Il Fiore delle Perle/32. Un superstite della Concha

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32. Un superstite della Concha

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Capitolo XXXII

Un superstite della «Concha»

Il giovane isolano non si era ingannato.

L’indomani, dopo due sole ore di marcia, il drappello, superato un altro fittissimo bosco, giungeva improvvisamente sulle rive del fiume. Sulla riva opposta furono subito scorte due pesanti canoe scavate nel tronco d’un albero, legate ad un palo piantato nella sabbia e che sulla cima portava la testa disseccata d’un coccodrillo.

— Ci siamo, — disse Tiguma. — La stazione deve trovarsi dietro quegli alberi che si spingono fino sulla riva.

— Non vedo però nessuno, — disse il malese. — Che gli uomini che l’occupano abbiano abbandonata la riva?

— Non credo, — rispose Tiguma. — Se vi sono le barche, gli uomini non saranno lontani.

— Se non vengono a prenderci, non potremo arrischiare la traversata del fiume, con quei coccodrilli che sonnecchiano sui banchi.

— Forse i canottieri saranno andati alla caccia; accorreranno di certo se tu fai tuonare il fucile.

— Proviamo, — disse Pram-Li.

Alzò la carabina e la scaricò in aria.

La fragorosa detonazione si ripercosse lungamente nei boschi, destando l’eco.

Un simile colpo poteva essere udito anche a varie miglia di distanza.

Il giovane selvaggio ed i suoi compagni attesero, tenendo gli occhi fissi sulla riva opposta e dopo cinque minuti videro un uomo uscire dal bosco.

Non era un igoroto e nemmeno un mindanese della costa, avendo la pelle d’una tinta bronzina molto chiara ed i lineamenti regolari; per di più indossava una specie di maglia d’una tinta dubbia, che pareva dovesse essere stata un tempo azzurra, pantaloni bianchi, sbrindellati e rattoppati, sorretti da una fascia rossa, e sul capo portava uno di quei berretti di panno azzurro cupo, usati dai marinai di tutte le nazioni dell’Europa e dell’America.

Nello scorgere quel gruppo di persone armate di fucile e vestite quasi all’europea, quell’uomo, un giovanotto di forse vent’anni, mandò un grido di stupore, poi si precipitò verso la riva dove si arrestò, tenendo gli sguardi fissi sui chinesi, come fosse in preda a tale emozione da impedirgli d’articolar parola. [p. 250 modifica]

— Per Fo e Confucio!... — esclamò Hong. — O io sono cieco o quell’uomo è qualche spagnuolo appartenente alla cannoniera arenata sul Talajan. Credi che io m’inganni, Than-Kiù?...

— No, — rispose la giovane, con voce soffocata. — Quell’uomo è uno di quelli che montavano la Concha e che hanno accompagnato Romero. —

Il marinaio continuava a guardarli come trasognato. Ad un tratto proruppe in una esclamazione che tradiva la sua origine.

Carramba!... Degli uomini della costa!... —

In quel momento sei o sette igoroti, che fino allora dovevano essersi tenuti celati dietro gli alberi, uscirono dalla foresta e raggiunsero il marinaio.

Appena li vide, Tiguma lanciò un grido bizzarro, stridente, forse un segnale di riconoscimento fra i negriti.

I sette selvaggi subito si lanciarono in una canoa dove li aveva già preceduti il marinaio, afferrarono i remi e si spinsero al largo, arrancando verso la riva opposta.

Tagliato il fiume quasi in linea retta, essendo la corrente molto debole, arenarono l’imbarcazione presso un banco sabbioso, poi salirono rapidamente a salutare Tiguma.

Il marinaio, dopo una breve esitazione, si era avvicinato a Hong ed ai suoi compagni, e levandosi cortesemente il berretto, aveva chiesto, con voce tremante per l’emozione:

— Non siete dei chinesi, voi?...

— Sì e dei chinesi che vengono dalle Filippine, — disse Than-Kiù.

— Dalle Filippine!... — esclamò lo spagnuolo.

— Da Manilla.

— Che cosa venite a fare qui, in mezzo ai selvaggi?...

