Il buon cuore - Anno IX, n. 13 - 26 marzo 1910/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno IX, n. 13 - 26 marzo 1910 Beneficenza

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SAN CARLO E IL SECOLO XVI

PANEGIRICO

del Sacerdote Adalberto Catena

NELLA METROPOLITANA DI MILANO

il 4 Novembre 1853.

Non leggiamo noi, che trentamila protestanti si lanciarono sopra Trento mettendo tutto a ferro e fuoco quasi che così si combattano le battaglie del Signore? E quel primo novatore ripara dietro ai duchi germanici, all’ordine teutonico, dietro un incendio, sì che non lo si potesse raggiungere. O che così si difendeva la dottrina di Cristo, o che Egli non chiamasse a sè i piccoli prima dei principi, dei magistrati, dei grandi del popolo? O che le due autorità quaggiù, la sacra e la civile, debbano ledersi a vicenda, e che Giosia re, quando esclamò: “Io voglio mettere l’incenso nel turibolo” non gli ascendesse pel viso una lebbra vergognosa? La devozione verso la Sede Apostolica e ad ogni autorità, che da lei deriva e il fermo volere di propugnarne i diritti decorrono dai primordi della vita di Carlo fino al suo novissimo giorno. E se volete è nel dì sgraziato, che i due poteri si trovano a fronte, che abbiamo l’esercizio più splendido, quasi una sublimazione della fortezza evangelica. Non la resistenza fastosa e collerica, che impegna le ire contro l’uomo insieme e contro la verità; non quell’accamparsi sull’ultimo confine del proprio diritto negando ogni sacrificio, ma sì quell’opposizione che arriva lenta, fallita ogni soavità dell’amore, ogni arte d’industre consiglio, fallita l’opera del tempo — quando comincia e permane lo scandalo. Lo ricordo il Borromeo, allora che in appoggio d’una giurisdizione stabilita dalle consuetudini, resse con coraggiosa umiltà al duro rimprovero, che gli veniva da un re malaccorto: resse, e pregò, e perdurava. Lo ricordo meglio allora che, pretestando il nome del re cattolico e uno strano privilegio, cattolici, sacerdoti interdicevano al Vescovo l’ingresso in una delle sue Chiese. Assicuravasi del suo diritto, consigliavasi a Roma, ma quando una inturbata pertinacia gli portò l’ora della giustizia ed entrava in quei momenti di elevazione morale, in cui anche la vita è nulla, tutto il dovere sfolgorava il Santo, e, messi gl’indumenti pontificali, veniva alle porte sbarrate e gremite di lance.. se mai... quelle s’aprissero avanti al Pastore.... Ma non fu.

Ed Ei scendeva dalla cavalcatura, stringeva la croce che il precedeva, vi stava fisso coll’occhio, quasi accennasse non rigettassero il Dio Signore. E ancora stettero quelle porte.... Ed Egli ritraevasi col dolore nel cuore; pallidi, irrigiditi gli astanti al sacrilegio. Fu tardi, ma quelle porte si apersero e ne uscivano e si rendevano perititi quei tristi ai piedi del Santo.

Ricordo le sacre censure uscite dall’indifeso Episcopio contro il preside stesso della provincia; i militi, quattro giorni ivi circuenti, lui solo, in mezzo al trepidare di tutti, confortantesi nella memoria di Ambrogio.

Lo trovo, da ultimo, a Coira, in altre città dell’Elvezia, stante nel pubblico consiglio contro eretici signori. Ed era, Egli, il Cardinale, che riconosceva il potere di larghe onorificenze, che consigliava i principi a Torino, a Varsavia, che ne sosteneva di sue preghiere i giorni cadenti, che trovavasi all’ultimo loro origliere, ai tristissimi comiati dal regno e dalla vita. Come, dunque, tanto ottenesse, non fidato al braccio dei potenti, oh il dica chi ha sentito anche per poco agitarsi nel cuore la carità di Dio e dei fratelli. I riformatori mossero dall’odio e distrussero: Carlo dall’amore e edificò. Nella forza la dissoluzione e la morte, nell’amore la congiunzione e la vita. O fu l’altro principio della ragione, che stranamente fu accompagnato alla forza, che riuscisse ad alcuna cosa mai? Ma quello mise capo a due abissi, al dubbio ed all’incredulità: nel fatto riuscì alla divisione. Non era ancora sceso sotterra Lutero, ed era in urto [p. 98 modifica]con tutti i settari venuti da lui. La riforma divorò i suoi figli stessi.

