Il buon cuore - Anno XII, n. 45 - 8 novembre 1913/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XII, n. 45 - 8 novembre 1913 Religione

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TRA LE OMBRE DELLA STORIA


Anime Eroiche



La fantasia fervida di un romanziere di avventure giudiziarie non potrebbe pensare un intreccio di episodi più drammatico ed emozionante di quello che si svolse attorno a quel manipolo di preti eroici, che nonostante le leggi severissime di proscrizione, senza venire meno alla loro fede e piegarsi al giuramento civile, vollero tuttavia rimanere in Francia, per il soccorso spirituale dei fratelli. I mezzi ai. quali ricorsero per sfuggire alla ferocia dei rivoluzionari, furono parecchi ed hanno dell’incredibile; a tutto essi si piegarono perché l’opera caritatevole del loro ministero fosse assicurata in quei giorni di pericolo: a mutar nome, a nascondersi per delle giornate intere in bugigattoli oscuri e fetidi, ad assumere occupazioni manuali e spesso vili e tutto ciò con una temerità, con una audacia meravigliose.

È uscito in questi giorni il bellissimo libro del can. Pisani: «L’Eglise de Paris et la Révolution», che ha tutta l’attrattiva di un remanzo di avventure, l’una più emozionante dell’altra, e invece è un libro di storia, dove ogni episodio è dedotto con la vivezza di suoi particolari dai documenti identici custoditi negli archivi e dalle memorie del tempo di valore storico incontrastato.

Deve per esempio, trovare un aneddoto più drammatico di quello che il Pisani narra intorno all’abate Nicola Guillon, che era stato ai suoi tempi, prima della bufera rivoluzionaria, elemosiniere e bibliotecario della principessa di Lamballe? Il Guillon s’era rifugiato a Sceaux, prendendo il nome di Pastel ed esercitava come meglio poteva le funzioni di medico che gli aprirvano la strada ad esercitare, dove appena era possibile quelle di sacerdote. Un giorno ch’egli passava per Montroge la guardia rivoluzionaria lo affrontò e in tono brusco gli domandò le sue generalità. Il prete un po’ interdetto estrasse le sue carte. Il sanculotto le rimestò con visibile sdegno, poi ravvolgendo in una occhiata terribile il povero prete gli disse scandendo le parole: Tu menti, sei una calotta refrattaria, tu ti chiami Guillon!

L’altro si ritenne perduto, ma non ebbe il tempo di rimettersi dallo spavento, che il sanculotto, raddolcendo d’improvviso la voce gli soggiunse: «Medico del corpo, tu curi le anime»: Il Guillon riconobbe allora il truce rivoluzionario. Era nient’altro che l’abate Borderies, del collegio di Santa Barbara, camuffatosi alla sua volta per sottrarsi ai sospetti, in sanculotto. Chi avesse assistito al colloquio dei due, rapido e a bassa voce, non avrebbe certamente indovinato ciò che l’avvenire riserbava ai due patrioti in carmagnola; l’uno, il falso medico Pastel, diverrà sotto Luigi Filippo il cappellano reale di Dreuz, sanculotto, diverrà vicario generale di Palrigi e poi vescovo di Versailles.


