Il buon cuore - Anno XI, n. 34 - 24 agosto 1912/Educazione ed Istruzione

Da Wikisource.
Educazione ed Istruzione

../Necrologio ../Notiziario IncludiIntestazione 2 maggio 2022 75% Da definire

Necrologio Notiziario

[p. 267 modifica]Educazione ed Istruzione


La massoneria e l’esercito

Se gli ufficiali ottomani rinnovano oggi tra lo stupore generale i fasti dei pretoriani il fatto è dovuto non tanto all’impulso del lucro personale, quanto alla passione dello spirito settario che è penetrata tra le file dell’esercito: anche in questo, che dovrebbe essere il palladio della patria sottratto alle competizioni di parte, con l’infiltrazione giovine-turca è penetrato lo spirito della loggia, il fanatismo fazioso che distrugge ogni traccia di disciplina: e per naturale conseguenza si è avuta la reazione degli elementi non infeudati alla nuova camarilla e costretti per necessità di cose a riunirsi, a complottare, a farsi valere alla lor volta con ogni mezzo, anche quello della minaccia e della indisciplina.

Questo si è visto oggi in Turchia, il paese dove la rivoluzione giovane-turca ha esperimentato su larga scala l’influenza della massoneria al potere nei diversi organi dello Stato. Ma questo — possiamo esserne sicuri — si verificherà in ogni altro paese in cui le loggie abbiano saputo organizzare nella loro oscurità la conquista dell’esercito. Ce ne è garante ciò che attualmente succede in Francia. Quivi la loggia, con la complicità di parecchi ministri della guerra massoni, da André a Berteaux, aveva finito col sottoporre l’esercito ad un regime odioso di sospetto e di delazione, ad una vera e propria tirannide camorristica con lo strumento della famigerata fiches. Questo stato di cose condusse alla formazione della Ligue militaire, presieduta dal maggiore Driant, il deputato nazionalista di Nancy: lega degli onesti ufficiali che cercavano liberarsi dal giogo della delazione settaria. Ora parecchi giornali, tra i quali il più autorevole è il Temps, si sono messi a fare una campagna contro le leghe militari e la infiltrazione politica nell’esercito: e un deputato radicale di Parigi, il Paté, ha presentato un’interpellanza per chiedere al Governo delle misure repressive. Il Driant, difendendo gli scopi e la natura della sua Lega, che vive alla luce del sole e i cui dirigenti sono universalmente noti, ricorda che lo statuto della Lega stessa sancisce la sua indipendenza da ogni e qualsiasi partito: e si dichiara pronto a sciogliere la Lega il giorno in cui il Governo provvederà a togliere l’esercito dalle mani rapaci della massoneria che mira a farsene cieco strumento. E per dimostrare quanto sia grave e reale il pericolo il Driant ricorda lo scandalo di Aurillac, recentissimo. Un reggimento, il 1370, che aveva sempre avuto i maggiori elogi, fu ad un tratto scompigliato e disorganizzato da sei inchieste, l’una più assurda dell’altra. In diciotto mesi il colonnello, il tenente-colonnello, un maggiore, quattro capitani ed altri ufficiali subalterni furono traslocati, o messi a riposo pel semplice fatto che il prefetto del luogo aveva organizzato nel reggimento un servizio di delazione sulle opinioni e pratiche religiose degli [p. 268 modifica]ufficiali. Un esercito in cui tali cose succedono deve essere per fatalità di cose un esercito demoralizzato.

Teniamo bene aperti gli occhi, dunque, perchè in Italia non succeda nulla di simile.

L’A.

Dal fasto della scena

alla realtà della vita.

Nessuno vive tanto più fuori della vita quanto co loro che la vita ogni giorno, infaticabilmente, riproducono, studiandola nei suoi più diversi aspetti. Mi formai questo convincimento molti anni fa, quando per la prima volta conobbi da vicino un attore che avevo seguito per lungo tempo a debita distanza, facendoci, cioè, dividere sempre dalla fila di lampade della ribalta, e nel medesimo convincimento venni raffermandomi in seguito, quando cioè, l’esercizio del giornalismo mi offrì occasioni di dimestichezza con attori.

