Il buon cuore - Anno IX, n. 42 - 15 ottobre 1910/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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Beneficenza Religione

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Una scolara di Napoleone I


Uno dei più grandi e fidi amici di Napoleone I fu il rinomato generale Bertrand. Dopo aver seguito il suo imperatore nei campi di battaglia e partecipato alla gioia delle sue vittorie, ei non dubitò di seguirlo nell’esiglio, chiudersi con lui in sì breve sponda, e confortarne i supremi dolori fino agli ultimi istanti. E il generale aveva seco la sua famiglia di cui cara e bellissima parte era una fanciulla in sugli undici anni; briosa, vivace come una farfalletta; avvenente così che Raffaello da Urbino non avrebbe saputo dipingere cosa più bella. Ma i genitori della bambina, nel cui petto in verità la Religione e il timor di Dio non avevano salde radici, poca cura prendevano della educazione religiosa della loro figliuola; la quale perciò veniva su un po’ scapata e vanerella, e altro non amava che trescare, correre e darsi da mane a sera allo scioperìo.

Un dì l’Imperatore chiamatala a sè: — Figliuola mia, le disse, tu cresci come una bestia; sei cristiana battezzata e non sai nulla di catechismo; neppure i Misteri fondamentali della nostra Santa Fede. Quel che è peggio, sei bella; anche più bella fra qualche anno tu ti farai. Che sarà di te se la Religione non viene a premunirti, a fortificarti contro i mille pericoli ai quali i naturali tuoi pregi ti esporranno? Odi, fanciulla: io prenderò a fare verso di te quello che i tuoi genitori dovrebbero. Vieni da me fino da domani e io ti darò lezioni di catechismo.

La fanciulla che, a vero dire, aveva cuore eccellente obbedì all’invito del grand’uomo e più volte la settimana partivasi dal suo palazzetto di Hut-S. Gate e col libro in mano recavasi a circa un miglio di distanza ove abitava l’Imperatore. Non è a dirsi il diletto che questi prendeva nell’istruire la fanciulla nelle cose di Dio, la saggezza degli ammonimenti, lo zelo che spiegava nel [p. 331 modifica] premunire quel cuore di cera che doveva tosto o tardi perigliarsi nel mondo. Era una scena commoventissima il vedere il vincitore di Marengo, di Jena, di Austerlitz, insegnare ad una bambina la dottrina cristiana; ed ora sotto ad una pianta annosa che ombreggiava il piazzale avanti il castello del Governatore, ed ora in fondo alla fresca valletta di Geranio, parlare di Gesù Cristo, della Chiesa, dell’eternità!

Ed era una giornata piovviginosa. La giovinetta che gran gusto aveva cominciato a prendere dalle lezioni dell’imperatore, non volle mancare di recarsi alla casa di lui. Però quel giorno in luogo d’uscire rimasero ambedue in una delle camerette di Longwood. Dopo alcune ore giunse anche il generale Bertrand. — Benvenuto, generale, disse Napoleone; ci hai trovati proprio in un punto che fa molto per te. Io stavo parlando a codesta tua figliuola della vita di Cristo la quale dal principio alla fine è un tessuto misterioso. Ma questo mistero spiega il mistero di tutte le altre vite. Rigettatelo, il mondo è un enigma: accoglietelo, ed avete una mirabile spiegazione della vita dell’uomo.