* * *


Non era certo il puro piacere di violare la legge e di avventurarsi con audacia a travestimenti pericolosi, che quei preti magnanimi persistevano a rimanere a Parigi. Il loro zelo ve li riteneva. L’abate Bechet, direttore del Seminario di San Sulpizio, per incarico dell’arcivescovo di Parigi riparato all’estero, esercitava la funzione di vicario generale e aveva, servendosi dei preti rimasti al loro posto di combattimento e di carità, disposto in modo che nessun fedele che li richiedesse, fosse privo di conforti religiosi La minuscola e illegale organizzazione veniva chiamata il «servizio delle anime». I preti [p. 354 modifica]votatisi a questo difficile e pericoloso apostolato, allorchè tornò la pace in Francia e poterono riprendere la loro veste talare e i loro nomi di battesimo, per una specie di pudore, non hanno generalmente voluto manifestare in pubblico le loro avventure e perciò si conosce relativamente poco di essi; di molti è rimasto perfino sconosciuto il nome. Il Pisani ne cita alcuni: l’abate Ciriez che si faceva passare per uomo di, legge, l’abate Magnin vicario di S. Rocco improvvisatosi venditore di abiti smessi, l’abate Malteste datosi al commercio ambulante di ciabatte fruste, l’ab. Sambucy-Saint-Estève, operaio presso un chincagliere, ed altri s’erano collocati come tipografi o commessi di studio. Il loro ministero cominciava alla sera, dopo il lavoro della giornata. Essi si sparpagliavano per la città recando sulle spalle un sacco della merce di cui s’erano fatti dei falsi venditori: al loro grido caratteristico, appariva a qualche finestra una testa; un segno ed essi salivano lassù; si capisce non per smerciare ciabatte o abiti, ma per battezzare un bambino, per confortare un ammalato, per dispensare assoluzioni. Compiuto ciò per cui erano stati chiamati, ridiscendevano nella via ad emettere il loro grido professionale. che per gli iniziati aveva questo significato: «ecco un prete che passa». L’abate Emery, superiore emerito del Seminario di S. Sulpizio è una delle figure più meravigliose per l’audacia con la quale egli seppe in circostanze difficilissime, moltiplicare le risorse dello zelo. Imprigionato il 3 agosto 1793, egli, che già toccava la sessantina, si era famigliarizzato presto al pensiero della morte costruendo nella tana dov’era stato rinchiuso con molti altri, un modello in piccolo della ghigliottina. Ivi, egli, come prima, attendeva alle sue pratiche devote, curando di isolarsi dal tumulto col turarsi le orecchie con della mollica di pane. Nelle ore di respiro egli si mostrava coi compagni di sventura e coi carcerieri di umore gaio, dolce nelle parole nei tratti, così che presto acquistò un ascendente notevole sulla triste masnada e i carcerieri stessi gareggiavano nel compiacergli. Aiutato dal di fuori dall’abate Béchet, l’Emery continuava dal fondo della sua tana a dirigere le coscienze e ad adempiere i doveri del suo ministero, riceveva frequenti visite, dall’abate Montagne e da altri sulpiziani che gli facevano tenere regolarmente le ostie e il vino per la messa quotidiana e per le Comunioni; così avveniva che proprio là dove il Terrore puniva i ribelli alle sue leggi antireligiose, quotidianamente si perseverava a celebrare e comunicare. E quel che avveniva a Conciergerie, grazie allo zelo dell’Emery che tirava profitto delle numerose relazioni che aveva, avveniva pure in pressochè tutte le prigioni minori. Quando non riusciva a far penetrare dentro travestito qualche sacerdote o gli eri. impossibile supplire personalmente, avvertiva i condannati prima che uscissero.per l’ultinio viaggio verso la ghigliottina che in questo o in quel luogo particolare si sarebbero incontrati con un prete tra vestito che li avrebbe assolti. Questi preti che amavano chiamarsi i cappellani della ghigliottina. erano di servizio una volta per settimana ciascuno. Cosa curiosa, questi uomini audaci, chissà forse per una protezione misteriosa e tacita, forse per la ragione stessa della loro temerità che allontanava i sospetti, sfuggirono tutti alla ghigliottina. Parechi però di loro furono denunciati e furono ad un dito di salire il palco fatale. L’abate Pisani cita nel suo libro interessante un epissodio staordinario a queste proposito. In via della Barillerie n. 27, dove è oggi il corpo dei pompieri, vicino al palazzo di giustizia e quindi tra il carcere e il tribunale esisteva allora una modesta bottega di chincaglierie che si intitolava sulla Alla flotta inglese». Il painsegna pretenziosa: drone da dieci anni era infermo di paralisi ed aveva dovuto cedere completamente tutti gli affari del negozio alla moglie, signora Bergeron. Questa, non era donna da poco, abile e sollecita in poco tempo aveva perfino ottenuto dal governo rivoluzionario la fornitura di