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Il Principe della Marsiliana/XI

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XI

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Mentre la principessa non trovava nel suo cuore, neppure in quel momento doloroso, una piccola dose d’indulgenza, nè di tenerezza, e vegliava il marito con l’impassibilità di un carceriere cui è stato affidato un colpevole, Maria, nel riaprir gli occhi, alcuni giorni dopo la tremenda scossa, stendeva le braccia amorose a Ubaldo e sorrideva pensando che aveva saputo serbarsi pura e onesta. I dolori che soffriva le rammentavano la lotta sostenuta, ma le rammentavano pure che aveva vinto, che aveva vittoriosamente trionfato di tutte le insidie tesele, e il pensiero di aver fatto il suo dovere le dava la forza di tollerarli, come avviene ai soldati feriti nella difesa della bandiera, che è un bene ideale, come l’onore e la virtù.

— Paurosa! — le diceva il marito alludendo al salto disperato, ed ella sorrideva e diceva [p. 195 modifica]che aveva perduto la testa, che il fuoco mette lo sgomento addosso, ma non diceva altro perchè ora, meno che mai, voleva porre suo marito nel caso di battersi col principe, di perdere la sua posizione. Appena rimessa, voleva andare a Venezia dai suoi, sparire per un certo tempo e farsi dimenticare.

Il medico le aveva proibito di parlare ed ella sorrideva, non potendo ringraziare Adriana, il marito, e quanti la curavano; sorrideva dolcemente e la sua bell’anima serena non era sgomenta neppure dal tragico fatto che inchiodavala a letto. La sua onestà aveva trionfato ed ella non osava lamentarsi, non osava disperare nell’avvenire.

Quando le dipingevano lo stato del principe, il suo pertinace mutismo, lo abbattimento a cui era in preda, diceva:

— Poveretto! — e non aggiungeva altro.

Dopo i primi giorni, nei quali tutta Roma e l’Italia non facevano altro che parlare dell’incendio del teatro e del principe della Marsiliana, e i telegrammi piovevano al palazzo Urbani, e le carrozze patrizie facevano fila davanti al portone per aver notizie di don Pio tutto ritornò nella calma. Roma, distratta da un tremendo omicidio commesso in una delle vie più frequentate, non si occupò più [p. 196 modifica]del disastro della “Fenice„, nè dei feriti, e i giornali cessarono dal darne le notizie.

