Il Parlamento del Regno d'Italia/Giorgio Asproni
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Leonzio Armelonghi | Rodolfo Audinot | ► |
ASPRONI GIORGIO, dottore in legge
deputato.
Egli è nato nel dicembre del 1808 a Bitti nell’isola di Sardegna. I suoi genitori scelsero per lui la carriera ecclesiastica, e nel tempo in cui saliva i gradini di quella per arrivare al sacerdozio, seguiva gli studi legali, dapprima all’università di Sassari, poscia a Cagliari, ove conseguiva la laurea nel 1833.
Monsignore arcivescovo Bua d’Oristano, amministratore della provincia di Nuoro, personaggio in quei tempi oltre ogni credere influente, apprezzando la svegliatezza d’ingegno e il sapere del giovine prete, sel volle far cosa sua, e a tal fine, chiamatolo pressò di sè, gli conferì l’importante carica d’avvocato delle chiese e cause pie in Nuoro stesso.
Ma, come troppo soventi suole accadere nella vita, che di là, dove sembra abbiasi a far fondamento per isperare le migliori prosperità che uom si possa promettere, scaturisce invece la sorgente di tutti i guai che ci debbono affliggere, avvenne che l’Asproni si udisse un giorno proporre dall’eccelso suo benefattore d’aversi a preparare a sostenere certa causa contro di tal canonico ch’ei conosceva per uomo dabbene e che sapeva essere ingiustamente attaccato.
Malgrado gli obblighi di gratitudine che il rendevan tutto propenso ad obbedire agli ordini dell’arcivescovo, don Giorgio non potè assumersi l’impegno di far cosa sì contraria ai dettami della giustizia e alle imperiose voci della propria coscienza, e recatosi dal monsignore gli annunciò con tutto il dovuto rispetto, attraverso le espressioni del quale tuttavia trapelava la fermezza dell’adottata risoluzione, com’ei non si sentisse in grado di tòrre a patrocinare una causa che sembravagli meno che equa.
Insistè il prelato, ed in siffatta guisa e con sì pochi riguardi, che la buona fede dell’Asproni ne fu allarmata e che per la prima volta s’avvide ove lo si volesse condurre.
— Ma, monsignore! esclamò don Giorgio, con un certo qual impeto che rivelava di già il futuro tribuno, ho l’onore di dirvi che la mia coscienza mi vieta assolutamente di trattare una simile causa, nel senso che voi m’imponete. Il canonico ha tutte le ragioni del mondo, ed io non esiterei un istante ad assumermi la sua difesa.
— Non si tratta della vostra coscienza, replicò stringendosi nelle spalle l’arcivescovo; si tratta del vostro dovere, e il vostro primo dovere è quello d’obbedirmi in tutto e per tutto.
— Domando perdono, monsignore; è mio dovere d’obbedirvi in ciò ch’è lecito e onesto, e siccome quello che esigete da me non mi pare nè onesto, nè lecito, io mi rifiuto ricisamente.
Il prelato, personaggio per la sua posizione, pel suo valor personale e per le sue aderenze possentissimo, e quanto possente, altrettanto temuto, trasecolava nel vedere che quel giovine e semplice prete, ch’erasi immaginato far suo strumento da maneggiare a proprio grado, osasse ribellarsi di tal guisa ai suoi voleri cui grandi omaccioni inchinavansi.
Allora, fosse che gl’importasse veramente che quella causa venisse patrocinata dall’Asproni, di cui gli eran noti l’abilità e i talenti, fosse che gli stesse a cuore di trionfare di quella temeraria opposizione e di far rientrare ad ogni patto nell’obbedienza il riottoso, l’arcivescovo mise in opra tutti i mezzi possibili, ammonizioni, promesse, lusinghe, preghiere e minacce, senza menomamente pervenire a vincere la costanza dell’Asproni.
Da quel momento la guerra fu dichiarata, guerra terribile, senza tregua e senza mercede, dal possente prelato all’umile prete; questi, non ostante il suo coraggio e la sua fermezza, tormentato, perseguitato, insidiato, dovette alla perfine cedere il campo, nascondersi, fuggire e ricoverarsi a Cagliari.
Nè colà stette molto tempo tranquillo, chè il lungo braccio di monsignor Bua il raggiunse ivi pure e il fe’ minacciare d’esilio dalle autorità ecclesiastiche. Ma l’Asproni non era tal uomo da sgomentarsi così di leggeri; quindi recatosi da quell’arcivescovo: — Qual’è il mio delitto? interrogò, e come ho meritato d’essere scacciato di qua? Questa è la capitale dell’isola, aperta a tutti, nè so che mi si possa impedire di soggiornarvi. Si osservi se la mia vita sia regolare, se onesti sieno i miei costumi; ove io manchi, mi si punisca, ma non mi si discacci in prevenzione, e ove non s’abbia colpa a rimproverarmi.