— A cercare voi.

— Noi!... — esclamò il marinaio, al colmo dello stupore. — Ma chi?...

— I superstiti della Concha.

— Per la nostra Signora del Pilar!... — gridò lo spagnuolo. — Avete detto i superstiti della Concha?...

— Sì, — rispose Than-Kiù.

Poi chiese, con un tremito nella voce:

— È vero che Romero è ancora vivo?...

— Sì, è vivo. —

Un’ondata di sangue salì impetuosamente in viso alla giovane chinese, tingendole le gote, di solito così bianche da sembrare d’avorio, d’una viva tinta rosea, ma che subito scomparve per dar luogo ad una pallidezza cadaverica. [p. 251 modifica]

— Vivo!... — mormorò ella.

— Sì, vivo.

— Ed anche Teresita d’Alcazar?...

— Sì, però assai ammalata.

— Ah!... Ed il maggiore d’Alcazar?...

— Morto. È stato ucciso durante l’assalto della cannoniera.

— Quanti siete voi?

— In quattro soli: due marinai, don Romero e sua moglie.

— Sua moglie!... — esclamò Than-Kiù coi denti stretti, mentre un brivido le scuoteva le membra. — Ah! Sì, sua moglie!... —

Quindi dopo d’aver guardato lo spagnuolo per alcuni istanti, ma come trasognata, chiese con voce sibilante:

— E si amano?

— Sì, molto.

— L’adora, è vero? —

Il marinaio non rispose; guardava la giovanetta con crescente stupore non sapendo dove mirasse, nè perchè volesse sapere se Romero amava sua moglie.

Hong, che fino allora era rimasto muto, colla fronte corrugata, si avvicinò alla giovane e le disse in chinese:

— Il Fiore delle perle si dimentica dell’amico devoto?... —

Than-Kiù trasalì, chiuse gli occhi come se volesse sfuggire a qualche angosciosa visione, poi tendendo una mano al suo valoroso compagno e stringendogliela febbrilmente, rispose:

— No, Hong: è stata l’ultima emozione. Ora la ferita è rimarginata, ed il Fiore delle perle non appartiene che a te.

Si rivolse al marinaio e con accento perfettamente tranquillo, che dimostrava quanta forza d’animo possedesse quella strana fanciulla, gli chiese:

— Siamo lontani dai vostri compagni?

— Otto o dieci ore di marcia.

— Avete qualche capanna sulla riva opposta?

— Sì, signora.

— Passiamo il fiume. —

Scese nella canoa seguìta dal marinaio, dai compagni e dagli igoroti, e diede il comando della partenza.

La scialuppa, abilmente manovrata, riprese il largo e fu ormeggiata sulla riva opposta, entro un piccolo seno naturale.

Il marinaio, che si era messo alla testa del drappello, s’internò nella foresta e dopo d’aver percorso cinque o seicento passi, s’arrestò dinanzi ad una spaziosa tettoia coperta da otto o dieci piante di arecche. [p. 252 modifica]

In un angolo un fuoco ardeva e sopra arrostivano alcuni grossi pesci di fiume, somiglianti alle trote, ed una coscia di cinghiale.

Sotto quella tettoia vi erano delle scranne di bambù, rozze sì, ma abbastanza comode, ed una tavola fatta pure con canne di bambù spaccate, lavori dello spagnuolo di certo, non avendo gl’igoroti mai sentito il bisogno di quei mobili.

Than-Kiù ed i suoi compagni furono invitati ad accomodarsi, poi il marinaio, che si era incaricato di fare gli onori di casa, depose sulla tavola, sopra una grande foglia di palma, i pesci e la coscia del cinghiale, aggiungendovi dei pani di fecola, delle noci di cocco, dei banani, degli aranci ed un vaso di terra ripieno d’un succo dolce e piccante, ottenuto forse colla fermentazione delle frutta di sagu.