Ma intanto che il principe si rendeva invisibile agli occhi di tutti, intanto che nessuno dei suoi ingegneri, dei suoi accollatari temeva di vederlo giungere da un momento all’altro alla Marsiliana per visitare a che punto erano i lavori di un canale emissario, che egli faceva scavare attraverso i suoi possessi e che doveva portare al mare le acque che rendevano l’aria mefitica stagnando, e che nessuno temeva di vederlo comparire su quella vasta distesa di terreno che aveva acquistato a Porta Portese, si commettevano, a danno suo, le truffe più ardite e più sfrontate. Alla Marsiliana si facevano lavorare gli operai mezza giornata soltanto, a Porta Portese appena un’ora la mattina e un’ora la sera. I muratori andavano all’appello, poi dagli accollatari, dagli ingegneri stessi erano mandati a lavorare in altri punti della città, a far progredire altre fabbriche che essi dirigevano, mentre quelle di don Pio si alzavano lentamente dal suolo, e don Pio pagava, e don Pio si dissanguava per supplire a quelle immani spese. E così era per tutto: i suoi eccellenti foraggi, i suoi grani, i suoi vini, i suoi latticini si vendevano, al dire degli intendenti, a un prezzo [p. 197 modifica]bassissimo, il suo bestiame, i suoi cavalli, allevati con cura, costavano somme enormi e non davano che uno scarso provento; tutto quello che per altri è sorgente di ricchezze, per lui, per lui solo era un mezzo per precipitare alla rovina. Pareva che tutti si fossero dati l’intesa per tagliargli a brandelli quel vistoso patrimonio che la duchessa Teresa aveva con tanta cura e con tanta pertinacia mondato dalle passività, dalle ipoteche e dagli oneri, pareva che egli fosse caduto nelle mani di una associazione di malfattori, che si fossero data la parola d’ordine per ridurlo sulle cinghie. Invece ognuno ubbidiva a un movente personale, e nessuno aveva rimorso di quel che faceva, poichè il principe della Marsiliana era considerato generalmente come un uomo destinato a essere spogliato, a essere ingannato. Rubare sfacciatamente a lui, era come coglier dell’uva in un campo aperto, esposto ai viandanti, non sorvegliato, non difeso da nessuno. Era questione di tempo; chi prima arrivava, prima prendeva, ma il campo era cosa di tutti, aperto a quanti avevano la fortuna di sfruttarlo. E così era nella Stampa. Il direttore della tipografia comprava, con i denari del principe, caratteri di lusso, inchiostro, torchi, motori, carta e portava tutto in [p. 198 modifica]altro locale dove lavorava per conto proprio; gli uscieri vendevano i libri da dare in premio agli associati, le cromolitografie, i giornali; gli abbonamenti che non venivano per mezzo della posta erano il provento degli impiegati subalterni di amministrazione, che li registravano sopra un bullettario speciale e non li passavano mai al cassiere, mentre gli abbonati ricevevano il giornale; i redattori stessi si appropriavano i libri della biblioteca Urbani, si facevano portare a casa opere intiere senza farsene scrupolo. Ora poi che don Pio si sottraeva agli sguardi di tutti, il piglia piglia era divenuto generale; pareva che tutti avessero la convinzione che il principe non dovesse più risorgere, più mostrarsi, che già il suo corpo mandasse un puzzo di cadavere, e quella caterva di uccelli di rapina, resi più che mai famelici, lo divoravano vivo, sciupavano, disperdevano ciò che valeva più di lui, lo privavano di quel prestigio, di quella forza che dà agli esseri nulli la ricchezza.

E don Pio della Marsiliana sonnecchiava apparentemente, senza curarsi di niente altro che di Maria. Non ne sapeva nulla da quella notte tremenda e a momenti si figurava che Maria fosse morta, morta per colpa sua. Allora un rimorso tremendo lo assaliva, allora penti[p. 199 modifica]vasi acerbamente di averla sacrificata e col cuore le parlava, implorando dall’anima di lei il perdono.

Dopo una ventina di giorni di abbattimento il principe si riebbe un poco e incominciò ad alzarsi per esser liberato dalla sorveglianza continua della moglie. Di Maria non domandava a Giorgio, alla madre, a nessuno. Aveva paura che i suoi dubbi ottenessero una conferma, che qualcuno gli dicesse che era morta, morta davvero, e non sentivasi la forza di sopportare la dolorosa conferma, che gli avrebbe inflitto un eterno rimorso. Egli era orribilmente sfigurato per la mancanza dei capelli e dei baffi e per quelle scottature alle labbra e alla fronte, che lo facevano parere un lebbroso; inoltre la fisonomia aveva acquistato un’espressione sinistra, e gli occhi erano sbarrati e sgomenti.

Don Pio si alzava, ma non voleva veder nessuno, non parlava mai e appena udiva un cameriere trasmettere a Giorgio il nome di un visitatore, faceva un cenno di noia con la mano, e il visitatore era rimandato.

La malattia del principe, la sua indifferenza per tutto quello che tanto occupavalo per il passato, quell’abbandono in cui aveva lasciato la Stampa non erano risentiti dal giornale, poi[p. 200 modifica]chè l’Ubaldo, appena vide la moglie riavuta, ritornò imperterrito al lavoro e diresse la lotta contro i due ministri della Marina e di Grazia e Giustizia con quell’accanimento e con quell’acrimonia, che erano la forza del giornale d’opposizione. Un foglio ufficioso del presidente del Consiglio rispose a quel fuoco di fila con un solo articolo pieno di attacchi mal celati ad arte contro il principe della Marsiliana.