Quest’energico linguaggio produsse tal effetto sull’animo di chi l’ascoltava, che don Giorgio fu tollerato in Cagliari. Vero è che quella non era che una breve sosta, che una perfida quiete, foriera di più grossa tempesta; si fingeva averlo dimenticato in Sardegna, ed intanto lo si accusava a Roma.
Ora, non havvi chi ignori che un’accusa a Roma, di que’ tempi, a danno di un ecclesiastico, era affare seriissimo per quest’ultimo; li in pace non erano ancora aboliti, e s’ei veniva condannato nella città eterna, non rimanevagli altro scampo fuorchè quello di prevenire gli effetti della condanna col refugiarsi all’estero.
L’Asproni anche questa volta non ismarrì l’animo sardo, che non è certo da meno del còrso, e senza mettere tempo in mezzo, recossi difilato nella capitale del mondo cattolico a patrocinare la propria causa.
Dovette restarvi parecchi mesi, ma tanto disse e tanto si adoperò, che lo si rimandò assolto, se non benedetto. Tornato cogli onori del trionfo in Sardegna, e saputo vacante un canonicato, di quelli detti d’uffizio, e che si conferiscono dietro concorso per pubblica opposizione, don Giorgio si presentò all’esame, non trovò concorrenti, e guadagnò il beneficio.
Dimodochè, vedete strana cosa! non solo i suoi nemici non eran riusciti a fargli alcun danno, ma se lo dovevan mirar dinanzi rivestito di un’assai cospicua dignità, dignità cui andava congiunto un grasso emolumento, e cui — quest’era il terribile per cotestoro — era annessa una cattedra di teologia e morale.
Come lo si può ben credere, quest’ultima prerogativa era quella che più riusciva infesta agli avversari dell’Asproni, i quali scatenaronsi tutti più violentemente che mai, e dieronsi a rinnovare e a raddoppiare le accuse contro di lui con tanto accanimento e con sì gran chiasso, che si può dire senza esagerazione, l’isola intiera ne fossa commossa.
Il nuovo canonico, lo si sa ormai, non era persona da lasciarsi atterrire; ma gli spiaceva alla fin fine d’esser causa di cosifatto rumore, e sopratutto si rammaricava nello scorgere in quali tribolazioni ed impicci si trovassero a motivo suo intricati i pacifici di lui colleghi del capitolo, e già si preparava in cuor suo a trarsi per la seconda volta fuor dell’aringo, quando sopraggiunsero i grandi avvenimenti del 1848, e i suoi concittadini gli detter modo di convertire la ritirata in nuovo trionfo, eleggendolo deputato al Parlamento nazionale.
Lieto forse di cavarsi d’affare a tal patto, l’Asproni resignò il benefizio, s’ebbe in quella vece più tardi una pensione, e sen venne a Torino per sedersi alla Camera sui banchi dell’estrema sinistra.
Da quella volta in poi egli è stato sempre rieletto a tutte le sessioni, e dallo stesso collegio di Nuoro, e da un collegio di Genova, e in ultimo da quello di Lanusei, senza ch’egli abbia avuto bisogno una volta di brigare per ottener tale onore.
L’ex-canonico prende assai sovente la parola nelle discussioni parlamentari, e la sostanza de’ suoi discorsi e il tono di voce col quale li profferisce concordano bene col di lui nome: son aspri. La di lui opposizione, del resto, non è oziosa; ha la sua base e una ragione d’essere: si propone l’ammegliamento delle condizioni, a parer suo infelicissime, della Sardegna.
Alcuno, ne’ suoi piedi, avrebbe per avventura stimato di poter pervenire alla meta col farsi l’amico e il sostenitor de’ ministri; ma simil mezzo conveniva poco all’indole battagliera dell’Asproni; egli ha preferito e preferisce seguir la via diametralmente opposta e lanciar le folgori della sua brusca e tempestosa eloquenza, ogni qualvolta se ne offra occasion favorevole, contro gli scanni ministeriali.
Del rimanente, l’eletto di Lanusei è un deputato utile, perchè assiduo e lavoratore negli uffici, e perchè in tutte le questioni che non tocchino a politica, in quelle, per esempio, di legislazione amministrativa od economica, il concorso de’ suoi lumi e della sua esperienza tornano proficui al Parlamento e al paese.