Il buon cuore - Anno X, n. 04 - 21 gennaio 1911/Educazione ed Istruzione

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DOPO UN CENTENARIO


LA CONVERSIONE DI ALESSANDRO MANZONI

In Germania, dicono, un articolo della Koelnische Wolkszeitung, ha ricordato ai tedeschi la ricorrenza centenaria della conversione di Alessandro Manzoni; in Italia, dico io, l’evento secolare è passato pressochè inavvertito; la notizia dell’intimo dramma spirituale del nostro maggiore maestro moderno, è sfuggita [p. 28 modifica]finanche ai meno placati collezionisti di storie e di episodi ricordabili a scadenza fissa. Bastano venticinque anni, si sa, per spolverare al pubblico un qualunque paio di stivali calzati in un qualunque giorno fatale da un qualsiasi eroe; ne bastano anche dieci — tariffa minima — per ricordare ai molto scusabili figli dimentichi la caduta di un ministero celebre o la nazionalistica gloriola di qualche mezza conquista coloniale; ma alla conversione di Alessandro Manzoni non bastano neanche cent’anni. Ed è bene che sia così: certo l’insistente silenzio deve raggiungere ben grato lo spirito vivo e vigile del grande scomparso pensoso; egli che della sua conversione non aveva fatto argomento di facili esibizioni autobiografiche, nè, tanto meno, d’intelligenti combinazioni editoriali. La pubblicazione della Morale cattolica, che svelava dopo nove anni, nel limpido e polito impersonalismo di una serena, nobilissima polemica d’idee, il lento e profondo travaglio onde tutta l’anima sua aveva proceduto, trasalendo, verso la verità, non suscitò i deliri entusiastici che avevano commosso, diecisette anni prima, i parigini del Consolato, quando l’attesa fervida dei primi esemplari del Génie du Christianisme, non aveva fatto ritrovare i facili sonni neanche alle cortesi dame di Parigi.

Sembra, anzi, che il fervore incandescente di rinnovata pietà cristiana che nel visconte di Chateaubriand, riconobbe il polito cantore, e nella Francia, il paese eletto e predestinato, come la terra che aveva tremato al rombo ammonitore della Rivoluzione e che rinverdiva i suoi allori secolari sulla trionfale via napoleonica, sembra che il fulgore acceso di tanta appassionata rinascita non suscitasse docili echi d’entusiasmo nella forte anima giovinetta di Alessandro Manzoni. A quel risveglio di spiriti stanchi ed ancora così pavidamente assonnati, a quell’aurora molle di tutte le tenerezze e velata di tutte le tristezze — le tenerezze, le tristezze di una pazza orgia d’orgoglio sognata e in un attimo solo di terrore, irreparabilmente spezzata — il poeta nostro ancora fanciullo, sembrò rispondere, squillando, l’inno antico del trionfo auspicato, il trionfo della Libertà: inno di grande sincerità, nelle stesse incertezze della sua poesia non ancora compiutamente matura, inno sopratutto, di grande probità ideale. Perchè sta a segnare, esso, nè più nè meno che le vie di Dio; le vie che la luce della fede avrebbe appianate e battute nel cuore di Alessandro Manzoni. Egli, cioè, non avrebbe trasalito all’appello divino come ad un pietoso annuncio di pace e di oblìo; non avrebbe portato un’anima affaticata, dolente, spaurita, ancora, da visioni di morte, capace più che di pensare e di parlare, di piangere, di cantare, di sognare: quasi che tutta l’anima, dopo l’orgia, si fosse raccolta nel cuore e negli occhi e non premesse che il cuore, e non premesse che gli occhi, raddoppiando palpiti, sciogliendo lagrime, atteggiando, imperlati di lagrime, profili nuovi di bellezze fatate.

Perchè questa religion du coeur, bandita dal maestro di Atala, doveva apparire a spiriti più pienamente capaci ed agenti, come una morbosa ipertrofia del cuore, una squisita fattura di tenerezza — il Génie era stato scritto «coll’ardore di un figlio che innalza un monumento alla madre sua» colei che l’aveva ricondotto, piangendo, alla fede — nella quale però la pietà e la bellezza morivano a poco a poco, venendo meno loro l’alimento ideale, non sapendo ritrovare esse il prodigio di una parola, la luce di un pensiero, non potendo farsi sangue e tramutata in energia: non fruttificando opere di fede, ma disegnando, appena, fantasmi.