Parrebbe che dovessero aver conoscenza di tutto questi uomini che assimilano le più opposte passioni umane e non conoscono, invece, che il loro mondo, quel loro mondo che abbraccia tutto il mondo e che, invece, è angusto, è soffocante, è misero, chiuso,eternamente nei brevi confini di un fondale e di una fila di lumi interrotta dal cupolino del suggeritore. Parrebbe che non dovessero stupirsi di niente, nella vita, questi uomini che piegano il loro cervello e il loro corpo alle più audaci fantasie di scrittori e, viceversa, si stupiscono di ogni cosa e principalmente di ciò che nella vita è più comune, più banale, più alla portata di tutti. Un fatto straordinario che irrompesse nella loro vita con un baccano d’inferno potrebbe lasciarli impassibili come la cosa più naturale di questo mondo. Al contrario sono essi che si smarriscono quando nel loro mondo si determina qualcosa che è di tutti e che essi credevano fermamente prerogativa di quell’altro mondo che non li riguarda se non per la cassetta e per gli applausi, quel mondo che vive al di là dei lumi e del suggeritore.

Con uomini cosiffatti non è dato a tutti di vivere da vicino in buon accordo. Ma colui che vince le prime resistenze, colui che sa intonare, almeno apparentemente, la sua vita alla loro, ha innanzi a sè un vasto campo di osservazioni da mietere e una infinità di sensazioni nuove da raccogliere, le quali assai spesso, purtroppo, non sono delle più liete.

In questi ultimi giorni parecchie di queste sensazioni si sono affollate al mio spirito e lo hanno sottilmente conturbato provandomi ch’io appartengo tuttavia al mondo che sta al di qua dei lumi, e che si ha un bel frequentare i camerini degli attori, quel benedetto cupolino è una barriera quasi sempre insormontabile.

Io, dunque, ho assistito, in questi giorni, alla fine di un attore ed ho contemplato a lungo, da vicino, il tramonto di un altro e, in verità, non saprei dire quale dei due spettacoli sia stato per me il più triste e quale per l’osservatore che era in me, il più interessante.

Ferruccio Garavaglia, affranto da una vita breve ma tumultuosa, ma irrequieta e ribelle, non era più, da qualche tempo, un grande attore se non di nome. Perduto il dominio di se medesimo, aveva con esso smarrito la facoltà di sovrapposizione che distingue un attore da ogni altro uomo. Egli da tempo — poco tempo! — esibiva sui palcoscenici se stesso piuttosto che la creatura che doveva incarnare. Ora, il valore di un attore non deriva dal suo carattere personale: non è con la sua sensibilità ch’egli commove, nè con le sue gioie e i suoi dolori. Se egli pretende mettere in valore stilla scena le sue qualità individuali di uomo e non di attore, risulta sempre inferiore a chi queste qualità, senza possederle, prende a prestito per creare il tipo. In Ferruccio Garavaglia di questi ultimi mesi le sofferenze personali occupavano troppo posto perchè egli potesse ancora valersi, sempre che ne abbisognasse, di quella qualità di sovrapposizione che è caratteristica dell’attore. E la rivoluzione prodotta dal male inesorabile nel debole organismo aveva determinato un singolare disquilibrio per cui spesso accadeva che egli fosse più attore nella vita che sulla scena e più uomo sulla scena che nella vita.