Tutti fecero buona accoglienza al pasto, anche Than-Kiù, la quale pareva che fosse diventata di buon umore, scherzando perfino coi suoi compagni. Si avrebbe potuto credere, che passato il primo impeto di gelosia, avesse riacquistata la sua calma, se il suo pallore non avesse tradito invece le preoccupazioni dell’anima ed i tormenti del cuore.

Terminato il pasto, Hong si volse verso lo spagnuolo e dopo d’averlo ringraziato dell’ospitalità, lo pregò di raccontare il disastro della Concha.

— Noi sappiamo qualche cosa, — disse il chinese, — però non conosciamo interamente il drammatico naufragio della cannoniera, poichè Pandaras non aveva interesse a narrarci tutto, anzi al contrario.

— Pandaras!... — esclamò lo spagnuolo. — Avete conosciuto quel pirata?...

— Siamo stati suoi prigionieri.

— Voi!... E siete riusciti a sfuggirgli di mano?

— Abbiamo fatto di meglio, amico mio: lo abbiamo ucciso.

— Grazie per averci vendicati, essendo stato quel miserabile ad assalire la cannoniera ed a macellare quasi tutti quelli che la montavano.

— Raccontate tutto, — disse Than-Kiù. — Siamo impazienti di udire quell’istoria. —

Il marinaio invece di cominciare fissò i suoi occhi sulla giovane chinese, passandosi a più riprese la mano destra sulla fronte, come se si sforzasse a evocare qualche lontano ricordo. Ad un tratto trasalì e mandò un grido di stupore.

— Che cos’avete? — chiese Than-Kiù, sorpresa.

— Io vi ho già veduta! — esclamò. — Io ho udita la vostra voce!... Credevo di essermi ingannato; ora non ho più dubbi.

— Quando? — chiese Than-Kiù.

— Era una notte oscura, senza luna e senza stelle e la vostra voce [p. 253 modifica] era strozzata dal pianto, ma avevo avuto l’occasione di vedervi bene in viso nel momento in cui ritiravo il pontile della cannoniera.

— Sì, forse m’avete veduta, — disse la giovinetta.

— Eravate sul quai di Binondo.

— Sì.

— Ed eravate accompagnata da un chinese di fiero aspetto, uno dei capi più formidabili dell’insurrezione, così si seppe poi.

— È vero.

— E piangevate assai.

— Sì, ma ora non più — disse Than-Kiù, prorompendo in uno scroscio di risa, ma di un riso che faceva male a udirlo.

— Piangevate don Ruiz, quella notte.

— No, piangevo di rabbia.

— Povera giovane!...

— Tacete!... Il tempo è passato, l’uragano ha distrutto tutto, tutto!... Aspettiamo la vostra narrazione. —

La giovane chinese afferrò con moto convulso una tazzina di terra ricolma di liquido fermentato, la vuotò tutta d’un fiato, poi sorridendo a Hong che le stava presso, disse:

— Lo vedi, mio valoroso: tutto è morto ormai nel cuore del Fiore delle perle e domani te ne darò una prova dinanzi a lui. —

Il marinaio accomodatosi alla meglio sulla sua scranna, dopo di essersi umettata replicatemente l’ugola, aveva cominciata la narrazione del drammatico naufragio della Concha e dell’assalto dei pirati di Pandaras.

— La traversata da Manilla a Mindanao era stata così felice, — aveva cominciato egli, — tanto da farci sperare di poter giungere tranquillamente alle Molucche, mèta del nostro viaggio, tale essendo stato l’ordine dato dal generale comandante di Manilla, onde togliere a don Romero Ruiz la possibilità di prendere ancora parte all’insurrezione.

In alto mare, da un sacerdote appositamente imbarcato, era stato celebrato il matrimonio fra il capo degli insorti e la figlia del maggiore d’Alcazar. Pareva che il vecchio soldato presentisse di non poter vederlo compiuto alle Molucche.

Fu al sud dell’arcipelago di Jolo che la burrasca ci colse, destando in noi tutti serie apprensioni, poichè si trattava di un vero tifone.

Il mare era diventato spaventoso e le onde montavano a bordo con urla e muggiti da far impallidire perfino il comandante. Ogni ondata che spazzava la coperta, trascinava qualche uomo.

