Il bacio di Lesbia/XXXIV

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Quid novi da Roma?

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XXXIII XXXV
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XXXIV

QUID NOVI DA ROMA?


E
Catullo guarda intorno e dice:

— Chi si vede? Tu, Cecilio? Da Como sei venuto a trovarmi? Grazie. Hai preso moglie? Una brava figliola, m’han detto. Hai fatto bene. È un magnum sacramentum, e io devo essere excomunicatus. Vienmi spesso a trovare o io vengo da te a Novi Comum. Scriveremo cose serie, non nugelle o facezie. E Manlio? È vero che gli è morta la buona Aurunculeja? Questo mi fa tanto dispiacere. Povera Vinia Aurunculeja! Pareva il fiore del giacinto. Ma è destino delle rose e dei giacinti finire cosi. Nemmeno il pargoletto le è nato? E Licinio Calvo?

— Male fine, Catullo.

— Questo mi addolora molto. Ma quid novi, da Roma? Io non ne so più niente. Per due volte il sole ha girato per tutti i mostri dello Zodiaco, e io non ne so nulla. Eravamo cosi lontani, proprio là dove Elle, povera fanciulla, precipitò dal cielo nel mare, e dove Icaro si staccò dall’aerodromo di Creta: paesi pieni di incantesimi e dove, a non stare attenti, si rischia di perdere il senno. [p. 216 modifica]Gli amici sapevano di quella gran passione di Catullo per una dama di Roma e non gliene fecero allusione. La luce del chiaro giorno si spegneva e i servi portarono le lampade.

— Che cerchi tu, Catullo, di Roma? — rispondevano gli amici. — Roma è qui. Cesare passò di qui. Tutta la terra suona del nome di lui. Cesare ha fatto leve nella Cisalpina, nella Gallia togata, nella Gallia cornata: i giovani sono accorsi sotto le bandiere di Cesare. Da queste terre è sorta la sua Dècima Lègio! Dove egli passò, è come il vento: la terra si muove e lo segue. È nel paese dei Veneti? Tutta la gioventù di Opitergium, la bella, la grande, si è votata alla morte per Cesare. Fulmine di guerra è Cesare! Ha superato Scipione! Da Roma qui venne folgorando. Cesare è arrivato a Ginevra, ha sbarrato quel lago, ha chiuso gli Elvezii in una morsa di ferro: i corpi dei Rezii e dei Germani ingombrano il suolo, oltre quei monti che tu vedi lassù. Venere Genitrice lo assiste.

E altri dicevano:

— Nel vento, fra le nevi, contro le tempeste, a testa nuda, cavalca Cesare. Cavalca Cesare sopra le onde non mai navigate.

E altri dicevano:

— Non è il cavallo, non è la trireme di [p. 217 modifica] Cesare: è il piè lieve di lui, che, come arcangelo, sorvola la terra.

Gli amici pure parlavano di Cesare e dicevano indicando i tenebrosi monti:

— Tu passi quelle Alpi, e Cesare è là.

Come una ottenebrazione era nella mente di Catullo. Stava ogni tanto per interrompere quei discorsi, e voleva domandare: «Come avviene, o amici, che Cesare sente questo fremito di vittorie e di battaglie, questa continuazione della vita, lui che è già avanti nella vita, e io che non ho raggiunta la metà della vita, sento questa indifferente stanchezza?».

E Catullo parlò e disse:

— Allora dei tre della lega, Cesare, Crasso e Pompeo, Cesare sarà l’imperator.

— Così qui si sente più che non si dica perché Crasso non è più: Crasso dorme nella terra dei Parti. Dicono che quei barbari lo hanno imbalsamato con una colata d’oro in bocca. Però è morto da prode, lui e suo figlio. Rimane Pompeo in Roma, ma non oserà, perché Roma è qui dove è Cesare.

Catullo si ricordò quando per dileggio aveva chiamato Cesare imperator ùnice.

— Bene! — disse ancora la voce di Catullo, — che c’è di nuovo a Roma?

— Ma come è possibile. — uno disse. — [p. 218 modifica] che tu pur essendo in Bitinia, non sappia quel che c’è di nuovo a Roma?

— Che volete che io sappia? È tanto tempo che la mia nave mi porta per mare. Ho ancora il giro del mondo per la testa: le vele gonfie del mio fasello forse hanno passato le colonne d’Èrcole, forse ho visto nuove stelle dell’altro polo. Chi ne sa niente? Andando per mari ed oceani, le cose della terra mi sono scomparse, e di essere qui mi pare un sogno, perciò vi domando: quid novi da Roma?

E un altro amico disse ridendo:

— Nuova moda per le dame: le scordile e anche le matrone hanno adottato il t color biondo; portano parrucche flave e rubre. È tutto un rosseggiare.

Un altro amico, pure ridendo, aggiunse:

— Vuoi sapere che c’è di nuovo a Roma? Tutte le donne sono giovani e belle. La sera si fanno il massaggio alla faccia con canfora e cinnamomo. Al mattino si levano quella crema. Con cinabro e con erbe orientali si fanno la faccia; e son tutte uguali. Tu, Catullo, ci perderesti i tuoi epigrammi sui nasi belli e sui nasi storti; sui piedi graziosi e sui piedi piatti.