In queste condizioni lo colse l’estrema crisi del male. Provando «Il piccolo Santo» occupò, un giorno, due ore a spiegare ai suoi attori come e perchè dovessero apparire sulla scena lievemente impolverati. Magnifico sforzo nella cura di un dettaglio che poche parole bastavano a determinare; ma sforzo sproporzionato alla sua resistenza. Egli spendeva energie e danaro senza rendersene conto e si trovò alla soglia della morte con una duplice enorme sorpresa che riluceva nel suo sguardo stanco: quella di non aver più forze per resistere al male e quella di non aver più danaro per pagare le medicine. Ed io ebbi la sensazione ch’egli fosse stupito così della sua miseria fisica come di quella economica, e che fosse enormemente sorpreso di dover morire, egli che era tante volte morto sulla scena, egli che si credeva come tutti gli altri attori una creatura d’eccezione alla quale nulla dovesse accadere che agli altri accadeva.

Morì, e intorno alla sua bara quella parte di umanità che risiede al di qua dei lumi si affollò con viso compunto — tranne qualcuno — perchè i suoi nomi e i suoi titoli venissero riprodotti nel necrologio. Ma io notai una profonda e sincera e incontenibile commozione nei compagni d’arte, una commozione che sorprese tutti. O dunque, gli attori sapevano anche piangere davvero?

Sì. Essi si commuovono e piangono in determinate circostanze, quando accade, cioè, in mezzo a loro, un fatto speciale che prova essere essi creature d’eccezione, una casta particolare che si distingue dal resto della umanità. Allora questa casta, nonostante le lotte, le gelosie, le inimicizie che le son proprie, sente il dovere di raccogliersi, di stringersi in un abbraccio fraterno e piange le sue vere lacrime.

Così accade quando muore — o nasce — uno di essi; così, infallibilmente accadrà quando morirà — e speriamo che sia ancora molto lontano questo giorno — un altro della enorme, errabonda famiglia, un [p. 269 modifica]dimenticato, un vinto che la grande carovana ha lasciato cadere, senza raccoglierlo, nel suo incessante pellegrinaggio e che è rimasto a riscaldare al bel sole di Napoli le sue intirizzite illusioni.

Questo dimenticato è Giovanni Tamberlani, un attore che ha circa ottant’anni di vita e ne ricorda, come si dice in gergo, cinquantadue di palcoscenico.

Io non so — ho detto dianzi — quale sia stato, in questi giorni, più rattristante per me se la visione rapida, quasi improvvisa di quella fine imprevista e la contemplazione lunga di questo lungo tramonto.

Pieno di acciacchi, colpito a segno nella sua fibra robusta che tenacemente resiste, Giovanni Tamberlani, che seppe le ebbrezze dell’applauso e passò trionfante accanto ai più grandi attori e alle più celebrate attrici d’Italia, è l’attore tipico che vive di un suo mondo speciale, che vive quasi una vita interiore, riuscendo, in virtù della sua arte, a dimenticare, a far dimenticare a chi per caso lo avvicini, i suoi incessanti dolori.

Vive solo. Di che? Non ho mai osato domandarglielo. Egli è tanto riserbato! Ma ho creduto di capire che moralmente e finanziariamente viva del suo passato fastoso, e non certo, credetemi, lautamente. Lo ricordano i suoi compagni d’arte che hanno una casa propria, che hanno ancora un teatro, che hanno un pubblico, ah, sì, un pubblico che è tutto per chi di esso è vissuto, che li applauda? Lo ricorda Eleonora Duse il suo biondo caratterista fiorentino, un po’ mordace, un po’ maldicente, ma di spirito, ma brillante, elegante, sempre?

Giovanni Tamberlani, che con loro ha diviso i palpiti e le gioie, che con loro ha passato i mari, recando su palcoscenici stranieri la favella italica, non credo che pensi a ricordarsi a loro, egli che è un po’ sdegnoso e, un po’, giustamente, forse sdegnato. Le sue uscite sono rade e quasi uniformi: va dal medico che lo cura, si capisce, per niente, e va da chi vuole acquistare qualcosa del suo sfarzoso vestiario. Tra una visita e l’altra bussa alla porta di un dilettante o caccia il capo bianco, con qualche lontana sfumatura dell’oro giovanile, fra le quinte di un teatro di filodrammatici per cercarvi lavoro. Ma ad ogni uscita è un pezzo del suo passato che se ne va, materialmente e moralmente, un passato che si sfalda ineluttabilmente. Quanto durerà? Basterà il passato sfolgorante a sostenere fino alla fine quella vecchiezza? Moralmente, sì, perché egli ha l’anima giovanile e su di essa i dolori scivolano come le gocce d’acqua sulle vetrate. Egli sorride e con sidera i suoi ottant’anni come una volta considerava i suoi trent’anni: vale a dire che non li ha in nessuna considerazione. Il suo è un tramonto ardente che lo induce alle più strane fantasticherie e gli dà — supremo conforto — la gioia dell’oblio del presente.