Quei pavidi risvegliati, è vero, non potevano, forse, dare di più; il visconte di Chateaubriand doveva scrivere, dopo il Génie, le pagine non tutte nobilmente gloriose della sua vita politica, doveva dividere il cuore, donde pure era «uscita la sua fede» in troppi e troppo effimeri affetti; ma Alessandro Manzoni giovine e già virile nella solida struttura italica del suo genio, poteva doveva dare di più: e dalla conversione di Francesco Renato di Chateaubriand alla sua, dovevano passare otto anni di chiuso e ben custodito fervore.

Intanto, egli aveva cantato il Trionfo della libertà, rinfrescando l’autentica ortodossia giacobina, l’utopia bianca della definitiva soppressione dell’Ignoranza e della Superstizione, sotto la facile vittoria del vindice trinomio rivoluzionario e delle indefinite energie di bontà e di progresso raccolte sulla vituperata anima umana.

L’esperimento rivoluzionario non lo aveva disilluso, nè le inattese tirannidi della folla lo avevano sollecitato ad invocare pavidamente le provvidenze della rinascente reazione coronata: egli non trema; è ancora dopo l’89 a quindici anni, un sereno ottimista della rivoluzione; non trema, cioè, pensa; non piange, confida; non cerca oblii pietosi, ma vede, contempla, ascolta, medita

Sentire e meditar.....

Ecco tracciate nel poemetto giacobino e deista le vie del ritorno alla fede, le chiavi auree del dramma interiore. Perchè, sotto il deismo manzoniano palpitava una profonda anima di bontà e di probità ideale: nonostante le tristezze della sua vita familiare e le asprezze, talvolta ingrate, della sua vita di collegio, la giovinezza di Alessandro Manzoni, aveva ritemprato alle sicure fonti dell’educazione religiosa, le native attitudini al bene: tanto che alcuni critici hanno creduto di vedere attenuata, per questo, la drammaticità viva della sua conversione, quasi che conversione propriamente detta non s’avesse a rinvenire in chi sempre s’era serbato onesto e disposto a riguardare al bene:

.....da la meta mai
non volger gli occhi....   
e che quindi, il suo ritorno alla fede non fosse un episodio fondamentale, in modo assoluto, capace di suscitare e di dare una sua propria originale significazione, a tutta la vita del suo spirito, a tutta l’anima eloquente dell’arte sua, a tutto il suo incomparabile magistero di fede e di italianità. Ma la caratteristica, della conversione di Alessandro Manzoni, quella che ne esprime, anzi, tutta la sua incalcolabile drammaticità, sta proprio nel fatto che il poeta della libertà trionfante non portava, nel giovine petto, un’anima attraversata già d’insistenti malizie ed abbeverata di precoci abiezioni; ma un’anima, amante della luce e già, di una mite luce
[p. 29 modifica]d’aurora, lieta e viva: condizione, questa, che dispone alla fede, che è luce di meriggio, ma che non dà sempre le ansie e le angoscie di desiderio che sanno dare, talvolta, le tenebre: onde coloro che nelle tenebre palpitano corrono alla luce colla violenza di una disperazione e le loro conversioni scoppiano come tumulti di dolore e di gioia, e come folgori, vibrando.

Alessandro Manzoni, invece, aveva nelle sue mature disposizioni al vero e al bene, un pegno di speranza ed insieme, un sottile pericolo di immobilità e di morte perchè il possedimento di una luce, benchè mite e tenue, se può dare i desiderii di una maggiore pienezza, può pure insinuare l’insidia dolce della soddisfazione, e sollecitare l’anima a star paga delle umane altezze raggiunte, senza anelare alle follie dei divini fulgori. Singolarmente lenta appare, quindi, e singolarmente ricca la germinazione di fede nuova e vivente nell’animo di lui: nel vigore pieno della sua magnifica e già virile giovinezza di pensatore e di artista, a venticinque anni, egli non poteva offrire al Dio risorto, se non la pienezza di tutta l’anima sua, egli doveva muovere verso il Divino risvegliato con tutte le energie pronte ed indocili del suo pensiero, della sua volontà, del suo sentimento, e non solo gettare il cuore nel fuoco del nuovo divampato amore, ma levare pure la fronte raggiante sotto la luce della verità e tendere le braccia anelanti all’annuncio di una milizia,

L’armi, qua l’armi....