E qui il gran capitano continuandosi nel suo argomento, mostrava come a tutti i più grandi conquistatori infinitamente superiore fosse quel Cristo il quale aggregava a sè tutta la specie umana, e che con la sua parola faceva che tutte le generazioni si consacrassero a Lui, a Lui si legassero con vincoli più stretti che non quelli del sangue, e per un’unione più intima, più sacra, più imperiosa di qualsiasi altra. Bertrand pendeva silenzioso dalle labbra del grande; ma la figliuola era veramente rapita a tanta lerce di verità e a tanta forza di eloquenza. E allora l’Imperatore vibrando dagli occhi una luce inusitata: — O miei amici, sclamò, io pure misi l’entusiasmo nelle moltitudini che mi seguirono e morivano per me. A Dio non piaccia ch’io tenti alcun raffronto fra l’ardore dei soldati e la carità cristiana. Le sono cose tanto diverse quanto la loro causa. Ma infine ci voleva per questo la mia presenza, la elettricità del mio sguardo; con un mio accento, una mia parola io accendevo il fuoco sacro nei cuori. — Quì l’esule illustre trasse dal petto un profondo sospiro, guardò il cielo un istante, e poi volgendosi ai suoi uditori, con un accento di solenne mestizia ripigliava così: — Oh! la mia vita sfolgorò di tutto lo splendore del diadema e della sovranità; la vostra, generale Bertrand, rifletteva quello splendore come la cupola degli Invalidi, dorata per nostro comando, ripercuote i raggi del sole.... Ma venuti sono i rovesci; l’oro a poco a poco è scomparso; la pioggia della sventura e degli oltraggi, onde sono abbeverato ogni giorno, ne corrode le ultime reliquie. Noi non siamo che il piombo, o generale, e ben tosto io sarò terra!.... Tale è il destino dei grandi uomini... tale è stato quello di Cesare e di Alessandro... siamo posti in oblìo! il nome di un conquistatore come quello di un imperatore non è più altro che un tema da collegio. Le nostre imprese cadono sotto la verga di un pedante che ci loda ovvero ci insulta. Ancora un istante, ed eccovi la mia sorte e ciò che a me stesso accadrà. Assassinato dall’oligarchia inglese, io muojo anzitempo ed

il mio cadavere sarà reso alla terra per esser pascolo dei vermi. Qui para il destino prossimo del gran Napoleone.... Quale spazio immenso fra la profonda mia miseria dopo tanta grandezza e l’eterno regno di Gesù, predicato, amato, adorato vivo in tutto l’universo! È questo morire? Non è piuttosto vivere? Ecco la morte del Cristo, ecco quella del Dio.

A queste parole la giovinetta scoppiò in un pianto dirotto; e l’Imperatore chiudendole il viso fra le sue mani baciavala in fronte: — Coraggio, dicendole, figliuola mia. Ricordati d’amar Cristo e non partire da Lui. Dopo domani ti attendo; non mancare di venire dal tuo infelice maestro che trova pure un conforto nella tua carissima compagnia.

Le lezioni dell’Imperatore alla figlia del generale si prolungarono per due anni; e poichè il maestro la vide abbastanza istruita della Religione, fece venire di Francia un Sacerdote il quale, com’ei diceva, preparasse la fanciulla alla grand’opera, cioè alla prima Comunione, e lui stesso a morire. E la Comunione fu fatta nella Cappella dell’Imperatore, ornata in quel giorno con una pompa straordinaria. La damigella Bertrand, che entrava allora nei quattordici anni, pareva proprio un angioletto del Cielo. Sui capelli d’oro sparsi vagamente sugli omeri, aveva una corona di gelsomini, una veste bianchissima le copriva la persona bella; la sua guancia rosata, i suoi occhi cilestri, e molto più la modestia e la divozione ond’ella stavasi genuflessa innanzi all’altare, la facevano parere, a chi la mirasse, qualcosa più che mortale. I genitori ne piangevano d’insolita gioia, e finita la funzione, non poterono a meno di serrarsela strettamente al cuore. Ma forse più che ogni altro n’era commosso l’Imperatore e: — Figliuola mia, le disse, ti rammenta di questo giorno che è certo il più bello della vita cristiana. Tu hai molta intelligenza e cuore sensibilissimo; dunque avrai molto a soffrire. Nelle tue disavventure, nei dolori della vita ti ricorda che Cristo è l’ultimo rifugio, e ch’Egli solo non fallisce mai.