Oh! venitemi intorno, opere dell’amore, che avete redento il nostro popolo! Noi vogliamo i Santi a nostra salute. Un Santo paga un secolo.

Quel principio di forza, che è nell’unione dei mezzi, nel concorso di molte volontà ad un unico fine, è ben antico nella Chiesa, che ogni opera dell’amore viene da Lei. Carlo ne circondava la sua Diocesi. «Accorrete a me, figli di Dio; ch’io vi accenda nei cuori questo fuoco che mi divora. Un gran proposito io ho fermato: io non reggo a compierlo da solo. Questa città è caduta, le mura si sciolsero, le sue porte sono infrante. Ch’io la ricuperi questa mia patria, ch’io la levi alla faccia del sole! Troppo misere cose abbiamo vedute e sofferte!.... Venite! Cos’è la vita se non si «consuma per la verità e per Dio?» E venivano, venivano primi i figli di S. Ignazio, e quelli di Gaetano Tiene, il nobile veneto, e quegli uomini venerandi, che associarono il loro nome alle grandi sventure, che solcarono il nostro paese; e qui sorgeano gli Oblati di S. Ambrogio, ecclesiastico sodalizio, giurato al suo Vescovo, ora di nuovo ricondotto alla vita, cui Dio benedica e fecondi!

Fu un altro ordine, ch’Ei volle rianimare e dargli un più sudato pane, e avviarlo cogli altri, nato nell’esilio del casto amplesso della patria e della religione. Tutti sanno come esso rimeritasse l’uomo, che ne turbava gli ozii giocondi; ma il Santo fu invulnerato e la religione degli Umiliati era allora dal Pontefice sentenziata di morte.

«La salute del mio popolo è cominciata. Ma starà egli questo bene, ch’io vado edificando? Viene altra generazione ed altre vengono su questa terra; vengono feconde di bene e di male, portano odio ed amore e sventura e felicità: o l’una o l’altra prevarrà, secondo quei sussidii di bene, che troveranno nella terra, ove verranno a posarsi. Oh se questa tradizione di virtù avesse a spegnersi!» — O vero apostolato nelle regioni del tempo, che entra nei secoli ancor non nati quasi vi anima la posterità, e la adduce nelle vie del cielo! Di qui le gigantesche istituzioni di Carlo — le reggie, ch’egli venne innalzando non al pubblico o privato fasto, ma ad ogni morale destino, fino all’indigenza. E dove meglio sorgerebbero sontuosi gli atrii, che là ove si serba l’avvenire della Chiesa e della patria, e il levita entrandovi, s’accorga di quell’alta missione, che vi sta maturando — o là dove s’accolgono i grandi mali, l’infelice senta ancora la sua dignità?

Il seminario diocesano, che primo in tutto il cattolico mondo sorse e s’animò alla voce del Tridentino, il collegio Elvetico, il Borromeo, sono essi soli, tra i molti, l’apparizione di tre grandi pensieri, sono opere di genio, di cui pare siasi dimenticata l’età nostra. Bisognava accogliere in sè l’ultimo, ma potente spiro di quell’età cattolica, che fu magnanima sempre anche negli errori, che coperse di opere sublimi il mondo. Si direbbero compite in più generazioni e furono soverchi quarantasei anni d’una vita esagitata da disastrose vicende e dispendio di tempo e d’energia. Come è bello vedere questa vera creazione non solo interiore ma pur del mondo esteriore! Come piace in Carlo l’uomo completo, l’uomo del cielo e della terra, del presente e dell’avvenire, della religione e della civiltà! Com’è vero che nella Chiesa, nel sacerdozio è l’idea di tutto il bene!