Fu deciso di appoggiare nella baia di Illana per cercare un rifugio a Cottabado, alla foce del Rio Grande, ma il tifone, malgrado i nostri sforzi, ci trascinò al sud, spingendoci verso la foce del Talajan. [p. 254 modifica]

Trovandoci impegnati fra i banchi di sabbia ed in procinto di venire sbattuti contro la costa, il comandante cacciò la Concha nel fiume, però anche là le onde risalivano la corrente così furiosamente, che fummo costretti a spingerci più innanzi, finchè toccammo.

L’arenamento fu così violento, che la cannoniera si rovesciò su di un fianco, facendo cadere in acqua quasi tutto l’equipaggio, e buona parte di quei disgraziati non poterono più tornare a bordo; il fiume li aveva inghiottiti.

Quando ci contammo eravamo soli ventidue, mentre avevamo lasciato Manilla in quarantasei.

Essendo a così breve distanza dalla capitale del Sultano, non avevamo presa alcuna misura di precauzione, certi di non venire disturbati, e quella fiducia fu la nostra perdita.

La stessa notte, mentre eravamo tutti addormentati, i pirati di Pandaras circondavano la cannoniera, salendo audacemente a bordo.

Quando ci accorgemmo dell’attacco, i mindanesi erano già sul ponte e si erano resi padroni dei due pezzi d’artiglieria che stavano a poppa.

Dal capitano, dagli ufficiali e dal maggior d’Alcazar fu tentata la resistenza che terminò in un vero massacro. Tutti furono uccisi, eccettuati don Romero, sua moglie e altri sei miei compagni, rimasti bloccati nel quadro di poppa.

Chi più chi meno avevamo ricevuto delle ferite, avendo tentato di irrompere in coperta per portar soccorso al comandante, ed anche don Ruiz aveva ricevuto un colpo di parang sul petto, nel difendere sua moglie.

Credevamo di venir tutti finiti, invece, con nostra grande sorpresa, fummo non solo risparmiati, ma anche bene trattati. Si diceva che Pandaras avesse fatto dei progetti su di noi e che sperasse un grosso riscatto, essendosi accorto che Romero Ruiz e sua moglie erano persone d’alta condizione.

Fummo medicati e imbarcati su due scialuppe per essere condotti a Butuan. Gli strapazzi di quel lungo viaggio furono fatali a cinque dei nostri compagni, le cui ferite si erano inasprite, e cessarono di vivere mentre salivamo il Bacat.

Ci eravamo già rassegnati alla nostra schiavitù, non vedendo la possibilità di poter deludere la sorveglianza dei nostri guardiani, quando una notte mentre le canoe si trovavano ferme su queste rive, i pirati furono a loro volta attaccati.

Era una banda d’igoroti, che li aveva assaliti. Sorpresi nel sonno furono facilmente vinti e scannati prima ancora che potessero organizzare la resistenza, ma noi fummo risparmiati in causa della nostra pelle bianca. [p. 255 modifica]

Saputo che noi eravamo dei poveri prigionieri, i vincitori ci offersero larga ospitalità, dichiarando che ci avrebbero lasciati liberi di riguadagnare la costa se lo avessimo voluto. Disgraziatamente la figlia del maggiore d’Alcazar si trovava allora in tale stato di debolezza, da non poter intraprendere un così lungo viaggio. La febbre dei boschi l’aveva côlta durante la salita del Bacat e ridotta in tristi condizioni di salute. Fummo condotti sulle rive di un vasto lago, il Linguasan, e ospitati in una capanna d’un capo d’igoroti, una specie di rajah che comanda a parecchie tribù; colà si trovano ancora don Ruiz, sua moglie ed il mio compagno.

Io invece mi sono trasferito qui, sperando sempre di veder giungere qualche drappello di soldati spagnuoli mandato in nostro soccorso e vedo che ho avuto ragione a non allontanarmi dal Bacat.

— Saremmo venuti egualmente a cercarvi sul Linguasan, — disse Hong. — Avevamo saputo che vi trovavate colà.

— Da chi?