Queste parole rimasero indelebili nella mente della giovinetta, e furono come una profezia della sua vita. Difatti, non andò guari che su quell’ermo scoglio dell’Atlantico suonò l’ ultima ora dell’uomo fatale il cui nome aveva empito l’universo. La famiglia Bertrand restituivasi alla Francia, ma la nostra damigella in quello scoglio lasciava il cuore.

Un ufficialetto inglese, giovine bello e di alto lignaggio, era apparso sovente al suo sguardo. Egli era invaghito della fanciulla, e questa altressì sentiva per lui una simpatia irrefrenabile. Ma francese, figliuola d’un generale di Napoleone, discepola del grande estinto, doveva disprezzare un uomo appartenente ad una nazione cotanto avversata dall’Imperatore, dal padre, dai francesi in generale.

Qui cominciarono le lotte interne di quella brava fanciulla. Le ricche e feconde campagne della sua terra natale le sembravano meno belle delle brune scogliere battute dalle onde marine, dell’opaca vallata di Geranio, [p. 332 modifica] ove il silenzio non è rotto che dal canto degli augelli e dal fracasso del torrente. Il movimento, il brio, le delizie di Parigi potevano un momento distrarla, ma poi concentrandosi in cupe meditazioni ritornava con l’innamorato pensiero alla cara solitudine di S. Elena. Però vi fu un tempo che questi pensieri predominanti sembrarono abbandonarla. Un ricco e nobilissimo cavaliere si dichiarò innamorato della bellezza di lei, del suo spirito, de’ suoi talenti. La damigella cominciò a corrispondere sembrandole assai buon partito; ma quando il suo cuore trovossi impegnato, il cavaliere sparì.

Dolori! Dolori!... e la figlia del generale ricordando gli ammonimenti del suo augusto Maestro, sfogava con Dio l’anima sua e cercava rifugio alla sacra ombra della Croce.

Altri amori sopravvennero; gli oggetti delle sue simpatie mutarono più volte; parole lusinghiere di lode, di affetto, d’ammirazione udì moltissime; adulatori, spasimanti a iosa; ma l’uomo che la comprendesse e facesse sua, non mai. E madamigella Bertrand soffriva, gemeva in segreto, e fra i gemiti e le sofferenze la fiorente gioventù se ne andava ed unico conforto rimanevale la Religione. Poco passò ed i suoi genitori vennero a morte. Le lagrime dell’infelice furono molte e cocenti, il dolore dell’anima sua acerbissimo; la salute ne soffrì assai e alle interne pene del cuore cominciarono ad aggiungersi i patimenti del corpo. Ma la sua Religione non l’abbandonò giammai. A misura che le onde incalzavano più frementi ed ella più stretta attenevasi alla gran tavola di salvezza.

Ed era l’estate del 1845. Una donna tempestata del cuore, affievolita nel corpo, ma sempre avvenente assai, trovavasi a cura di salute ai bagni di Aix in Savoia. Sopraffatta dal malore cercò d’un prete, ed intanto nel suo lettuccio fra i singhiozzi e le lagrime veniva esclamando: — Deh! fino a quando durerà, quanto durerà questo esilio? — e vedendo il prete accostarsi al suo letto: — Oh, quanto mi tarda, soggiunse, di lasciar questo luogo di pellegrinaggio per andare ad unirmi al mio Dio! Un’ora mi pare un secolo! Ma intanto godo che il crudo morbo finisca di consumare e sperdere questi avanzi di caduca bellezza la quale in vita mi costò tanto. Il prete a cotai sentimenti sentivasi insieme edificato e commosso.

Seduto presso alla sponda del letto riceve la confessione d’un’anima virtuosa che aveva lottato in tutta la sua vita e che stava per ricevere la corona ed il premio dei suoi combattimenti. E poichè tutti i conforti della Religione furono da lei con sommo contento e con indicibile pietà ricevuti, i suoi occhi scintillarono d’una luce più che terrena, il suo volto si colorò d’una porpora vivacissima, il suo labbro si atteggiò dolcemente al sorriso e: — Padre mio, sclamò, io muoio contenta. Quando v’incontrerete in fanciulle, dite loro per conto mio che le doti naturali son nulla senza la virtù; che i natali, le pompe, le ricchezze non valgono a camparci dalle angustie, dai dolori e dalle lagrime; che anche la bellezza è una sventura, ma che in tutte le sventure sicuro asilo e ultimo rifugio è sempre il cuore di Dio.