Ubaldo Caruso, non sapendo se ribattere o no quegli attacchi, andò al palazzo Urbani e come al solito penetrò fino nella galleria attigua al salotto di don Pio, e chiese di essere introdotto. Il principe, che aveva udito la voce di Ubaldo, ordinò che passasse subito, e quella preferenza non sfuggì a donna Camilla, che non si era mossa dalla poltrona alla quale pareva attaccata come un’ostrica a uno scoglio:

ella si convinse che don Pio, in mezzo a quella rinunzia a ogni attività della mente e del corpo, era sempre innamorato di Maria, e il pensiero di quella donna era l’unico che gli rimanesse.

Ubaldo aveva saputo dai domestici in quale stato di abbattimento fosse il principe, ma non credeva mai che la distruzione fosse così grande.

Non per questo si sgomentò come sgomentavansi i suoi colleghi per la malattia [p. 201 modifica]di don Pio. Egli capiva che anche se il principe fosse venuto a mancare, la Stampa aveva da campare floridamente di vita propria, poichè i capitali che vi aveva profusi, le assicuravano l’avvenire, se peraltro chi la dirigeva, aveva la pertinacia necessaria per rimanere sulla breccia, per combattere sempre, ed egli sentiva di possedere quella virtù. Questa sicurezza nelle proprie forze, queste vedute più larghe di quelle della comune dei suoi colleghi, gli davano la calma nel lavoro e gli permettevano di guardare quel povero principe della Marsiliana senza turbarsi.

Naturalmente Ubaldo parlò molto della moglie, esaltò il fascino della rassegnazione, della serenità di lei nella sventura, ne lodò le grandi virtù e disse che si stimava fortunato di averla per compagna; anche se tutto gli venisse a mancare e gli restasse solo la sua cara Maria, si crederebbe preferito dalla sorte.

Il principe lo ascoltava senza batter palpebra e in cuor suo diceva che Ubaldo aveva ragione. Anche lui si sarebbe stimato l’uomo più fortunato della terra se avesse avuta Maria per compagna, o anche per amica. Ora, in quella grande prostrazione i desideri tacevano [p. 202 modifica]e l’amore del principe per Maria si era trasformato, si era purificato.

Egli non sarebbe stato più capace di chiuderla in una stanza, di costringerla con la forza a subire un amore, che ella non divideva; ora egli non sarebbe stato capace di altro che di inginocchiarsi davanti a lei, e baciandole il lembo della veste implorare un perdono che sentiva di non meritare.

Il rimorso dell’offesa fattale, del pericolo cui avevala esposta per difendere il suo onore, lo torturava, e soltanto una buona e dolce parola di lei, sentiva, gli avrebbe reso la vita.

E mentre il marito lodava le virtù della sua buona e cara compagna, e la principessa fremeva di rabbia inghiottendo gl’insulti che le salivano dal cuore alla gola per quell’uomo, che credeva consapevole dell’amore di don Pio, la speranza di esser perdonato s’infiltrava nell’anima del principe.

— Dunque, — concluse Ubaldo alzandosi per uscire, — debbo rispondere agli attacchi?

— Lasci correre, — rispose don Pio, — io non chiedo altro che la pace, nulla mi punge più.

— Ma il tacere equivale al sancire col silenzio gli attacchi; vede?

alludono allo stato della sua mente, alla rovina del suo patri[p. 203 modifica]monio e sono voci che non si possono lasciar correre impunemente.

— Quando non importa a me.... — disse don Pio atteggiando la bocca a un sorriso cinico.

Ubaldo non rispose; chinò il capo e incurvò la persona dinanzi a donna Camilla, che gli rispose con un cenno appena visibile della testa accompagnandolo con uno sguardo di sprezzo, e salutato il principe uscì.