— Da un capo di selvaggi che è amico di Bunga. Ditemi ora, è guarita la donna bianca?

— Non ancora.

— Potrà affrontare il viaggio da qui alla costa?

— Io crederei di sì, poichè dal Linguasan al mare la distanza non è molta.

— Vi è un’altra via di comunicazione?

— Sì, per mezzo del Rio Grande che esce dal Linguasan e che va a sboccare presso Cottabado. Il viaggio sarà più sicuro, compiendosi attraverso territori del Sultano di Selangan.

— È vero, — disse Hong. — Prenderemo quel fiume per tornare alla costa e chissà che non troviamo a Cottabado il nostro vecchio chinese e la sua giunca.

— Che ci attenda ancora? — chiese Than-Kiù.

— Mi aveva promesso che qualunque cosa ci fosse accaduta non avrebbe abbandonato Mindanao, se non dopo aver raccolto le prove della nostra morte.

— Allora forse ci sta cercando sul Talajan.

— È probabile, ma Cottabado è così vicino a quel fiume, che ci sarà facile andar a trovare il vecchio Tseng-Kai.

— Quando partiremo pel lago, Hong?

— Hai fretta, Than-Kiù?

— Sì. È per darti la prova che io non amo più Romero.

— Sta’ in guardia, Fiore delle perle; talvolta il cuore prepara delle sorprese inaspettate e una passione che si credeva spenta, avvampa improvvisamente. [p. 256 modifica]

— Sono sicura di me, Hong: lo vedrai domani.

— Questa sera noi partiremo allo spuntare della luna. Va’ a riposarti, fanciulla mia; abbiamo marciato tutta la notte e tu devi essere forte per la prova suprema.

— Ti obbedisco, giacchè lo vuoi, ma il Fiore delle perle è pronta alla lotta e non tremerà dinanzi all’uomo che aveva amato sui campi dell’insurrezione. —

Tiguma e gl’igoroti avevano preparato dei nuovi letti con fasci di foglie fresche, prevedendo che i chinesi ed il malese, stanchi per quella lunga marcia notturna, avrebbero preso un po’ di riposo prima di rimettersi in cammino pel lago di Linguasan.

Hong ed i suoi compagni, invitati anche dal grande calore che regnava in quella foresta, ne approfittarono.

Il loro sonno non fu turbato da alcun avvenimento e appena calate le tenebre e sorta la luna, abbandonavano la capanna, sperando di giungere, allo spuntare del giorno, alla tribù di Bunga.

Il marinaio e due igoroti si erano uniti a loro per guidarli; invece gli altri erano rimasti alla piccola stazione, per avvertire i loro compatrioti in caso di pericolo, essendo in continua guerra coi pirati di Butuan e coi cacciatori di teste.

Quella grande foresta che si estendeva senza interruzione dalle rive del Bacat a quelle del Linguasan, era meno intricata di quella che avevano attraversato prima Hong ed i suoi compagni. Era composta di alberi isolati e quasi priva di quei noiosi calamus che interrompono continuamente il cammino, costringendo le persone ad una continua e faticosa manovra dei kampilang o dei pesantissimi bolos. Era anche meno deserta, vedendosi sovente dei villaggi aerei costruiti sulle biforcazioni dei più grossi rami, villaggi abitati tutti da igoroti dipendenti da Bunga.

Alle due del mattino, dopo una fermata d’un paio d’ore, il drappello incontrava i primi terreni paludosi che indicavano la vicinanza del Linguasan.

Larghi stagni coperti di canne giganti, in mezzo alle quali nidificavano migliaia d’uccelli acquatici, si distendevano nella foresta, costringendo i viaggiatori a percorrere dei lunghi giri. Talvolta invece erano dei corsi d’acqua che tagliavano la via, per lo più fangosi, abitati da serpenti ed anche da coccodrilli.

Non essendovi nessun ponte, i chinesi ed i loro compagni si trovavano obbligati a passarli tutti a guado, ma Than-Kiù giungeva sull’opposta riva sempre perfettamente asciutta, perchè Hong la portava fra le braccia.