Riduzione di L. Meregalli.


AD UN USIGNUOLO


I.

Quanta dolcezza versi col tuo canto,
Usignuol, mentre i rai del sol cadente
Brillan dei campi sopra il verde ammanto
E fan sì bello il cielo ad occidente.


Vario discende melodioso tanto
11 ritmo tuo nell’anima che sente!
E or d’un inno genial veste l’incanto,
Or par sospir di vergine innocente.


Sembra ora un suon di musica lontana,
Fatta di note non intese mai,
Or eco par della tristezza umana.


Cantor che posi all’ombra dei castagni,
Quali son le tue gioie ed i tuoi guai?
Perchè t’allieti, di’, perchè ti lagni?


II.

Mentre sull’erba me ne sto seduto,
Di trilli intrecci una leggiadra danza,
usignuolo, e di pace una fragranza
Diffondi intorno col tuo metro arguto.


Ed io che ascolto intenerito e muto
La tua soave, varia consonanza,
Or sento in petto un riso d’esultanza,
Or penso mesto al caro aprii perduto.


Oh! come parli al cor, dolce cantore!
Eppur il rozzo passeggier disprezza
Il tuo ritmo di gioia e di dolore.


Così tocca l’oblio spesso al pöeta
Che nega ai vili un fiore, una, carezza,
sol di sogni fulgidi s’allieta.

A. M.

Ricordando e benedicendo


Era un pomeriggio,, in un oratorio devoto, raccolto... Ma i contorni mi sfumano; rammento solo, appeso ad una parete, il quadro di una dolce Madonna, che stringeva al seno un bel bambino Gesù, spirando letizia e la madre santa e il figliuolo divino.

C’erano molte giovinette in attesa... Ed entrò un prete, ancor giovine, eppur venerando per una solenne gravità ed una paterna dolcezza impresse sulle fronte pensosa. Sedette su una seggiola bassa, ai piedi dell’altare e parlò. Le parole non le ritrovo più tutte, ma nell’anima mia vivono ancora — luminose e benefiche — le frasi finali di quella semplice e profonda meditazione:

Noi dobbiamo amorosamente aderire a ogni disegno della Provvidenza sopra di noi, sopra dei nostri cari; noi dobbiamo così fabbricare la nostra eternità; [p. 333 modifica] possiamo fabbricare con paglia, con argento, con oro... pensiamo a quel che solo dura e regge al purissimo fuoco dell’amore divino e della divina verità.

Riandando la mia vita spirituale, noto che quello fu uno, uno dei primi, di quei momenti di grazia che fanno epoca per un’anima, che segnano uno di quegli istanti che hanno qualcosa di decisivo, di solenne... Perchè non risposi subito, non risposi appieno a quella e alle successive rivelazioni di una vita interiore purissima ed eccelsa?

Ma quelle furon chiamate divine a tante creature, a tante anime.

Che almeno qualcuna di esse abbia risposto, risponda, fabbricando con oro e con gemme immortali la propria eternità.

Sia questa opera misteriosa di salvazione — nascosta agli uomini, ma splendente, ma radiosa agli occhi di Dio — il divino diadema dell’apostolo.

- Formare un santo e poi morire — diceva questa questa santa anima sacerdotale.

Che molti, molti santi possono testimoniare con la vita loro l’efficacia spirituale di un uomo del Signore!

Che il ricordo di quel momento di grazia, che anche ora, dopo tanti e tanti anni, torna così vivamente alla mia memoria, mi stimoli, mi aiuti a, portare il mio pratico tributo di riconoscenza a quello spirito che allora parlò all’anima mia,... che misteriosamente le parla anche ora.