Io sono stato un giorno a trovarlo a casa. Abita in un vecchio e sudicio palazzetto che si apre in un fondaco angusto e buio della Napoli vecchia. Una coppia di operai gli ha ceduto in affitto una stanzetta minuscola della casa che.... ne ha due soltanto. La casa è vuota tutto il giorno, perchè gli operai vanno al lavoro e tornano a notte alta per cadere affranti di fatica sui loro pagliericci. L’attore insigne, che appagò il suo sguardo di mobili laccati, che suscitò in Italia e oltremare, cori ammirativi per la sua arte, per la sua eleganza, per la sua simpatica persona, si aggira solo nella casa buia e sudicia e non ’ha altri per sè che le buone pietose donnette del vicinato le quali si alternano nel rendergli qualche piccolo servizio.

Orbene, un uomo che non avesse passato tre quarti della sua vita sulle tavole di un palcoscenico, che non fosse stato un attore di vocazione, si ammazzerebbe o morrebbe lentamente di malinconia in tanto squallore in tanta solitudine. Invece egli mi ricevette col suo più bel sorriso e mi introdusse nella sua camera come se mi avesse sospinto in una reggia.

Là era tutto il suo mondo e si contrastavano la miseria dell’arredamento e le vestigia di un passato splendore. Il lettuccio modesto un po’ pericolante nella sua vecchia ossatura di ferro e l’orologio da viaggio sospeso al capezzale nell’astuccio di cuoio; una rozza tavola zoppicante sulla quale si ammassavano giornali teatrali, riviste, fotografie delle più gloriose personalità del teatro italiano e straniero; accanto a un comodino pieioso una pelliccia un po’ vecchia ma che deponeva di passata agiatezza e tutte le pareti, le pareti vecchie ingiallite, tappezzate di Tamberlani fotografati nelle pose più varie, nei costumi più diversi, i Tamberlani di una volta, paffuti, giocondi, sorridenti, beati, sfrontati.

La visita fu breve. Sedemmo su di un grosso baule. Intorno a noi ve n’erano altri dieci, qualcuno di più qualcuno di meno.

— Sono tutti pieni di roba — mi disse l’attore. — Potessi almeno trovare un compratore! Sono costumi di tutte le epoche. Erano il mio tesoro e adesso sono il mio tormento. Son due anni che abito qui. Brava gente, ma non si vede mai. Se mi verrà voglia di morire, morrò solo come un cane. Trovassi almeno da fare una recita. La «Gerla», per esempio, o «Il ritorno dalla guerra», un lavoro di attualità, ora, che mi sta benissimo.

— Ma siete ammalato, ora. Pensate prima a guarire.

— È vero! Ma come guarisco se non lavoro? come lavoro se non mi sento in gamba? — E rise un po’ tristemente al bisticcio.

Ci lasciammo. Egli mi disse che si sarebbe messo a letto e mi pregò di incaricare una ragazzina che era giù nel fondaco di portargli mezzo litro di latte.

— Fosse almeno buono come quello che ho bevuto in Olanda! — mi disse con rimpianto. — E venga a trovarmi. Le mostrerò il vestiario e qualche dono delle serate. Ho tutto qui, venga!

Sull’uscio che mi chiusi dietro le spalle era incollato un cartello su cui lessi, scritto a penna: «Giovanni Tamberlani, artista drammatico. Lezioni di al te scenica e di bella pronunzia».

