hanno risolto il dialogo altrimenti, Raynal e Ghéon (specialmente il Ghéon di «Le Pain») da lui discendono. Ma Claudel è una mescolanza ruvida di terra e di cielo, di grasso e di misticismo, di divino e di umano, di rozzo e di sublime. E nelle persone stesse, la parte religiosa e sublime si rafforza per quella sensuale e terrestre, giacché, se spesso manca l’urto fra i personaggi del dramma, che grazie alla lirica finiscono per salvarsi ognuno sul suo binario e non incontrarsi, ci appare, formidabile e sempre spalancata, la tragedia interna di questa doppia e inconciliabile umanità. Ma l’una e l’altra, cercando di sopraffarsi, si mettono in valore, come due lottatori tendono i muscoli. A questo s’aggiunga il senso veramente tragico che è nello stile — crogiuolo duro, grosso e sovrano, in cui la materia deve essere sciolta e ricostruita continuamente — tanto che alle volte, si ha come l’impressione che, sentendosi violare e struggere, essa si divincoli; mentre con stupefazione vediamo diventare enormi e immobili, certe nuances fuggevoli di sentimenti che bisognerebbe appena suggerire. Lo stile a poco a poco s’addensa, s’ingrandisce, fino a prender la mano allo scrittore, e a ridurlo, come se fosse materia, suo schiavo. Da questa battaglia, certe pagine escono, trafelate e sciupate, altre morte: ma l'insieme conserva quel senso di robusta pienezza che non ha niente a che fare con la Bibbia vera e propria, ma che riesce a chi sa sfruttare la Bibbia, da un punto di vista moderno e per questo molto chiaroveggente.

In Ghéon tutto Claudel è più semplificato. In Raynal poi è addirittura disciolto. Nel «Tombeau sous l’Arc de Triomphe», il ritmo si barcamena tra la poesia e la conversazione, e, per regolare e comprimere questa prosa che sgronda da tutte le parti, manca una forma. Le persone poi, avendo ormai preso quello zoccolo di terra e di umanità, su cui, in Claudel, il mistico simbolismo si piantava a formella, barcollano languidamente nella nebbia dei simboli puri, e si scolorano. Tolta loro la psicologia corrente, che salva i personaggi di Claudel da una retorica troppo palese, i caratteri, in Raynal, si vanno riempiendo a poco a poco del loro simbolo fino a essere stilizzati in una maniera quasi goldoniana, ma a rovescio. Perchè come Raynal stilizza un carattere, riempendolo del suo simbolo, Goldoni stilizzava un carattere, allargando sino all’inverosimile una sua quantità parziale.

Bisogna osservare, d’altronde, come, per questi scrittori, la lirica qualche volta serva da scappatoia, rispetto a certi problemi psicologici troppo urgenti. Claudel stesso, costruttore di personaggi robusti, se la cava come un disegnatore che compisca le sue figure tra un arruffio di grossi segni, senza cercare direttamente la linea giusta, ma girandole intorno ampollosamente e cogliendole, in mezzo a tanto lusso di anelli e di fregoni, un po’ a caso. Perchè questi scrittori, quando imboccano certi canaloni, da cui non si saprebbe come uscire, cominciano a spargere inchiostro come le seppie, cercando di svignarsela sotto sotto. A quelle situazioni in cui la chiara musica di una battuta diventa eccessivamente pericolosa, essi contrappongono una pagina di lirica, ove quell’incertezza è nascosta da un sapiente disordine.

Il gruppo degli osservatori invece si è proibito questo trucco definitivamente.

Un Gèraldy, un Vildrac o un Amiel, si trovano nudi in una stanza vuota, sì che i loro gesti, offerti allo spettacolo del pubblico come i guizzi dei pesci in acquario, devono essere definitivi e controllabili continuamente con la misura della vita comune. Questa misura è a disposizione di tutti, e non c’è nessuno che non sia sempre disposto a servirsene.

Ma questi drammaturghi, Vildrac in particolar modo, hanno saputo sfruttare la diamantina e impacciante chiarezza del loro teatro per un nuovo e più segreto effetto di stile.

La bellezza di un dramma come, il «Paquebot Ténacity», il quale, da principio, lascia scontenti e pur pensierosi, è paragonabile a quella dell’aratro. La maggior parte della gente che va in campagna, non s’è mai accorta che l’aratro, per quell’equilibrio, armonioso delle sole forze necessarie ad arare la terra, può essere un modello di grandiosa e scarna bellezza. Ma quello che, agli occhi, illuminati, appare come il segreto di questa bellezza non è il vomere, il dentale, o la manecchia, considerati in sè, ma la composizione di questi strumenti rozzi in un insieme che è musicale, perchè non ci si trova nè sforzo nè parte superfina.

E’ necessario, ad ogni modo, fare una distinzione tra due drammaturghi come Géraldy e Amiel e un drammaturgo come Vildrac. Perchè Gèraldy e Amiel, più disinvolti forse, sul palcoscenico, sanno nascondere questa nudità sotto un’amabile negligenza, per cui dapprincipio sembra che si gingillino tra gustosi particolari d’ambiente, come per una soddisfazione di buoni fiorettatori; ma ci si accorge poi che sotto quei falsi indugi il dramma si sviluppa senza sciupare una battuta.