E la fede apparve, quindi, allo spirito suo come un divino ed inatteso dono d’energia: onesto già era, è vero, Alessandro Manzoni, credente pur’anche, se deista s’era professato; poteva apparire, quindi, un’anima già così posseduta dal bene, che il dono della fede non avesse a sembrare se non un coronamento spontaneo, docile, necessario, che non tramutava un’anima ma piuttosto la confermava nella raggiunta maturità, che non le segnava sul cuore abissi di rinnovamento e di comporla e temperarla tutta ad una fiamma d’inattesa bellezza.

Eppure Alessandro Manzoni ebbe vivissimo e lo serbò intatto sempre, ininterrottamente fin presso la morte, il senso della totale rinnovazione che s’era operata nell’anima sua; vide anch’egli senza infingimenti di attenuazioni, che la sua via s’era spezzata, un giorno, e che una nuova via regale s’era incrociata sulla sua terra e che tutta l’anima s’era spostata procedendo e riguardando la luce di un nuovo cielo, l’oriente: — Lei forse non sa che fui incredulo — confessava, un giorno, a persona che gli ricordava il gran bene fruttificato dai suoi scritti religiosi — e propagatore d’incredulità, e con una vita conforme alla dottrina, che è il peggio. E se la Provvidenza mi ha fatto viver tanto, è perchè mi ricordi sempre che fui una bestia e un cattivo.... — Parole mirabili nelle quali non s’ha a risentire tanto la documentazione di traviamenti che, forse, furono o non furono così profondi, quanto, sopratutto, la coscienza sempre viva ed immediata del totale rinnovamento spirituale operato dalla fede; la prova sperimentale di quanto la fede e la vita religiosa appaiano radicalmente diversi non solo dallo stato d’incredulità e dalla legge d’abiezione e di tenebre, ma puranche dallo stato di una credenza semplicemente filosofica, come il deismo, e da una legge semplicemente umana di bene e di onestà naturale.

Nella conversione di Alessandro Manzoni, anzi, la fede appare in tutta l’irriducibile originalità che la fa diversa e superiore d’ogni filosofia e d’ogni contemplazione della verità: perchè è solo colla fede che la cognizione filosofica si corona e s’irradia nel possedimento di una vita più piena, la vita della grazia, e la contemplazione si tramuta, ardendo, in preghiera e dai cieli alle terre, l’anima amante intreccia a Dio e con Dio, la meraviglia della parola e il colloquio ineffabile.

Come dalle opache tristezze del deismo il poeta nostro fosse condotto alla luce piena del vangelo cristiano noi non sappiamo, e la conversione restò il segreto geloso di Alessandro Manzoni. Una cosa sola egli rispondeva ai famigliari stessi che talvolta ebbero a domandargli, insistendo, i ricordi del suo appassionato ritorno: — Fu la grazia, la grazia di Dio!... — una cosa sola ripetono i biografi di Lui, dall’Abate Stoppani, che intorno ai Primi anni di A. Manzoni pubblicò note interessantissime, ora ristampate dal Cogliati, al prof. Cojazzi che in memoria del centenario dimenticato ha pubblicato, presso la libreria Torinese della buona stampa, la Morale Cattolica con ampie note illustrative e con intelligenti raffronti: e ripetono che coll’anno 1810 Alessandro Manzoni era divenuto cattolico.

Occasione immediata, la conversione dal protestantesimo al cattolicismo di sua moglie Enrichetta Blondel, e le acute discussioni religiose a lui ed alla moglie tenute dall’abate Degola: sottile problema sentimentale, questo dell’ardente conversione della compagna amatissima, al quale i biografi accennano appena, ma che dovette richiamare dal profondo l’anima vigile e pensosa di Lui: perchè la Biondel aveva anche sognato, forse, di ricondurre l’amato alla Chiesa abbandonata, facendola sua, ripudiando l’amaro calvinismo dei padri suoi:

.... Sentire e meditare....

Ma da questo sogno che procedeva da cuore a cuore, fu suscitata tutta l’attività spirituale dell’anima di Lui: il decennio che sussegui l’810 fu il decennio tipico della sua attività e la sua voce ritrovò più piena e gioconda la musa italica, da tanto tempo muta, degli inni religiosi, i cori gagliardi della rinnovata coscienza italica che ricongiungeva, nel rinascente romanticismo cristiano, i destini d’Italia colla fede, e rispondevano al grido disperato del povero poeta dolente....

l’armi, qua l’armi....

colle fanfare delle nostre vittorie e della nostra libertà,

S’ode a destra uno squillo di tromba

Di questo decennio di attività tipica è anche la Morale Cattolica, mirabile libro di controversia cristiana, che pur nelle occasioni di una polemica frammentaria lascia scoprire tutto un coerente e completo disegno di apologia filosofica: e se in esso s’ha da indagare la crisi di pensiero che sì sciolse, vittoriosa, nell’atto di fede, è il problema morale che appare sopratutto [p. 30 modifica]formidabile al Manzoni, ed è la necessità di una legge, di una sanzione assoluta, e di validi e sicuri sussidi alle fralezze e alle dubbiezze della volontà umana che lo conducono a riconoscere in Gesù il Maestro divino delle anime e nella Chiesa la madre saggia e feconda di tutte le energie buone e belle.