Luisa.

AMOR VERO


RACCONTO


I.


È notte chiusa. Da una nave da guerra, che gittava testè le ancore rimpetto alla rada di B., staccasi un palischermo, mette a riva un ufficiale, e rapido come saetta ritorna colà donde era partito. L’ufficiale è un giovane sui ventisei anni, dal maschio e bruno sembiante, bello, svelto, ardito, quell’aria aperta e franca così propria dell’uomo di mare. Appena giunto, egli s’avvia difilato verso una casa che non è quella dei suoi, ma che non gli è meno cara, dove è certo di giungere aspettato, desideratissimo. Ma la porta, contro l’usato, è chiusa; batte e niuno risponde; dal pian terreno alle soffitte non si vede lume, non si sente anima viva. — Che sarà? che può esser egli mai accaduto? dove possono essere andati? pensava tremando Rodolfo; e, strano a dire, al veder chiuse e scure quelle finestre, dietro le quali poco prima sperava di veder passare l’ombra d’una cara persona, non sospettava, nè un’assenza, nè un viaggio: — Per di qua, diceva, è di certo passata la morte!

Pensava e fremeva. E visto passare a caso il fattorino della posta, gli tagliava bruscamente il passo e lo interrogava:

Fermati; dimmi subito il perchè casa Nelli è chiusa.

— Perchè? fece l’altro tutto spaurito.

— Sì, perchè? in tua malora! ripetè l’uffiziale afferrando con mal garbo la spalla dell’uomo, da cui aspettava una parola di vita o di morte.

— Perchè la è morta, signor uffiziale.

— Chi morta? spiegati,

— Oh bella! la padrona. Ma non mi attanagli così colle sue dita di ferro.

— Morta!... la Nelli è morta!...

— Sì, morta. Che bella novità! non ne muore tutti i giorni della gente?

— Sì... ma quella?... ma l’altra?....

— Che vuoi mai ch’io sappia di quell’altra? E datosi una scossa ammodo, si svincolò da quella stretta e scappò via.

Rodolfo costernato, s’avviò alla casa del fratello suo, dove il mistero si sarebbe finalmente svelato, e così fu. Colà venne a sapere, che la Nelli era morta quasi repentinamente tre mesi prima, dopo scritta a lui, suo futuro genero, l’ultima lettera.

La figlia, Clotilde, viveva in casa del tutore, sig. Delrio, chiusa e custodita a chiave dalla tutrice, scontentissima, a quanto dicevasi, della sua nuova condizione.

Udite queste cose, il giovane un poco si riacquetò. La morte della madre era una grande sventura, ma Clotilde era sempre libera, egli avea fede in lei e non prevedeva ombra d’ostacolo.

Essendo l’alba vicina e non sentendosi sonno, non volle coricarsi, ma passeggiava di su in giù la camera, alimentando le sue speranze con dolci ricordi del passato. Rivedeva col pensiero due case antiche, strette l’una all’altra così amichevolmente da parere una sola. Da dentro le divideva un semplice assito, il pozzo era comune, e un muricciuolo, che in primavera cuoprivasi di campanule d’ogni colore, pareva posto a bel fine di facilitare il passo dall’uno all’altro dei due giardini. Rodolfo aveva assistito, ancora in gonnellino, al battesimo di Clotilde, e poichè i loro genitori erano in istrettissima relazione, così Clotilde e Rodolfo non avevano ricordi che non fossero ad ambidue comuni. Si davano la buona sera battendo l’assito; dall’alto del muricciuolo si stringevan la mano; Rodolfo costruiva carrozzine e gondole per le bambole di Clotilde, Clotilde lavorava cinture e borsellini per Rodolfo.

La loro prima separazione fu quando Rodolfo, coll’idea di diventare ben presto guardia marina e morire a suo tempo grand’ammiraglio, superbo della nuova assisa che vestiva, partì pel collegio.