oggetti in ferro e in acciaio per la fabbricazione delle armi. Per spedire l’affare aveva dovuto assumere al proprio servizio prima un fonditore nativo di Cahors, poi un tornitore di Aveyron, tutti e due gente tranquilla e laboriosa. Senza dubbio, i due non erano troppo abili, si vedeva subit) che non avevano mai lavorato in Parigi, ma dimostravano tanta buona volontà, erano di abitudini tanto tranquille che tutti nel quartiere li •amavano. Secondo l’uso allora quasi generale i due vivevano con la padrona che pensava al loro vitto e all’alloggio: Un giorno, il 25 messidoro dell’anno II, la polizia scopre in casa della signora Bergeron nientemeno che un altare con relativi reliquari, candelieri e tutto insomma la suppellettile necessaria per dir messa; una vera e propria cappella di culto. Sorpresa generale; i due operai erano due preti autentici, il fonditore era l’abate Bruno de Lalande, il tornitore l’abate di Sambucy. La Bergeron e i due preti furono naturalmente incarcerati e al processo questi confessarono di aver continuato a celebrare tutti i giorni per diciotto mesi. Dopo il lavoro, sul tramonto prendevano congedo dalla padrona e uscivano per le vie a scrutare i richiami convenzionali delle finestre. Con una temerità stupefacente avevano osato celebrare nel giugno 1794 la festa del Corpus Domini; il Sacramento era stato esposto nella cappella clandestina per tutto il giorno e alla sera si erano cantati a mezza voce inni e salmi. Quando comparvero davanti al commissario i tre eroi non dubitarono di confessare tutto con candore, aspettando serenamente la loro sorte. — Ma voi sapevate bene — disse alla Bergeron il commissario — che i due operai erano due preti refrattari? — Sicuro — rispose quella — se non lo fossero stati non li avrei presi con me. [p. 355 modifica]Fortuna volle che l’incidente coincidesse con l’agonia del Terrore. Furono liberati dopo pochi giorni di prigionia, alla vigilia di essere ghigliottinati. Lo zelo di questi eroici preti, così meravigliosi nel creare risorse per il bene del popolo minuto, s’accresceva naturalmente quando trattavasi di rendere possibile il conforto religioso in sollievo delle vittime illustri della Rivoluzione. La sorte dell’infelice regina Maria Antonietta imprigionata nella Concergierie, tormentava -un gran numero di fedeli e di preti; ad Orléans non si aveva avuto timore di indire •pubblicamente una novena di preghiere per lei; le suore della cartià di San Rocco si torturavano al pensiero che Sua Maestà, privata da più d’un anno di ogni conforto religioso poteva da momento all’altro salire il patibolo. Ma la detenuta era strettamente sorvegliata, chiusa in una cella donde non usciva mai, sconosciuta a tutti, e guardata a vista giorno e notte da due gendarmi. Come era possibile penetrare fino a lei? Eppure un povero prete ebbe il coraggio di affrontare tutti gli ostacoli; di più ancora, osò dire la messa nella cella della regina, di comunicarla e di associare alla divota cerimonia nientemeno che i due stessi gendarmi incaricati dal tribunale di guardare a vista la regina. Il fatto ha dell’inverosimile, eppure esso venne fatto conoscere all’epoca stessa della Restaurazione e si basa su documenti di valore incontrovertibile. Nel prossimo 16 ottobre si commemora il centoventesimo anniversario della esecuzione capitale dí Maria Antonietta’ perciò rievocare, sulla scorta del nuovo storico, l’interessante episodio rivoluzionario può avere un sapore di attualità. L’abate Emery, come è facile immaginare, non tardò a sapere che la regina era ospite come lui nella stessa prigione e valendosi del prestigio che si era conquistato potè, superate alcune difficoltà, avviare con lei una attiva corrispondenza. Il suo biografo dà per certo, sulla testimonianza stessa dell’Emery, che egli fece pervenire un giorno alla augusta prigioniera un biglietto concepito in questi termini: «Preparatevi a ricevere -la assoluzione oggi a mezzanotte; io sarò alla vostra porta e pronuncierò le parole sacramentali». Tenne la parola; a mezzanotte protetto dalla °scu rità, sostò davanti alla porta della cella regale, udì i sospiri e i singhiozzi della regina e l’assolse. Tutto ciò non era conosciuto al di fuori dove gli amici di Maria Antonietta prevedendo la sua immolazione imminente, risolvettero di tentare il colpo ardito di introdurre fino a lei un prete refrattario. Questa idea venne per primo alla vecchia signorina Fourchè che abitava con sua sorella in faccia alla chiesa di Saint-Merry e si era consacrata al sollievo dei poveri carcerati. Con le due donne abitava pure l’abate Magnin che si era dato, per sfuggire alla polizia, al piccolo commercio degli abiti smessi, e aveva assunto il nome di «signor Charles». La maggiore delle sorelle Fouchè aveva il libero