Non un problema estetico, quindi, nè sentimentale, ma il problema morale in tutta la austera drammaticità della sua forza, il problema religioso tutto intiero, il massimo dei problemi, battè, palpitando, tutta l’anima di lui.... Che se la severa disciplina del temperamento suo, se la gelosa signorilità del suo riserbo, se la generosità del suo conforto che agli altri lo rendeva si facilmente maestro di serenità, valsero a dissimulare sotto il placido manzoniano candore della fronte incontaminata, le asprezze mirabili delle magnifiche lotte interiori, non è davvero menomata la tragica grandezza di questo pieno e consapevole ritorno alla fede che alla nuova Italia cristiana ricondusse un figlio ed elesse un maestro.


PITTURA MODERNA



..... Se i pittori, quand’hanno terminato
Un qualche loro quadro, o bene o male,
Scrivesser: questo è il tal, questa è la tale,
Questo è un asino, un bue, questa è una pianta,
Farebbero una cosa onesta e santa.


Allora io capirei addirittura
Le cose, senza avere a strologare
Come or fo, nel veder qualche pittura,
Per saper quel che vuol significare;
E molte volte ella è talmente scura
O, per dir meglio, tanto irregolare,
Tra lo stil de’ moderni e lo stil prisco,
Che quanto studio più, men ne capisco.


Molti pittori del tempo moderno
Certe figure fan, certi ritratti,
Che gli angeli talvolta io non discerno
Da mascheroni, tanto son ben fatti;
E paiono talor furie d’averno
Al volto, al guardo, a’ crini, a’ panni, agli atti
Certe pitture lor rappresentanti
Or le virtù cristiane, ed ora i santi.....


In certi quadri si distingue appena
Dalla Ciprigna dea la Maddalena.

(Dal «Cicerone», c. XVI).




Il Municipio di Milano ha ordinato 150 abbonamenti per distribuire in tutte le scuole i fascicoli dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI.




UNA PIETOSA AVVENTURA DEL POETA MILLEVOYE


L’opera letteraria di Millevoye (1782-1816), pur senza i superbi fulgori dei massimi poemi francesi, ancora non pare destinata all’oblio; la sua fluida espressione, l’estrema dolcezza del suono, qualcosa di morbido, di vellutato, al cui contatto anche lo spirito sembra dilettarsi come in un godimento dei sensi; sopratutto la verità e naturalezza dell’arte placida e contenuta nel dipingere scene e sentimenti della vita comune, daranno al poeta di Abbeville una ancor lunga resistenza contro l’opera demolitrice del tempo.

Certo lo spirito sereno che domina nei versi di Millevoye ha contribuito ad attirargli e tenergli fedele una turba di lettori; quel suo genere di poesia ha fatto del bene a molti di essi, li ha istruiti, li ha educati, sollevati. Se il nostro poeta non avesse scritto altro che i pochi versi estremamente deliziosi di cui diremo più innanzi e che non potremo rendere perfettamente nella nostra traduzione libera, avrebbe meritato di sopravvivere al naufragio di tante reputazioni e glorie letterarie da molto tempo scomparse. Perchè quei versi, pur non essendo letterariamente e per se stessi dei gioielli assoluti — date anche le circostanze sfavorevoli di salute in cui furono scritti — tuttavia hanno fatto ciò che dovrebbe essere precipuo ufficio della poesia, cioè giovare.

Ma qui non ci dilungheremo soverchio a fare un esame critico dell’opera poetica di Millevoye. Nostro scopo è di riferire uno dei tanti casi in cui la poesia è impiegata e fatta servire ad una buona azione. Ed ecco come:

Un terribile inverno Millevoye, non ostante tutti i mezzi che la grande capitale francese poteva offrire per distrarsi e premunirsi contro le insidie della natura nemica, ammalò, e tanto che fu creduto miracolo se potè uscirne vivo. E allora i medici avvisarono che non appena si fosse aperta la bella stagione, il poeta doveva lasciare la metropoli francese e portarsi a passare la convalescenza tra le arie pure e balsamiche dei campi. Scelse i dintorni di Vincennes, dove, la cura severa del latte, le lunghe passeggiate, e un assoluto ripoio mentale, gli avrebbero ridonato la primitiva salute.