Traversando un ombroso viale, aveva udito un singhiozzo mal soffocato, e una manina bianca aveva lasciato cadere nella sua una borsa assai mal ricamata, ma ricamata proprio per lui. Rodolfo riposta la borsa e non sapendo che altro dare in ricambio alla sua cara vicina, strappò dalla nuova assisa un bottone e consegnandolo a Clotilde:

— Tè, Clotilde, le disse; io serberò la tua borsa, tu fa di non perdere il mio bottone.

A queste ingenue scene d’infanzia che lo facevano sorridere, altre ne sottentravano che gli davano da pensare: il ritorno dal collegio, le nuove grazie e l’amor [p. 334 modifica] di Clotilde, la prima proposizione bene accolta, la differenza di fortuna cancellata quando gli riuscisse essere nominato luogotenente. E ora egli tornava innanzi il tempo fissato, onorato di quel grado; aveva mantenuta la promessa, non dubitava che Clotilde non gli tenesse la sua. Mancava, è vero, la madre, ma ecco una testimonianza certa della sua volontà, una lettera ancor fresca che ne affrettava il ritorno, che per anticipazione lo chiamava figliuolo. Stava appunto rileggendo, forse per la cinquantesima volta, quella preziosa lettera, allorchè l’orologio suonò le otto. Per una visita era un po’ presto; ma i battiti del cuore hanno più autorità che quelli dell’orologio, e Rodolfo, scese precipitosamente le scale, corse nella via indicata e cercò il numero della casa Delrio. Mentre stava cercando, ecco vede sboccare da una via di fronte due donne, l’una delle quali all’abito mostrava esser la fante, l’altra, vestita a lutto e velata, la padroncina. Il cuore prima ancora che gli occhi disse il vero a Rodolfo, il quale, varcata appresso a lei la soglia della casa vicina:

— Clotilde! gridò dal fondo del cuore.

— Rodolfo! s’udì tosto rispondere una nota voce. Ma appena colei che aveva pronunziato il suo nome si fu rivolta e lo ebbe riconosciuto, vacillò, cadde sopra un sedile del vestibolo, e pensando alla madre, diede in un dirotto pianto. Il giovane, quasi fuori di sè, non trovava parole per consolarla e protestarle l’amor suo; ma Clotilde levatasi in piedi e fissandogli in volto due occhi pieni di lagrime:

— Rodolfo, gli disse, gran tempo forse passerà prima che ci sia conceduto vederci da soli; uditemi dunque bene: checchè altri possa macchinare in contrario, la mia volontà sarà sempre quella di mia madre, io non porterò mai altro nome che il vostro. Voi siate paziente, io sarò fedele.

E additandogli l’uscio d’un salottino a terreno, sparì. Appena Rodolfo vi pose piede, si trovò faccia a faccia colla signora Delrio.

La Delerio era una donna in sui cinquanta, alta, tonda brunotta. A tutta prima aveva un’espressione bonaria giovialona che ispirava fiducia; ma un certo contrarsi delle labbra, un certo volgere d’occhi al vedersi davanti Rodolfo lasciarono tosto trapelare un non so che di duro, di maligno e d’ironico. Questa visita infatti non poteva giungerle più inopportuna, ed eccone il perchè. Il tutore, appena messo mani negli affari della sua pupilla, aveva scoperto che ella era più ricca assai di quello ch’ella stessa credesse: di che la prima idea generosa dei due consorti Delrio, che si trovavano avere un Augusto per figlio, si fu di farsela nuora. Clotilde ebbe un bel protestare che l’ultima volontà di sua madre era stata tutt’altra, che il suo cuore non era più libero; il tutore, prevedendo le difficoltà anzi l’odioso di quell’impresa, era per cedere; ma la terribile donna, cieca pel figlio, abbagliata dall’oro, sperando nella lontananza del rivale nel tempo, che due anni ancora doveva durar la tutela, si dispose alla lotta e cominciò dal dichiarare seccamente a Clotilde, che un ufficiale vagabondo e senza fortuna non era partito per lei.

(Continua).