Il buon cuore - Anno X, n. 30 - 22 luglio 1911/Beneficenza

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Beneficenza

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Il buon cuore - Anno X, n. 30 - 22 luglio 1911 Religione

[p. 233 modifica]Beneficenza


Pio Istituto Oftalmico di Milano


Relazione sanitaria pel 1910

A pochi mesi di distanza dall’ultima Assemblea, brevi osservazioni basteranno ad illustrare la statistica sanitaria del 1910, che i Signori Benefattori troveranno raccolta nel consueto nostro specchio comparativo.

L’Ambulanza ha dato nel decorso anno un totale di 4054 ammalati, con una media fra undici e dodici ammalati nuovi ogni giorno (11.10). E valutando come per i ricoverati, ad una media durata di venti giorni la cura per ciascun ammalato, si vedrà che nella nostra ambulanza si medicano ogni giorno circa 225 ammalati.

Il numero dei malati d’occhi accolti a Ricovero Ospitaliero nel 1910 fu di 812, con un aumento di 35 sulla somma dei ricoverati nell’anno antecedente. La Provincia di Milano, che rappresenta la zona di beneficenza assegnataci dal nostro Statuto fondamentale, ha contribuito alla cifra totale dei ricoverati con 656 malati: e più particolarmente è da rilevare che di questi 656 ricoverati la città di Milano ne diede 121, e 535 provennero dai comuni foresi della provincia; e ciò dimostra che i comuni foresi, nella loro totalità partecipano in proporzione assai maggiore che la città di Milano al beneficio di spedalità del nostro Istituto, pur tenendo conto delle rispettive proporzioni di popolazione. E questo mio rilievo non è che la riconferma di un fatto che emerge da tutte le nostre statistiche antecedenti. Fu di 156 il numero di ammalati pervenutici dalle altre provincie e dal Canton Ticino.

In misura proporzionale al numero dei ricoverati è aumentato pure il numero delle giornate di degenza da essi consumate, cioè da giornate 15.900 nel 1909, a 16.373 nel 1910; e così la degenza media per ogni ammalato potè mantenersi presso a poco eguale, pari a giornate 20.16, colla presenza media in Istituto di ammalati 44.85 ogni giorno.

L’accresciuto numero dei nostri ricoverati nel passato anno rappresenta l’inizio di una qualche maggiore facilità da parte nostra nella concessione del ricovero gratuito. Ma non è questa certamente la cifra massima alla quale noi potremmo arrivare dopo la costruzione dei nuovi locali. Allorchè la laboriosa liquidazione della eredità Frova-Francetti sarà ultimata (e noi confidiamo possa esserlo prima del termine del corrente anno) la cifra media dei malati presenti in Istituto potrà facilmente essere elevata coi nuovi locali intorno a 55 malati al giorno; la somma delle giornate di degenza potrà così essere elevata oltre le ventimila, e la popolazione totale dei nostri ricoverati intorno al migliaio.

Così, entro questi limiti della nostra potenzialità economica, noi ci studieremo di portare il nostro qualche contributo alla soluzione della questione ospitaliera, al sollievo del nostro Ospedale Maggiore.

E qui non voglia parere ai Signori della Assemblea del tutto ozioso il ricordare, che qualora l’Istituto vostro con aumentati mezzi finanziari dovesse essere chiamato a partecipare in misura maggiore alla soluzione di questo problema, nella sua sede attuale esso potrebbe degnamente rispondere al mandato: coll’area di cui l’Istituto dispone e completando il suo progetto iniziale coll’ultima grande ala di fabbricati, il numero totale dei letti disponibili potrebbe facilmente essere elevato oltre i 150, ed il numero totale dei ricoverati oltre i duemila, cioè quanto basta per sgravare l’Ospedale Maggiore dall’obbligo verso i comuni foresi nella cura delle malattie d’occhi.

E dico, non paia del tutto oziosa questa [p. 234 modifica]osservazione da parte nostra: inquantochè lo sgravio verso i Comuni foresi rappresenta appunto la via per la quale tutti, lo stesso Ospedale Maggiore, il Comune di Milano, i Comuni esterni e le Autorità interessate, tendono alla soluzione della diuturna vertenza. E dicasi pure, che è ancora questa medesima la via indicata dalla opinione pubblica concorde, vuoi nel ceto dei Signori Benefattori, vuoi in quello dei poveri beneficiati: già la mia ultima Relazione pel 1909 ha dimostrato, che a questa via di soluzione del problema ospitaliero (cioè, allo sgravio dell’Ospedale Maggiore verso i minori) indicarono le filantropiche iniziative private, quando in un trentennio diedero vita in Milano a cinque nuovi ospedali minori specializzati; a questa via di soluzione indica finalmente la corrente stessa dei malati verso il nostro Istituto, col predominio costante e ragguardevole dei malati foresi su quelli della città, predominio che oltrepassa di molto, come notammo, le rispettive proporzioni di popolazione.