Religiosamente fedele alle prescrizioni dei medici, Millevoye sul finire di aprile era già al suo posto ed in piena esecuzione dei savi precetti dell’arte salutare. Ai primi albori usciva di casa per internarsi nelle folte boscaglie che circondano Vincennes. Di buon passo spingevasi in questa o quella direzione; e l’orecchio era teso a raccogliere le mille voci di giubilo di infiniti esseri in fremito al sorgere del nuovo giorno; ma erano in festa anche i polmoni che aspiravano l’aria ossigenata, tutta profumata dagli aromi esalanti delle nascenti erbette e dal tenero fogliame delle piante che si affrettavano a indossare quel nuovo verde ammanto quasi per un dì di festa; l’occhio ammirava la scena incantevole di bellezze, di colori della natura in palpito al suo passaggio e sotto il bacio della sorgente luce.

Certo, il suo spirito si ricreava, ma specialmente il [p. 31 modifica]fisico risentiva un sempre crescente visibile vantaggio da quelle passeggiate.

Però, per quanto non fosse affar suo, Millevoye non potè a meno di notare per la regolarità con cui avveniva, un incontro che attirò la sua attenzione e curiosità.

Immancabilmente tutte le mattine, appena i primi raggi del sole investivano la nereggiante massa del bosco, accendendo luci ovunque potevano penetrare, una fantastica figura si disegnava all’estremità opposta a quella d’onde veniva il poeta; e quella oscura ombra si avanzava sempre più, si disegnava a contorni più precisi, finche strisciando frettolosa vicino a Millevoye, si rivelava per il più splendido tipo di giovane donna, tutta vestita a nero e tutta chiusa in un indefinibile dolore. Il viso, incorniciato nei negri veli che dal capo scendevangli maestosi fino a terra, spiccava con ammirabile contrasto per la sua bianchezza nivea, per le linee d’una dolcezza infinita.

Abbastanza bene incamminato verso la guarigione sua, per potersi occupare degli altri, il poeta di Abbeville non potè resistere alla tentazione di voler conoscere quale mistero nascondesse quella eterea apparizione. Le mattine seguenti venne al bosco più presto e si appostò all’ingresso del medesimo, dove la fantastica figura si delineava, per spiare d’onde veniva, e all’uopo interrogare qualcuno che fosse in grado di fornirgli informazioni. E con sua sorpresa una mattina vide la sua fata uscire frettolosa dal piccolo cimitero del villaggio, e il custode del cimitero, ritto in piedi vicino al cancello, salutare con pietoso inchino del capo la dolente, chiudere, ed affrettarsi egli pure a scomparire prima di essere veduto da nessuno.

Ottimamente: chi poteva dargli la chiave del mistero era trovato; occorreva soltanto di poter avvicinare quell’uomo e strappargli le confidenze che desiderava. E poco per volta e bellamente intrecciando con lui una tal quale conoscenza amica, e corrompendolo con danaro, un bel giorno fu in grado di penetrare uno dei drammi più commoventi e gentili che si svolgano in un cuore di madre.

La giovane donna che non mostrava più di vent’anni, un giorno già madre invidiata del più bel pargolo che avesse veduto occhio umano, ora struggevasi in un muto inconsolabile dolore, per averlo perduto. Ma dacchè la morte le ha rapito il suo Alfredo, e volgeva ormai il mese, la misera non ha più pace; non piange no, perchè il cuore è impietrito dal dolore; non si corica più a prendere il suo sonno, e sempre l’innamorato pensiero si fissa sopra un tesoro di bimbo, chiamandolo notte e giorno cogli accenti più passionati, più vezzosi e teneri e disperati e strazianti. E da quando la terra del piccolo cimitero di Nogent le ha involato il suo Alfredo, la desolata ha fatto voto di non mancar mai di andare al tumulo del figlio adorato a portargli tributo di fiori, e là inginocchiata sull’umida zolla, chiamarlo con parole che fendono l’anima, e restarvi fino allo spuntare del sole. Il custode del cimitero solo allora ha ordine di chiamarla, perchè inosservata possa riprendere il cammino del ritorno alla sua casa, dove non trovando più ciò che vi aveva di più caro al mondo, il martirio del cuore materno si farà anche più crudele, più sconsolato.

(Continua) L. Meregalli.

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