Oh, santa illusione! Sarò stato forse il solo a leggere quel cartello da due anni che vi era.

Pasquale Parisi.



La NONNA è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.


[p. 270 modifica]

“ Molle Tarentum „....

San Cataldo — Il fremito della guerra — Con buona pace di Orazio — Una canzone di Salvatore Di Giacomo e un monumento a Paisiello — La città bellica — Si cerca un poeta — L’inno delle campane....

Sole, vento e campane; le forosette dagli scialli sgargianti, a gruppi, arrivate dai villaggi finitimi, i bifolchi azzimati, i contadinotti col sigaro della festa, i pescatori vestiti di fustagno; rose sui cappelli muliebri, suoni di banda, vocio di noellari, e da per tutto, a dritta e a manca, mare mare mare, il bel mare Jonio più glauco degli occhi delle muse ebaliche; è San Cataldo.

Il gran vescovo marinaro venne dal mare, a Taranto, e la popolazione del lido che campava di pesca gli chiese abbondanza di pesci, e l’abbondanza venne, chè d’allora il Mar Piccolo fu la fonte di vita. E il Santo lasciò cadere un anello in mare, e nessuno potè ripescarlo, ma lì dove il gioiello cadde l’acqua salsa si addolcì, e si chiari. Chi vada in barca, oggi ancora, per il Mar Grande, troverà — quando sia giunto in direzione delle vecchie mura — un cerchio d’acqua di un metro di diametro, color azzurro chiaro chiaro, e ognuno può dissetarsi, l’acqua è potabile, nè il continuo ondeggiare e il continuo mischiarsi con l’acqua salsa ne altera la purezza. Dicono si tratti d’una forte polla, io non so. So, ch’è il miracolo, e i tarentini chiamano quel cerchio l’anello di San Cataldo.

Ogni anno, il 10 maggio, ricorre la festa del patrono, e quest’anno di guerra la celebrazione è parsa più solenne, poi che fra le città d’Italia che sentono il fremito della battaglia, quella che freme più forte è Taranto. È Taranto per il frequente andare e venire di navi possenti, per la febbre di lavoro onde tutto l’immenso arsenale risuona di martellate e romor di ingranaggi e sibili di vapori, per la vicinanza ai luoghi della guerra, onde l’eco giunge più immediato e violento, per il quotidiano affrettar di carriaggi e imbarcar di soldati, per la memoria d’un secolare odio contro il nemico d’oggi, cosi che pare come se tutta la città, vecchia e nuova, voglia lanciarsi con le sue case, coi suoi castelli, coi suoi ponti alla battaglia.

Poderosa città moderna, questa che Orazio chiamò molle Tarentum. Ma con buona pace del Venosino, a cercar l’accidia e la fiacchezza per le belle vie della regina del Jonio si rischia di trovarle soltanto nei gruppi di gatti stesi beatamente al sole. Ma i gatti pare che non abbiano una somma importanza nella definizione del carattere d’un popolo; tutt’al più possono avere — come a Roma — una importanza archeologica, ma non etnica.

Ma anche con buona pace di Gabriele D’Annunzio che definì Taranto «lacedemonia», di spartano non vi si trova che un avanzo di antiche mura — allorquando la città apparteneva alla circoscrizione di Sparta, mentre Roma vagiva — ed il succinto abito con cui alcuni ragazzi delle vecchie strade saracene, di questi tempi e fino ad ottobre, vanno candidamente in giro.

Per altro, a questo stupendo spagnolissimo paese, Salvatore Di Giacomo dedicò una canzone:

A Taranto ’nce stanne
’nu mare piccirillo e n’alito granne,
la terra intr’ ’a li duie

pare ca dà vasille e se nne fuie....
Taranti, Taranti, Tarantella,
stu mare è bello, stu mare è bello!...