Nello intento di provvedere simultaneamente ad aumentare alquanto le nostre risorse finanziarie ed a contenere il numero dei ricoverati nel limite del nostro bilancio, noi fummo finora costretti a richiedere ai ricoverati stessi i piccoli contributi a quota fissa di L. 20 all’atto di ammissione. Questa misura inibitrice allontanava da noi verso l’Ospedale Maggiore il più gran numero di malati bisognosi di ricovero: e questa misura ha testè annunziato il benemerito Consiglio vostro di voler togliere in parte coll’anno nuovo; in parte, cioè per una determinata categoria di ammalati più gravi e non suscettibili di assistenza d’ambulanza, ossia per quelli che hanno bisogno di atti operativi; il benefizio viene esteso a tutti i comuni della provincia in conformità ai confini assegnatici dal nostro Statuto.

Così intendiamo noi elevare la mano al nostro massimo confratello col piccolo obolo della nostra collaborazione; così intendiamo noi devolvere a benefizio dei poveri i nuovi proventi della eredità Frova-Francetti.

Frattanto siano ringraziati coloro che nel nostro mandato di beneficenza ci hanno assistito durante il decorso 1910. E prima fra tutti la nostra Cassa dì Risparmio, il cornucopia, l’astro di guida della beneficenza lombarda: il prof. comm. Elia Lattes, il più generoso fra i nostri attuali benefattori privati, che in questi ultimi tre anni elargì all’Istituto la somma complessiva di L. 17.500, costituendo così un letto di fondazione perpetua: gli eredi di Adele Rocca vedova Forti con L. 1000; gli eredi del compianto comm. Egidio Gavazzi, gli eredi di Serafino Biffi con L. 500 ciascuno; l’Eredità Pisa L. 300; gli Eredi dell’azionista nostro ing. Emilio dei conti Alemagna L. 300; il duca Uberto Visconti di Modrone, il Monte di Pietà con L. 100 ciascuno: la signora Isabella Osculati ved. Maggioni con L. 200; la signora Usellini ved. Grugnola; la signora Mombelli ved. Bambergi; la signora Freganeschi ved. Borella; ed una lunga schiera di altri nostri costanti benefattori.

Pur troppo anche nella schiera dei nostri benefattori miete e fa vuoti ogni anno la morte; e già nel corrente anno noi dobbiamo rimpiangere la perdita del sig. Bassolini Cesare, azionista; del sig. ing. cav. Cesare Piantanida, che pur morendo ricordò l’Istituto con un legato di L. 500; il conte Ottolenghi avvocato Umberto, in memoria del quale gli eredi elargirono L. 1000; e l’azionista nostro Filippo Bennati, alla cui memoria invio un particolare saluto, saluto affettuoso all’amico, saluto riconoscente al benefattore di questa Opera Pia. Buono e generoso egli inviava qui frequentemente ammalati d’occhi a sue spese; e non permise mai che per i suoi raccomandati si tenesse conto delle sue cinque azioni, e sempre richiese e volle soddisfare la nota delle giornate di degenza: morendo egli riconfermò i suoi sentimenti di generosità verso l’Istituto con un legato di L. 3000. A Lui, a tutti i benefattori nostri giunga di qui per la mia voce la voce riconoscente dei nostri poveri beneficati.

E mi si permetta ancora che io rivolga una amichevole parola di ringraziamento a tutti i miei collaboratori, ai colleghi medici, ai sigg. impiegati, alle RR. Suore, ed a tutto l’ottimo e lodevole nostro personale.

L. Ferri.

Per l’assistenza sanitaria agli emigrati

NELL’AMERICA DEL SUD


(Continuazione e fine, vedi n. 29).