— I miei epigrammi son tutti morti, — rispose Catullo. — Quando vidi che la grassa Bitinia se l’era tutta mangiata il pretore Memmio Gemello, dissi fra me : già che siamo vicini [p. 219 modifica] alla Colchide, andiamo a vedere se c’è un altro vello d’oro. L’oro è la sola poesia che valga presso i compagnoni. Ma il mio fasello era incantato. Sapete dove mi porta? Nel Marocco. Bene!, — dico fra me —, qui siamo proprio nei giardini con le melagrane d’oro. Ed ecco mi viene incontro Ulisse. Voi lo sapete che questo avventuriero nei suoi viaggi vagabondi era arrivato anche lui fin nel Marocco dove il mago Atlante sostiene il cielo. Ed ecco l’incantesimo di Ulisse quando Ulisse mi apparve, e dice che il suo cuore non altro desiderava se non vedere il fumo che si alza dalla sua casa, e poi di placida morte morire. Allora mi è sembrato che questa mia casa dimenticata, con i suoi morti, mi chiamasse: «Torna Catullo —, diceva, — che è l’ora! è l’ora!». Il fasello ecco impenna le ali, torna indietro, ed eccomi qua. E di Cicerone avete nuove?

Gli amici risposero:

— A Cicerone gli è morta la figliuola, la sua Tulliola. Lo si vede per le vie che si ferma ogni tanto, apre le braccia come faceva in Senato quando teneva i discorsi. Dice: Orbus sum, Tulliola, filiola, deliciae nostrae, mortua est; e altro non dice. Fa una gran pena. È invecchiato che non si riconosce più.

— Oh, povero il mio grande amico Marco Tullio, — esclamò Catullo —; non meritavi [p. 220 modifica] questa sorte. Egli fu il nostro Socrate latino. Egli credeva in fede nella grandezza dell’anima. E voi che ne dite, amici, di questa faccenda dell’anima ? Perché io non ve lo so dire. Chiunque crede e combatte per gli umani trofei, sarà ucciso da Oga e Magoga.

Gli amici allora, udendo tal nome, domandarono chi era Oga e Magoga.

Catullo rispose:

— Genti paurose dal muso camuso.

— Dove le avete vedute?

— Nei miei viaggi.

— Avete fatto ben strani viaggi!

— Non sono stato io; è stato il fasello.

— Dove avete visto Oga e Magoga?

— Veleggiando verso Oriente. Allora il fasello impaurito si rivolse verso Occidente. Navigo verso Occidente e me li trovo ancora di fronte. Devono aver girato il mondo dall’altra parte. Tutto il mondo è Oga e Magoga. Aiuta, aiuta, spada di Cesare!

— Ma quanto tempo avete viaggiato?

— Ecco una cosa che non vi so dire perché non ho chiuso mai occhio. Perciò i miei occhi sono molto stanchi. Ma se anche avessi dormito mille anni, credo che svegliandomi troverei le cose come sono prima. Ah, quanto mi fa dispiacere quello che mi avete raccontato di Marco Tullio! [p. 221 modifica]— Si, veramente, un crudele destino, — esclamò il poeta Cecilio —. E aveva pur studiato la natura degli Dei! Si vede che gli Dei non amano che i mortali osino pur di indagare quale sia la natura degli immortali.

Un altro disse:

— E pensare che Marco Tullio poteva finalmente aver pace, e attendere ai suoi cari studii senza perturbazioni. Quel prepotente che mai gli dava requie, è morto.

— Clodio è morto? — balzò a dire Catullo.

— Non lo sapevate? Credevamo che lo sapeste, Catullo. Lo hanno ammazzato presso Boville, proprio su la via Appia del suo antenato.


Qui sorse discussione fra gli amici. Chi disse: «ben gli sta»; chi disse: «era la fine che doveva fare». Chi disse: «un degenerato di grande stirpe». Chi disse: «era molto amato dal popolo». Chi aggiunse: «dalla feccia del popolo». Chi disse: «tanto è vero che il discorso che Cicerone fece in difesa di Milone non lo potè proferire per intero nel forum, si il popolo tumulto. La leggeranno i posteri quell’orazione». Chi disse: «feccia? Degenerato? Secondo si intende. Non è da tutti essere amati, sia pur dalla feccia».

E infine uno disse: [p. 222 modifica]«Può si l’uomo nobile seguitare a vivere in pace, sobrio, pudico? Si, ma quando la cittadinanza dentro cui vive è in pace, sobria, pudica. Se no, non può: è inutile, forse è ridicolosum».


Catullo stava pensoso, a testa china, senza parole; e poi domandò:

— Come fu ucciso?

— Uno scontro a caso, — dissero, — a quanto sembra, fra la squadra di Clodio e quella di Milone. Il pugnale di Milone gli si immerse sino all’elsa nel petto, e lo squarciò. Bianco e delicato come di fanciulla. Lo trasportarono in una caupona, che era li presso, dove visse qualche ora. Rantolava con la schiuma alla bocca e chiamava la sorella Clodia. Lei giunse in tempo per vederlo, e dicono che per tutto il giorno e per tutta la notte urlò forsennata, e furono udite fino a Roma le strida di lei.

— L’avete voi riveduta?

— Nessuno l’ha più riveduta.


Già alta era la notte. Le lampade tremavano. Sul lago apparve la faccia pallida della luna. Gli amici ad uno ad uno si accomiatarono.