E Mario Costa vi ricamò su la più vivida delle sue tarantelle. Con amore di figlio, si intende bene, giacchè — per chi non lo sappia — l’autore del Capitan Fracassa non è affatto napoletano, ma della terra di Giovanni Paisiello. Un poeta aggiungerebbe che l’onda melodica s’è trasmessa — con l’aria? — dalla spinetta di messer Giovanni al pianoforte di Mario Costa; ma sarebbe una menzogna ed una imagine retorica. Già, i poeti!...

E a proposito di Paisiello, il magnifico monumento dedicatogli dalla sua patria sta lì ad attestare che un monumento tanto è più splendido quanto meno lo si fa, e per questo il dolce cantore della Nina non ha a Taranto neanche un busto, neppure mezzo, e nemmeno un quarto, e si cercherebbe invano una tomba di lui, che se anche ci fosse, a che servirebbe? Tanto, le ceneri di Paisiello sono a Napoli, in una chiesa di Ghiaia. Taranto ha, in compenso, un incredibile Politeama Paisiello con annessa piazzetta omonima, per la quale possono passeggiare, in segno di omaggio, coloro i quali abbiano da assolvere un dovere di ammirazione verso il primo dei grandi musicisti italiani. Pei vicoli bui e fumosi della città vecchia, verso la Porta Centrale — per far onore al suo nome è in un punto assolutamente fuori centro — in via Monteoliveto voi troverete un muro rossigno con su una lapide, la quale conterrà, senza dubbio, una meravigliosa epigrafe, ma chi la legge?

Dopo immatura contemplazione capirete che lì v’è una casa ed in quella casa nacque Giovanni Paisiello, compositore di sentimentalissime musiche. Piccola, sbocconcellata dall’avvicendarsi degli anni, la casetta è maltenuta anzi che no. Voi troverete un balconcino con qualche rosa e magari con una camicia sciorinata, oh ma una camicia molto diversa da quella coi manichini a pizzi e ricami usata dal musicista quando «ganimedeggiava» per la Corte di Napoli.... Ma glissons, perchè spettegolare ancora, dopa quasi tre secoli?

Taranto moderna, bianca, solatia e operosa, si trova di là dal ponte girevole. È detta «il borgo» forse appunto perchè ha tutti gli aspetti, tranne quello d’un borgo. A quando a quando il rumore d’un opificio, dei vari sorti di recente, il teuff-teuff d’un automobile militare, il rasplo d’un carriaggio a freno, il passo frettoloso e cadenzato d’una compagnia di marinai, il clamore dei monelli che giocano «alla guerra cu lli turche», il gridìo dei giornalai, l’affaccendarsi dei mercatanti, una filza di carrozze piene d’ufficiali in sciarpa, il fragore d’una batteria da campagna tirata verso l’arsenale, una dimostrazioncella intorno ad un gruppetto di tornati dall’Africa, l’ansia generale, l’improvviso sbarrar d’occhi ad una notizia che corre di bocca in bocca, una donna piangente, uno sventolar di bandiere, il rumore sordo di ferramenta smosse che indica l’aprirsi del ponte girevole, lo strillo acuto di una sirena, l’accorrer di studenti al porto, il riversarsi della folla verso il parapetto del canale navigabile, per l’arrivo d’un naviglio, il chiacchierio solenne non interrotto da risa discordanti, nei caffè e nei ritrovi, tutto questo e mille altre cose insieme che non si possono definire, che sono come le pulsazioni d’un immenso corpo, come l’affluir d’un gran sangue ad una tempia colossale, tutto, tutto vi fanno sentire la guerra che si combatte di là [p. 271 modifica]dal mare, su l’altra sponda, a poche ore di distanza. Le palazzine par che respirino un vento epico, fasciate nel sole o nella penombra, fiancheggiate dal mare vivido, interminabile specchio del cielo, con lontano, oltre l’isola di San Pietro e di San Paolo — baluardi poderosi del porto — in una riga d’azzurro sfumato, le montagne della Sila, che all’ora del tramonto si infiammano, accendono tutto d’intorno, quasi in una pioggia luminosa di croco e di porpora, la bella porpora, che già l’antica gente tarentina mandò pel mondo onde gli imperatori se ne vestissero.