«E non parliamo delle ricette! I prezzi che ho accennato si riferiscono a medicinali considerati da soli: un po’ di cremor di tartaro, un purgante semplice, un’acqua salina; guai se si tratta di una combinazione, se la ricetta del medico portasse qualche cosa di composto! Allora si perde addirittura la cifra. Appunto come avviene pei medici quando devono metter mano al bisturi, quale che sia l’entità dell’operazione. Allora i compensi, si tratti pure di proletarii, diventano paradossali. Di modo che, l’assistenza sanitaria è così triste che si può perfettamente riassumere in una frase di un colono che fu consacrata dal Console di Porto Alegre in un rapporto al nostro Ministro degli Esteri: Signore, quando la malattia penetra nella casa di un colono, questi deve raccomandarsi a Dio, perchè l’entrata del medico significa la miseria della famiglia!...».

Fin qui l’on. Pantano, che anche raccontò in pieno Parlamento dolorosi casi di dissesti finanziarî prodotti da questi elevatissimi costi di medici e di medicine.


Il peggio si è che la legge non garantisce in nessun modo il paziente, il cliente, in nessun Stato dell’America del Sud. La nota del medico ha forza di legge, il magistrato non fa altro che darle valore esecutivo e non c’è altro scampo che rimettersi alla carità del medico. Soltanto a Buenos Ayres vi è un Consiglio d’igiene che qualche volta corregge un po’ le cifre, ma non si tratta che di piccole correzioni.

Dovranno dunque i nostri connazionali, poveri contadini e operai, mandare in rovina la loro azienda, il loro lavoro; dovranno oltrechè esaurire il gruzzolo che hanno accumulato, contrarre dei debiti per curare sè o la famiglia, oppure dovranno rinunciare ai mezzi che [p. 235 modifica]la scienza umana fornisce, e fatalmente acconciarsi a subire le conseguenze delle malattie e della morte? Lascieranno i Governi di quegli Stati e lascieremo noi Italiani che alle conseguenze di fatiche eccessive, sotto climi talvolta insalubri, si aggiunga la iattura di non poter curare le malattie e prevenirne le conseguenze?

Il Commissariato dell’emigrazione accordò sussidi di assistenza spedaliera e creò dispensari e medici agenti, ma questi, per la scarsità del numero in un territorio sterminato, non poterono esercitare che una minima efficacia e neppure se ne avvertirono i benefici.

Ma, obbietterete voi lettori, il Brasile non è uno Stato incivile, anzi è animato dalle migliori intenzioni; o che non ci sono ospedali laggiù?

Sì, rispondiamo, gli ospedali ci sono ed anche di nostra nazionalità, ma sono pochi: nello Stato di S. Paolo, che ha una superficie di 290.876 chilometri quadrati, vi è un unico ospedale italiano, nella capitale omonima. Come possono recarsi in esso gli ammalati provenienti dalle più remote regioni? Un ammalato, per esempio, di Reggio Calabria, attraverso regioni senza facili mezzi di comunicazione, potrebbe recarsi nell’ospitale di Cuneo?

Bisogna riconoscerlo: negli ospedali di tutta l’America del Sud, l’ospitalità è completa e larga, sia verso gli indigeni che verso gli emigrati; ma a che serve se essi sono pochi in regioni senza confine? Quali dunque i rimedi a questo male?

Un primo rimedio lo proponeva lo stesso on. Pantano nella discussione del bilancio degli esteri; egli propugnava la fondazione di ospedali nei principali centri e l’istituzione di condotte mediche con medici italiani; mandando poi altri medici, il regime della concorrenza avrebbe segnato la tendenza all’abbassamento dei prezzi.

Il dott. E. Bertarelli, visto e considerato che ammalarsi in Brasile è una rovina, propone una specie di organizzazione statale o comunale del servizio sanitario per i poveri, giacchè, com’è noto, la condotta medica, quale è da noi, in America non è conosciuta. Ora, si osserva dagli intelligenti in materia, l’assistenza spedaliera invocata dal Pantano è troppo costosa e impari al bisogno: basta conoscere la geografia del Brasile per non dubitarne; fra le tante ragioni vi si oppongono, d’altra parte, quelle finanziarie.

L’invio invece di medici italiani che aumentando l'offerta delle loro prestazioni, facciano diminuire i prezzi, sembrerebbe il solo rimedio che possa avere, almeno per il momento, pratica ed efficace attuazione; ma per agevolare quàta emigrazione di medici, è indispensabile che sia acconsentito ai medici laureati in Italia di prestare la loro opera anche in quei paesi di immigrazione. È noto che tanto nell’Argentina quanto nel Brasile, presentemente, ai medici stranieri è vietato esercitare la professione, senza aver prima sostenuti gli esami davanti una facoltà di medicina della nazione che li ospita. Ora questo esame di convalidazione non è piccola cosa, sia perchè è necessaria la conoscenza della lingua del luogo, sia perchè si riferisce a tutte le materie d’insegnamento, sia perchè il nuovo candidato deve spendere parecchie migliaia di lire... e poi c’è dell’altro. C’è specialmente nell’Argentina, un grande ostacolo, da parte di talune classi, a una immigrazione colta; immigrazione della mano d’opera è ben ricevuta, alloggiata gratuitamente nei primi cinque giorni dall’arrivo e fornita di lavoro possibilmente; l’immigrazione colta, nei limiti del possibile, è invece osteggiata. Giuseppe Bevione, nel suo libro recente sull’Argentina, notava acutamente il fenomeno e scriveva, proprio a proposito di questi esami di rivalidazione che si fanno subire ai medici italiani:

«Non esiste dubbio che un laureato in medicina dell’Università di Torino e di Roma vale almeno quanto un collega uscito dalla Università di Buenos Aires o di La Plata. Tuttavia non è ammesso ad esercitare liberamente, sopra un piede di eguaglianza col confratello argentino, la sua professione, se non rivalida il suo titolo, se cioè non ripete felicemente i ventotto o trenta esami dell’intero corso davanti ad una Università della Repubblica. Gli esami, che sono di solito molto mansueti per gli studenti del luogo, diventano un’ira di Dio per il povero straniero che tenta la rivalida; una soccombenzai annulla tutti gli esami superati durante la sessione; e molte volte si ha, cosciente o incosciente, l’ostruzionismo dei professori, i quali cadono indisposti o partono per una gita nell’interno o a Montevideo, proprio il giorno fissato per l’esame. Questa faccenda delle rivalide, che è il sintomo più eloquente delle disposizioni dell’Argentina verso la nostra emigrazione intellettuale, dà luogo ogni anno ad abusi gravi e ad inutili proteste delle vittime».

Quindi se si voglia ricorrere al rimedio sovraccennato, di favorire cioè un’immigrazione di medici nell’America del Sud, occorrerà che i Governi riprendano le antiche trattative per addivenire a un reciproco riconoscimenio dei diplomi professionali, o, se a questo provvedimento radicale non si potrà venire subito, occorrerà almeno poter ottenere che questi esami di rivalidazione siano agevolati e non ostacolati.

Il nostro paese è tutt’altro che contrario a questa emigrazione di intellettuali. Lo stesso ministro degli affari esteri, on. Di San Giuliano, nella tornata del 15 marzo ultimo, nel discorso di chiusa della discussione del bilancio dell’emigrazione, sostenne appunto che una delle ragioni principali dell’influenza delle altre colonie all’estero era data dall’emigrazione degli intellettuali. «Noi abbiamo, egli disse, molte Università che fabbricano un numero considerevole di laureati, certo non minore del bisogno pratico che se ne sente in Italia. Ora, se alcune di queste attività si rivolgessero verso le Americhe, credo che sarebbe cosa per molti aspetti utilissima. E credo che sarebbe molto desiderabile, per la grandezza del nostro paese, che quella stessa facilità di affrontare l’ignoto di là dai mari che si trova presso i nostri umili e forti contadini, si ritrovasse anche nella classe più colta ed agiata».

Ma questo non basterà. Nelle lontane estancias, nelle più remote fazendas, il medico, anche a buon mercato, [p. 236 modifica] non potrà arrivare che con difficoltà. I nostri connazionali, lontani dai centri di vita cittadina, una volta caduti ammalati, si troveranno costretti a trascurare la loro salute, mentre il proprietario, o chi lo ha assoldato, non muoverà in suo soccorso, poiché la legge non gli fa obbligo di provvedere all’assistenza sanitaria dei suoi dipendenti. Quindi la necessità che il nostro Governo, con trattative diplomatiche abilmente condotte, procuri ottenere dai Governi, segnatamente dell’Argentina e del Brasile, che sia compreso fra gli obblighi verso il lavoratore, nella stipulazione dei contratti di lavoro fra proprietari e coloni, o tra governo ed emigranti, quello della assistenza sanitaria. In Europa si parla dappertutto della necessità da parte dello Stato di provvedere alle pensioni operaie, giusta ricompensa all’operaio e al contadino vecchio o invalido; noi ci accontenteremo che il nostro emigrante all’estero, operaio o contadino che sia, trovi almeno, venendogli a mancare la salute per l’eccessiva fatica o per il clima micidiale, la possibilità di curarsi.

Questa possibilità deve essere garantita dall’obbligo degli industriali o dei proprietari di aiutare chi contribuisce a farli ricchi.

E. Bonardelli.