Il Tesoro (Latini)/Illustrazioni al Libro V/Capitolo XXV
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Traduzione dalla lingua d'oïl di Bono Giamboni (XIII secolo)
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avuto dairii)i.. a leggersi iu Cicerone, De Natura deo7um, lib IL ed iu Plinio Storia Naturale Lib. Vili cap. 37. Anche Alberto Magno parla dell’ origine del cristero, ma l’attribuisce a Galeno.
L’elogio di Ovidio, ottimo poeta, ti très bons poètes, è conforme a ciò che l’autore ne dice an~ che altrove nel Tesoro. Era il poeta che all’autore, il quale nel Tesoretto aveva smarrita la diritta via, era stato benefica guida a ritrovarla, come poi Virgilio al suo celebre discepolo, il quale anche nella lettura del poemetto del buono e caro maestro come che infinitamente interiore, potè avere sentita qualche ispirazione per la Comedla.
Capitolo XXV.
Il cedilo di messer Bono, è il nostro cigno. Per li poeti è un uccello fantastico, del quale manca nei zoologi la perfetta descrizione. Era consacrato ad Apollo, ed a Venere. Ad Apollo, perchè credevasi ch’egli morendo emettesse un canto melodiosissimo: a Venere per lo mirabile candore delle penne, ed il temperamento afrodisiaco. Fra le molte specie di cigni, sparse in quasi tutte le regioni del globo, è il cicnus musicus di Rechstein. Volgarmente è detto cigno salvatico, o cicnus ferus. Il grido di questo cigno, infinitamente inferiore alla sua fama poetica, lassomiglia al monosillabo up ripetuto più volte di sèguito,
onde gli inglesi donominaronlo Iiooper. Volano293 |
udito di lontano. non «" disaiinonico. Nel libro secondo i\eW’ Iliade, il (ìi-inio rotofirafo della natura cantava, secondo la sphMidida vcinjììho del Monti al verso 601.
E quai d’oche o di (ii’ii volanti eserciti,
Ovver di cigni, che snodati il tenue
Collo, van d’Asio ne’ bei verdi a pascere
Luniio il Caistro, e vagolando esultano
Sulle larghe ale, e nel calar s’incalzano,
Con tale un rombo, che ne suona il prato.
1/ apparecchio per lo quale i cigni producono tal grido, fu argomento di lungo studio ad illustri naturalisti.
(’Ai’rroLo XXVI.
Brunetto trasse questo capitolo da Solino, capitolo XLVI, e da Alberto Magno.
Crii Arabi con molta perspicacia denominarono la fenice, la creatura di cui si conosce il nome, e s’ignora il corpo. Tutti ne parlarono, e nessun la vide. Dopo la d(!scrizione di Erodoto ( Lib. II, cap. 73 ) può dirsi, che non sia scrittore greco e latino che non vi accenni, compresi alcuni rabbini e padri della Chiesa. Alcuni scrittori la vollero vedere anche nella Bibbia: ma altri negano che vi sia. Tutti ripetono la stessa descrizione, o la supi)ongouo già nota a chi legge: tanto è iamosa!