Cominciava a spuntare l’alba, quando si trovarono quasi improv[p. 257 modifica]visamente dinanzi ad una immensa distesa d’acqua, la quale perdevasi verso l’est con delle sfumature madreperlacee, che a poco a poco si coprivano di scintille dorate per l’imminente comparsa dell’astro diurno.

Era il lago di Linguasan, uno dei più vasti del Mindanao, venendo subito dopo a quello di Maguindanao che si trova più a settentrione, al di là dei monti Rangayan.

Il Linguasan serve di sbocco ad un numero considerevole di corsi d’acqua che lo mettono anche in comunicazione col lago di Butuan che è situato più al sud e ne alimenta altri più considerevoli, come il Rio Grande, a cui è unito per mezzo d’un canale naturale.

Quantunque l’ora fosse molto mattutina, alcune canoe munite di vele di giunchi lo percorrevano di già dirette verso il nord, forse per approdare a Rayabuang, che è l’unica borgata considerevole che si trovi sulle rive di quell’ampio bacino.

Than-Kiù si era fermata sulla sponda e guardava attentamente a destra ed a sinistra, come se cercasse il villaggio abitato da Romero e da Teresita.

Essa sembrava molto commossa, ed il suo volto era diventato più pallido.

— Dove sono? — chiese al marinaio, con un tremito.

— Il villaggio di Bunga è laggiù, dietro quel promontorio boscoso — rispose egli.

La giovanetta aveva aperte le labbra come se volesse chiedergli ancora qualche cosa, poi vedendo che Hong la osservava, ammutolì.

— Guidateci, — disse il chinese al marinaio.

Si riposero in cammino costeggiando il lago e seguendo un sentieruzzo aperto fra i canneti da una parte e gli alberi della grande foresta dall’altra.

Hong si era messo a fianco di Than-Kiù e non la perdeva di vista; pareva che spiasse i menomi trasalimenti del viso della compagna. Era inquieto, pensieroso ed aveva la fronte aggrottata. Senza dubbio, malgrado il giuramento della fidanzata, temeva assai l’incontro con Romero.

La giovane chinese se n’era accorta e approfittando del momento in cui erano rimasti un po’ indietro, gli disse:

— Tu non sei tranquillo, Hong.

— Lo confesso, — rispose il chinese, con un sospiro.

— Dubiti del tuo Fiore delle perle?

— No, ma ho paura.

— Hai torto, amico mio. Guarda, sono calma; appoggia il tuo orecchio sul mio cuore e lo udrai battere tranquillamente. Mai forse, come in questo momento, io sono stata così risoluta. [p. 258 modifica]

— Risoluta a che cosa?...

— A mostrarti che non amo che te.

— Dubitavi prima?...

— Forse, e ora no.

— Than-Kiù, mia piccola amica!... Se tu sapessi quanto affetto io provo per te!... Preferirei morire piuttosto di perderti.

— Sarò tua sposa, mio valoroso Hong, ma ad una condizione.

— Parla: ogni tuo desiderio sarà per me un comando.

— Che tu mi riconduca nel mio paese natìo. L’aria delle Filippine non fa più per me e sento un desiderio ardente di respirare quella del paese dei lillà.

— Partendo da qui noi non rivedremo più Manilla, te lo prometto; ti condurrò direttamente sulle rive del Fiume Giallo.

— Grazie, amico. Rivedrò con piacere la mia casetta specchiantesi nella gialla corrente del gran fiume, l’alta cupola a scaglie di ramarro che proietta la sua ombra sui lillà del mio giardino e presso la quale riposa la salma del valoroso mio fratello. Ah!... Sarebbe stato meglio se io non avessi lasciato la casa dei miei avi e non avessi mai veduto Manilla!... Il mio cuore non avrebbe provato, così presto, nè tanti dolori nè quella terribile delusione che mi ha infranta la gioventù, e Hang-Tu non sarebbe morto.

Cosa doveva importare a noi l’indipendenza delle isole?.. Non bastava quella del nostro Celeste Impero? Ma Hang-Tu, spirito irrequieto e battagliero, non aveva voluto rimanere sordo all’appello delle Società segrete ed è finito sanguinante sul molo di Binondo!...