Mentre Vildrac ostenta questa sua essenzialità con tanta compiacenza che ha l’aria di volerla sfruttare come per un nuovo effetto oratorio.

All’effetto oratorio della semplicità, s’accompagna una tecnica, contrapposta, al mestiere del vecchio teatro, così simmetricamente, da diventare un nuovo mestiere. Il mestiere dell’antiteatro, e cioè la semplificazione piuttosto volontaria, che spontanea, della architettura. E qui si corre di nuovo un pericolo, perchè la tecnica, di cui noi tutti siamo abituati a dire un gran male, come di qualcosa che si contrapponga alla poesia, non è poi che l’arte della composizione, e cioè l’arte di ordinare le scene in modo che l’insieme, anche quando è lungo, dia l’impressione d’esser breve.

È quindi uno degli elementi necessari a fare delle costruzioni drammatiche, che si reggano.

Ma Vildrac, in un ardore cristiano di rinunzia, ha voluto spogliare il suo dramma di tutto quello che avesse l’aria di interessare per il congegno, invece che per la sostanza.

Così, dato il soggetto popolaresco del suo dramma, che si svolge in una taverna di porto, notevole è l’assenza del colore. Pensiamo alla funzione che il pittoresco aveva nell’Arlésienne, per scegliere, tra il repertorio dell’Ottocento, un dramma a sfondo colorato. Qui si può dire anzi, che l’Arlésienne è del pittoresco coagulato nei personaggi, i quali ne sono come l’essenza, o la traduzione umana. Vildrac lascia correre. Direi forse che cerca di mettere in ombra quello sfondo, che gli offrirebbe delle risorse troppo facili. E questa non va messa soltanto tra le rinunzie formali, ma anche tra quelle sostanziali; perchè l’atmosfera e il paesaggio, come la lirica, possono servire a annegare certe situazioni psicologiche divenute insormontabili. Avrete notato, che le battute di paese arrivano di solito quando bisogna trovare una via di scampo o una diversione, e riuniscono due zone drammatiche, su per giù come, nei quadri, i gruppi staccati sono ricomposti grazie alle architetture.

Se, per esempio, un Lenormand, si fosse privato del paesaggio Africano, per non parlare di tutti gli altri sfondi che colano dolcemente nei suoi paesaggi fino ad impregnarli, mi domando come se la sarebbe cavata. Lenormand, che per lo stile, appartiene ai lirici trattenuti, è l’unico di questi, in cui il colore abbia un’importanza drammatica. Ma qui non è più, come nell’Arlésienne, il pittoresco che trova la sua espressione in certi personaggi, ma sono i personaggi stessi, che a poco a poco scompaiono in seno all’atmosfera, la quale acquista la serietà di un protagonista.

Trasportate il Simoun fuori dell’Africa e il dramma non avrà più scheletro, perché quello sboccio di desideri carnali, maturato adagio, tra le ombre torpide di un patio, in tutti quegli esigliati consunti, è reso con effetti pittorici di sole, di calura, di deserto, di paese, insomma, che l’autore sfrutta per spiegare al pubblico i sentimenti dei personaggi quasi attraverso un simbolismo decorativo. Il sole, il deserto, il caldo, sono come tanti cartellini che voglion dire: concupiscenze segrete. Il Deus ex Machina è poi l’Africa.

Ma la via di Lenormand, che può dirsi il re del morboso, non ha niente a che fare con quella degli altri lirici segreti, a cui l’ho riunito solo per ragioni stilistiche. E qui occorre, grosso modo, semplificare la materia mettendo da una parte Bernard e Saint Georges de Bouhélier e dall’altra, ognuno per conto suo. Sarment e Jules Romain (non parlerò di Crommelynk, il quale, col giovane scrittore del Nouveau Messie, rappresenta francamente la nuova letteratura fiamminga, che a quella francese è riunita per la lingua, ma non per lo spirito).

I due primi scrittori si sono curvati a spiare drammi, i cui protagonisti sono sempre persone discrete. Se un Saint Georges de Bouhélier (parlo di lui specialmente come autore del Carnaval des Enfants) o un Bernard si trovassero di fronte a un protagonista brutale, perfido o maleducato, dovrebbero rimanere impacciati, giacché la loro arte, più che limitarsi ai piccoli soggetti, come osserva Tilgher, e questo io non credo, si limita alle persone bene educate, a quelle cioè che sanno ciò che si deve e non si deve dire, e in cui questa educazione, è diventata così invadente, che, aggiungendosi a un pudore istintivo, tappa la voce dei personaggi, proprio quando sarebbe loro permessa una più indulgente espansione. Ma ciò non toglie che in questa forma di pudica rivelazione, in cui gli uomini non dicono mai più di quel che si costuma nella vita e talvolta anche meno, siano stati scritti dei drammi molto vasti. Basta pensare al Printemps des autres di Bernard. Bouhélier si compiace piuttosto di prendere un piccolo dramma familiare, che avvolge subito nelle brume di una languida e quasi maeterlinkiana poesia, fatta con delle ripetizioni un poco estatiche, e di immergerlo e inquadrarlo nella indifferenza della vita che continua a fluire. Invece di isolarlo, come fanno i drammaturghi, nel suo scenario, condensando in lui l’universo e quasi fermando, per quel tempo, la vita degli altri. Saint Georges de Bouhélier, che ha sempre presente la proporzione giusta del suo dramma, non dimentica di riempirlo di questa vita universale, per aggiungere, all’angoscia della vicenda, quella della sua piccolezza e inutilità. Qui l’atmosfera non ha più un ufficio di comodo pittoresco, ma è parte essenziale del dramma.