Non ha fatto tanto la riforma intimata in nome della ragione; e se quei tempi furono troppo tristi che mai ci ha presentato nei trecento anni, che trasse fino a noi, potente in Germania, in Olanda, potente nella Svezia, potente nell’Inghilterra? Hanno diviso l’uomo, la mente dal cuore, la mente e il cuore dalle arditezze del genio; hanno decimato il dogma, e quindi ogni espressione dell’uomo e della verità. L’apostolato stesso, questo argomento di verità, a che si riducea? A questo specialmente, che si gettassero in mezzo alla società degli aridi volumi dalle tenebre di una vita forse contaminata. Che si vuol dare quando non la verità, ma alcune verità si abbandonano in mezzo al popolo, senza un nome divino che le protegga, senza una virtù che in sè le concreti, senza il sacrificio che le cinga d’una aureola di martirio?.... L’apostolato della carità noi l’abbiamo avuto in Carlo. Non trattenete l’uomo di Dio, non ditegli che è vastissima la diocesi dal Po all’Alpi, che irrompono le pioggie, che sono cocenti i soli, che i monti sono erti, inabitabili... Là dove s’ergono quei vertici nevosi vi sono dei dolori, delle lagrime che cadono ignorate; e là dove ride il cielo o dalla terra sale un profumo di felicità, forse l’errore, il delitto. «O figli, vi troverò, vi sentirò al mio cuore, vi darò Iddio. Si, sono io il vostro pastore: Vi siete posti ben lungi, ma io vi ho raggiunti». Lo viddero le cime dei monti di Lugano, di Como, di Bergamo.... L’ebbero visto, prostrato ai piedi dei colpevoli, chiedere, col pianto la loro conversione.

Fermava i suoi passi in un’ultima chiostra dell’alpi; egli era giunto al Reno, confine tra la verità e l’errore, come un giorno tra la civiltà e la barbarie: a occidente di quelle giogaie doveva travagliarsi l’altissimo spirito di Francesco di Sales. Quello era la vanguardia della eresia; di là si scendeva in Italia, e l’apostolo, dopo d’aver contrapposto la vera riforma all’opera de’ novatori, ora stava loro di fronte. E sturbava coll’amore e col terrore quell’infame ricettacolo d’ogni tristizia, sicchè dovesse all’impresa cingersi de’ suoi più forti, e vi potesse intonare poi l’inno della vittoria. All’apostolo non mancava che il martirio. Il dolore è lo stato più vero, più intimo, permanente nell’umana natura scaduta. Ma ha pur esso le sue grandi giornate. Dalla vicina Lodi, Carlo entrava le porte di Milano; incontrava la muta costernazione d’una città in cui è discesa una terribile certezza. E tutta fu subito intorno al padre suo, insiem commisti ogni età, ogni sesso, ogni grado — un solo dolore.... Egli, levato nel mezzo, quasi a presentarlo quest’immenso dolore.... Oh! spettacolo dell’Episcopato solo eretto a tutela della umanità, tra le altre rappresentanze, che il giorno della morte ha disperse! Carlo resse, bastò da solo: che i poteri civili, dai presidi stessi abbandonati, devenivano a lui; e le molte parti del potere spirituale, cadute da mani tremanti, [p. 99 modifica]egli raccoglieva così, che in quei momenti, che reclamavano una mirabile unità, uscisse ad un punto re e sacerdote della città afflitta.