— Egli ha voluto provare come i chinesi, che si erano mostrati inetti contro l’invasione dei giapponesi, sanno battersi e morire da valorosi. Tuo fratello è caduto da eroe, fanciulla, e con la sua vita ha lavato la macchia che lordava i suoi compatrioti.

— Sì, ma adesso egli dorme il sonno eterno, — disse Than-Kiù con tristezza.

— E non per causa dell’insurrezione, — soggiunse Hong.

— Per colpa del mio infelice amore, — disse Than-Kiù. — Come me, egli non aveva potuto reggere alla terribile disillusione.

— Disillusione voluta da Romero.

— No, Hong.

— Forse che non è stato lui a distruggere il tuo sogno e le speranze di Hang-Tu?...

— No, il destino e la Perla di Manilla, — rispose Than-Kiù con un lungo sospiro.

— Se Romero avesse voluto, avrebbe potuto farti sua e dimenticare Teresita d’Alcazar che era una figlia degli oppressori. [p. 259 modifica]

— E m’avrebbe fatta sua moglie se prima non avesse amata la Perla di Manilla e non le avesse giurato di esserle fedele. Ho avuto il torto di conoscerlo troppo tardi o meglio di fargli comprendere troppo tardi la passione che bruciava il cuore del Fiore delle perle. Orsù! tutto è finito; il destino ha vinto, ma mi ha lasciata una rivincita che cancellerà la prima disillusione e che mi farà ancora felice.

— E quale, Than-Kiù?

— Di possedere il cuore del più valoroso chinese; il tuo, Hong.

— Sì, lo possiedi tutto, assieme alla mia vita. Ti giuro, mia povera fanciulla, che se hai tanto sofferto io ti farò felice e che non rimpiangerai più mai il tuo primo amore. —

In quell’istante il marinaio mandò una esclamazione di stupore e lo si vide impallidire.

— Per la nostra Madonna del Pilar!... — esclamò. — Cosa succede nel villaggio di Bunga?... —

Anche i due igoroti che lo accompagnavano si erano arrestati mandando un grido gutturale che pareva di sorpresa e anche d’inquietudine.

— Che cosa avete? — chiese Hong, rivolgendosi al marinaio.

— Non vedete voi avanzarsi sul lago una numerosa flottiglia?... Guardatela, sta doppiando una punta che finora l’aveva nascosta ai nostri occhi. —

Hong, Than-Kiù ed i loro compagni avevano rivolti gli sguardi verso una lunga e stretta penisola che si prolungava sul lago.

In quella direzione era improvvisamente comparsa una flottiglia composta d’una trentina di grandi canoe, montate da un gran numero di persone armate di lance e di fucili.

La precedeva una canoa di dimensioni straordinarie, che pareva fosse stata scavata nel tronco d’un tek gigantesco, addobbata in rosso e con una specie di padiglione al centro.

Quaranta remiganti seminudi la spingevano con un accordo perfetto, facendo balzare molto alta l’acqua.

— Chi sono quegli uomini? — chiese Than-Kiù, con un leggiero tremito.

— Temo che il dubbio si sia convertito in realtà — disse il marinaio della Concha, aggrottando la fronte.

— Cosa volete dire?...

— Da qualche tempo si vociferava nel villaggio che il Sultano di Butuan sarebbe venuto a vedere i prigionieri dalla pelle bianca e reclamarli per conto suo.

— Possibile!... — esclamò Than-Kiù, facendosi smorta. [p. 260 modifica]

— Sì, signora, — disse il marinaio.

— E cosa vorrebbe farne degli uomini bianchi?...

— Suoi schiavi.

— E non potrà resistere Bunga ai voleri di quel barbaro Sultano?... — chiese Hong.

— Non ha uomini sufficienti per opporsi ai voleri di quel potente monarca.

— Hong!... — esclamò Than-Kiù.

— Andiamo al villaggio, Fiore delle perle. Quando il Sultano sbarcherà, ci saremo anche noi. —