Sarment invece ci presenta dei personaggi che sentono l’importanza di sè e della loro tragedia, e si guardano con una certa voluttà soffrire, pensare e morire.

Questi personaggi, non si sa bene se si rendono conto di essere a teatro o se ricercano degli atteggiamenti decorativi per piacere disinteressato. Ma in essi c’è sempre una vena segreta di laforguismo, che ci è stata rivelata dal Mariage d’Hamlet, in cui un Amleto, che ha letto Shakespeare e Laforgue e si conserva con studiata disinvoltura sopra una linea assolutamente letteraria, è la chiave del mistero di Jean e di Tiburce. Per questo io credo che le Mariage d’Hamlet, abbia una grande importanza, dal punto di vista critico. Anche Jean e Tiburce hanno una linea da seguire e cercano di risolvere il loro dramma nel modo più armonioso e sorprendente, come se conoscessero già l’ultimo atto, e volessero morire en beauté. Dicono le battute d’effetto con eccessiva chiaroveggenza e le calcano un poco, per timore che passino inosservate e per far capire che si rendono conto del loro peso. E come troviamo un pazzo che sa di essere pazzo e si diverte a dirlo, con la ingenua gioia di far colpo sugli uomini savi, così troviamo dei personaggi che si ricordano di avere una missione scenica, psicologica e sentimentale, e, d’un tratto, svelano attraverso le loro espansioni sorgive un lungo studio e il dramma si svolge delicatamente come un arabesco.

Isolato e un po’ sibillino ci appare Jules Romain. Dall’Armée dans la ville fino al Mariage de M. Le Trouhadec, troviamo la solita preoccupazione unanimista, che riempie anche i romanzi e le novelle di questo grande scrittore. Ma nell’ultima commedia, la comicità nutrita di grasse e rabelaisiane oscenità, che non apparivano in commedie come Knoch e Amédée, va diventando un problema letterario di curiosa importanza. Perchè non si tratta di quella comicità istintiva, che illumina i romanzi e le novelle di Jules Romain, o di oscenità allegre, che si collochino armoniosamente in una burlesca tempesta di passioni rudimentali, ma di comicità, che ha l’aria di sottintendere qualche cosa e di oscenità studiate, incastonate dopo gravi calcoli in mezzo a un intrigo in parte unanimista e in parte politico. Questo mi fa pensare a una specie di neo-molierismo e cioè di avveduto rifacimento della vecchia commedia, che corrisponde, nella tragedia, al neo-biblismo di Paul Claudel.

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Tirando le somme noi possiamo constatare in tutto il teatro moderno francese, come primo dato di fatto, la semplificazione della tecnica. Il dramma si regge sull’intrico sentimentale, e tutti gli altri congegni che servivano a costruire lo scheletro di un’opera di teatro, spariscono.

Dal punto di vista sostanziale, mi pare che il secondo dato di fatto sia l’approfondimento del carattere. «Lo scopo a cui tende il teatro, scrive, nella prefazione al suo Tristan et Iseult, Saint Georges de Bouhélier, è la verità, in ciò che essa ha di più intimo, e per conseguenza, di meno dipendente dalle circostanze esterne. Noi dobbiamo dunque darci allo studio del cuore umano, e non cercherei di scrivere per il teatro se l’uomo, con tutte le sue passioni, non dovesse esserne il centro».

Goldoni cercava un effetto direi quasi decorativo nella stilizzazione dei caratteri, che si rispondevano in una stessa commedia come gli strumenti di un’orchestra; il teatro francese contemporaneo, più che del verismo, cerca un altro effetto decorativo, nella scomposizione dei caratteri e quindi nell’approfondimento della loro natura.

Quello che scrive Tilgher, parlando della scomparsa del tipo, considerato come «ciò che in ciascuno di noi c’è di identico e di permanente» è dunque giusto, se inteso, non come la condanna della psicologia, ma come la sua rivalutazione.

Su questa terra comune ogni drammaturgo ha edificato il suo teatro, ed è veramente cosa rallegrante guardare questa folla di buoni scrittori, che poche generazioni hanno saputo darci, e che lo spirito ordinato della Francia ha diviso e raggruppato in teatri, come il Vieux Colombier et la Chimère, ili case editrici e riviste dandoci un esempio di coordinata e musicale civiltà letteraria.

Leo Ferrero.