Noi possiamo argomentare la grandezza di quel momento e di quel cuore: l’arrivo del Vescovo a quella regione di dolore, preparata per le grandi giustizie dell’Eterno, con quell’altare a santificarvi ogni gemito, con quel funereo campo così pronto a ricevervi il mestissimo tributo!... e quell’uscirne e protendersi di mille volti, di mille braccia verso il Santo! Che ora, unica nella storia degli umani dolori, che solo attesta una città santificata dalla pastorale carità quando al grave suono dato dal maggior tempio, fosse pur alta la notte, tutti sorgevano d’accanto alle vegliate coltrici, s’affacciavano alle finestre, e giugneano le mani e ancor superstiti vedeano il cielo; e pregavano, pregavano e quella dolente armonia di bimbi, di vergini, di vecchi, di sacerdoti si mescea come una prece sola e saliva a disarmare Iddio! Diteli, diteli questi i veri momenti della carità e della religione; dite se fu mai bella altrove una pubblica sciagura! — Oh! si moriva nella Svevia, nel Badese, nell’Alsazia, nel Palatinato: ma vi morivano col ferro imbrandito, ma quel ferro non doveva ripulirsi che dopo due secoli d’immolazione... ma il monaco, che accese le ire terribili della plebe, non era venuto, in nome di Cristo, a recarsi in braccio un morente! E quando il contagio visitava quelle terre già infelici della Germania, quando s’addensavano intorno a lui implorando la Santa Cena, veniva risposto: «Che era peso troppo grave ai ministri, che la Chiesa non è una schiava!» Oh qui nella città nostra, dove i miseri muoiono nelle braccia dei sacerdoti di Carlo, qui dove si ama fino alla morte, qui dove si geme, si piange, ma si spera, si perdona, si soffre per amore di G. C., qui è la vera chiesa riformata.

Potenti vibrazioni di carità trascorrono tutto il campo della Chiesa; vi suscitano le anime di Francesco di Sales, del Neri, del Miani, di Giovanni di Dio, del Calasanzio, di Camillo de’ Lellis, del Gonzaga, di Vincenzo de’ Paoli, vere figliazioni della Sposa di Cristo, improntate delle sembianze dello Sposo; — ma fra tutti eccelso il Borromeo, sulla cattedra episcopale, con una missione universale; il Borromeo, anch’esso martire della carità ad adeguare così l’Episcopato di quegli antichi, che furono ad un punto, apostoli, dottori, martiri. Poichè ella venne un’ora mestissima, affrettata da tanto patire, un’ora in cui l’olocausto si consunse, e il molto pianto e il gemito di un popolo intero non potè trattenere quell’Anima santa, che elevavasi dalle povere membra — e sorse, e ascese vibrata dall’amore, fra le miriadi angeliche, e posò ai piedi del Trino Ineffabile.

Il martirologio dei paesi riformati chiudevasi prima di Lutero: il primo nome lo attende da un’infinita misericordia di Dio.

O santa Religione cattolica, noi ci stringeremo sempre a te più vicini dacchè Carlo ci univa di vincolo indefettibile: invano nella terra di Carlo si vorrà plasmare una dottrina, che non sia la sua. Qui di fronte a tanto desiderio di bene, che anima questo eletto sacerdozio, più Chi 1 ne è capo e fu deputato a continuare la missione di Carlo, qui oggi s’invoca, si grida alla scienza. — Sia pure scienza sulle labbra del sacerdote..., ma la sola scienza ci dà dei falsatori di virtù — degli agitatori funesti delle passioni popolari, dei concultatori sistematici del genere umano. Vengano, vengano anche le tribù divise da noi, or che la nostra età, dominando i tre secoli, che sono corsi, vede pure le trasformazioni ed il precipitare ormai di quel fatale errore; nè i vani fulgori di una civiltà materiale e i progressi tutti della vita non c’illudano sulla rovina dei costumi, che dovette conseguire alla rovina della fede.

Vengano; nelle due terre che furono le terre natali della riforma, l’Elvezia e la Germania, due potenti associazioni cattoliche, due forti drappelli si sono accampati all’altissimo fine, e portano ambedue un nome venerato, portano il nome di Carlo Borromeo. Le fecondi la carità di Carlo, fecondi quelle terre la Croce di Cristo, che non hanno ancora inalberata, e a prezzo di gaudio di dolore — non importa — venga il giorno di riabbracciare i fratelli, di mescolarci nei baci della pace, a conforto del Romano Pontefice, al trionfo della Chiesa, alla gloria di Dio.