Conoscete le gaie cittadine spagnuole del versante mediterraneo? Murviedro, Villayojosa, Alicante, Segura; ebbene, Taranto è una di quelle, con un po’ di Venezia ed uno spicchio di Napoli, fusi insieme, tortuosamente.

Una società che sapesse sfruttare le innumere bellezze naturali di Taranto, farebbe tesori. Ma, per carità, evitiamo che un miliardario americano intervenga, se no ne profitta immediatamente per creare un trust: The Taranto Company Ltd.!

Ma soffia lo scirocco. Se la mollezza onde ad Orazio sorrideva quest’angolo (mihi ridet,... ecc.) veniva dallo scirocco preponderante snervante, forse il poeta poteva non aver torto del tutto. Ma in compenso v’è intorno una campagna ombrosissima e saluberrima e vi sono una ventina di villaggetti freschi, pieni di casine, di pascoli, di pace, borghetti dai bei nomi latini o normanni, dalle strade tranquille, dai panorami idilliaci, dove gli aratori vi salutano in latino: Bona vespra! e le mietitrici vi dicono, passando:

— Laudato Gesù e Maria.

E voi rispondete:

— Oggi e sempre!

E ve ne andate con Dio, pei fatti vostri, in una quiete indicibilmente bella.

Non c’è nessun poeta, in Puglia, disposto a scrivere una forte, grande tragedia d’ambiente, più che mai folkoristica, per poi preporre la scoperta della ragione? Ma per pietà non facciamo la Figlia di Jorio, chè in Puglia non ci sono Lazzari di Rojo nè Mile di Codra da poter servire con contorno di rime! Dunque, non c’è nessun poeta?... Veramente, da quel che so io, poeti ce n’è, anche troppi, e da quando Gabriele d’Annunzio ha scritto:

Taranto, non per ancore ed ormeggi

tutti si son guardati bene dal lanciare altre liriche in proposito, brontolando:

— I migliori argomenti ce li toglie lui!...

Ed oggi, mentre la statua argentea del Santo ferma a metà del ponte, a benedire i due mari, s’ammantava nel sole, e passavano di sotto veloci le torpediniere di ferro che andavano verso Rodi, l’inno solenne ed altissimo sonoro e canoro di sei voci bronzee, lento, squillante, lungo e leggero, lo intonano in coro con l’eco le campane del bel Santo Cataldo....




COME TI CHIAMI?1


Di’ come ti chiami
ascaro audace,
così valoroso
sì fiero e pugnace?
Volesti da solo
sottrarre ai tranelli
di venti nemici
due bianchi fratelli.
Dormivan nel campo,
tu solo vegliavi,
benefico nume,
tu vigile stavi.
Scorgesti l’agguato:
sorprese accerchiate
son due sentinelle
da belve infuriate.
Tu pronto accorresti,
mirasti, uccidesti;
ai due prigionieri
la vita rendesti.
E mentre il periglio
sereno affrontavi,
al prode Arimondi
di’ forse pensavi?
Il martire nostro,
l’invitto tuo Duce
ti apparve, o guerriero
in mistica luce?
O forse ne udisti
la voce lontano
trasfonderti in core
poter sovrumano?
Galliano, Toselli
sentivi al tuo lato
allor che pugnavi
da bravo soldato?
La valida schiera
de’ militi morti
è fida compagna
de’ prodi e de’ forti.
Ne segue le imprese,
e ad ogni vittoria
esulta, s’inebria,
li copre di gloria.
A que’ generosi,
o ascaro umile,
il nobil tuo gesto
ti rese simile.
Spariscon le razze,
non havvi colore
possente all’Italia
vi eguaglia l’amore.
Dell’ascaro il nome
sia noto tra noi,
unir lo vogliamo
agl’itali eroi.

Samarita.

  1. All’ascaro che solo e di notte salvò due sentinelle da un agguato nemico.