  1. Monsignor Romilli Arcivescovo di Milano.


GESÙ NEL DESERTO

(Visione mystica).

Alta su l’orizzonte la pallida luna risplende.

Nel deserto de li uomini erra deserta un’Anima.

Cadono de la Notte — su l’aride sabbie — i vapori

(vaghe perle lucenti) a la luce de l’astro,

e su l’Anima triste incombon le umane sciagure

(oh scintillanti lagrime!) de la coscienza a’l lume.

Ha due pianti il deserto: e vïa per l’aura silente

de la Terra e de’l Dio i due pianti s’effondono.

Alta su l’orizzonte la luna soffermasi e guarda.

La Vittima deserta ne’l deserto sospira.

O grandi occhi divini (scorreano le fulve chïome

per le madide guancie — sangue il fronte stillava)

oh come rilucenti di Fede, oh di duol come tristi,

su pe’ i sereni azzurri vi volgeste de’ cieli!

E Gesù Cristo prega: «Turbata è l’anima mia

«e di mestizia in fino a la morte è ripiena!

«O Padre mio, ritogli da me questo calice amaro,

«se’l puoi! pur non il mio, ma il voler Tuo, si compia!»

(Chino il volto, il supremo responso de’l Padre attendendo)

«Anima mia! (prorompe) oh, come triste! O Padre,

«Padre mio non lasciarmi!» E il prego medesimo, un giorno,

de’l mystico oliveto fremerà fra le fronde).

Spira su pe’l deserto un soffio di pace solenne:

alta la luna come estasiata guarda.

A li Umani gementi, a i Cieli, a’l Divino rivolto

i miti occhi profondi, deserto ne’l deserto,

il Gran Mystico prega.... — O Anima, o Anima mia,

perchè — quasi rapita — la visione contempli?


Venerdì Santo ’99.

Rodolfo Rampoldi.




Ricordatevi di comperare il 13.mo fascicolo dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI che esce in questa settimana.




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UN EPISODIO

DELLE

CINQUE GIORNATE DEL 1848

... Il quarto giorno (21 marzo) mentre si stava alla finestra, verso i giardini, vediamo con sorpresa un uomo in abito borghese, ed un Uffiziale Austriaco, accompagnati da alcuni soldati, che scavalcavano i muricciuoli; e riconosciamo con terrore mio fratello Corrado. Pensando fosse inseguito mentre tentava fuggire dal carcere, vediamo invece, che giunti al recinto del nostro giardino, egli e l’uffiziale si abbracciano con effusione: quegli si allontana colla sua scorta; e mio fratello entra da noi, acceso in volto, e fuor di sè per le emozioni provate. Appena calmato, ci racconta, come, condotto con altri prigioni nei sotterranei del Castello, vi rimase tre giorni, minacciato della imminente fucilazione, perchè colto in flagranti e armato. Ma il barone de Sterneck, genero del Capo della Polizia, avendo riconosciuto Corrado (che gli era stato raccomandato da Giulio al momento del suo arresto) lo cercò nella prigione; e, con grave rischio della propria carriera, lo fece uscire dal Castello; e fingendo di farlo inseguire come fosse evaso, lo rese alla famiglia desolata.

Il nome di Sterneck non verrà da noi dimenticato!...

Dalle memorie inedite di

Giulia Carcano Fontana.


Nel vol. VI delle Opere complete di Giulio Carcano, si legge la Relazione del 18 marzo 1848, dove si narra l’arresto del di lui cognato Fontana e come egli lo raccomandò al barone de Sterneck, ma non si accenna come ebbe salva la vita. Ora, nelle memorie della nobildonna Giulia Fontana, vedova dello scrittore lombardo, si trova la narrazione del fatto, e i parenti si fanno un dovere di pubblicare l’atto generoso dell’Uffiziale. Un fatto simile è messo in iscena dal letterato toscano E. Checchi, e certo preso dal vero, nel dramma Vigilia d’armi (Secolo XX, ottobre 1909).