ingresso nelle carceri; la si riteneva una donna innocua, animata esclusivamente da spirito caritatevole, e poichè nelle sue frequenti peregrinazioni nelle case di pena non dimenticava oltre il soccorso ai detenuti anche le mancie ai carcierieri, si era fatta in quel mondo di dolori, di infamie e di durezze feroci una certa popolarità e si era attirata molte simpatie. Nell’Agosto del 1793 Maria Antonietta era stata trasferita dal Tempio alla Conciergene. La Fouchè ardeva del desiderio di avvicinarla e più volte aveva tentato di scoprirne la cella, ma questa era celata gelosamente. Un giorno ella si presentò al capo carceriere Richard domandandogli senz’altro di vedere la regina; quegli oppose sulle prime un rifiuto, ma poi che si vide tra le mani luccicare un pezzo d’oró cedette alle insistenze della donna e le diede appuntamento per la notte. Benchè fosse venuta, come era l’accordo, accompagnata dal «signor Charles» fu introdotta sola nella camera umida e oscura della regina, la quale, benchè fosse tardi vegliava ancora e accolse l’ospite con visibile diffidenza, non volle toccare i dolci che quella gli offerse e si accontentò di chinare il capo in segno di rassegnazione, allorché la Fouchè, congedandosi, le chiese se le permettesse di ritornare. E ritornò infatti parecchie volte, ma la regina non smise le sue arie diffidenti se non quando la Fouchè le parlò a bassa voce del progetto di farle tenere un prete refrattario. Si convenne che alla prossima visita la Fouchè avrebbe fatto in guisa che con lei venisse introdotto nella cella anche l’abate Magnin. Questi intanto non aveva perduto il suo tempo e assiduo nello accompagnare la Fouchè nelle sue visite alla regina, mentre ella da una parte, era impegnata a concertare il colpo, egli aveva cercato di lavorare l’arrendevole Richard dall’altra. Quando il carceriere si persuase che tali visite a «madama Capeto» non avevano niente di compromettente per lui che nè la pia visitatrice coi suoi, dolciumi nè il paziente suo amico con i suoi abiti frusti, erano gente da concertare una evasione, permise, dietro relativa mancia che i due entrassero dalla regina. Il primo, incontro di Maria Antonietta con l’Abate Magnin ebbe luogo in settembre, secondo le stesse testimonianze della Fouchè e dell’abate. Maria Antonietta non temeva più; sembra anzi che in quel tempo essa concepisse la speranza di una evasione; certo riceveva visite non soltanto dalla Fouchè e dal Magnin, ma da altre pie visitatrici. Fu la troppa arrendevolezza che dopo avergli fruttato un discreto capitaletto fu la causa delle disgrazie di Richard. Venne scoperto che un aristocratico era penetrato nella cella della regina e le aveva rimesso un biglietto nel quale i commissari vollero vedere un tentativo di evasione. Richard perdette il suo posto e la regina fu trasferita in un’altra cella più remota nel cuore della Conciergerie,., vegliata assiduamente dai gendarmi. La disgrazia di Richard desolò,la buona Fouchè. Si rimise però presto dal colpo e tentò di ottenere [p. 356 modifica]dai coniugi Bault, che ella conosceva da tempo, quello che aveva ottenuto dal loro predecessore Richard e fu tanto fortunata da indurli a permettere che l’abate Magnin potesse celebrare nella stessa cella della regina. D’accordo con loro venne fissata la notte in cui fossero di guardia i due gendarmi Lamarche e Prud’homme, due pii e ferventi cattolici, preparati all’atto audace dell’abate Magnin. / Questi si era procurato intanto un piccolo calice smontabile, un minuscolo messale e una piccola pietra d’altare portatile; la Fouchè apparecchiò le vesti sacre con dei veli e una tovaglia di lino finissima. Il tutto venne nascosto in una sacca di piccole dimensioni. Venuta la notte — si era in ottobre -- i Bault stessi vennero a prendere i due e condussero nella cella e ve li lasciarono. L’abate Magnin disposti in fretta tutti gli arredi occonenti si veste e prende a recitare le preghiere rituali. I due gendarmi avevano pregato il prete di associarli al grande atto che egli stava per compiere e assistevano in ginocchio alla, pia cerimonia. Giunto il momento della Comunione i quattro, la regina, la Fouchè e i gendarmi si avvicinarono all’altare per essere comunicati. L’abate Magnin rivolto dall’altare con l’Ostia tra le mani, vide la regina inginocchiata sulla stessa fila degli altri, umilmente: si ricordò che il rito le accordava il privilegio della precedenza, la chiamò più presso l’altare e le porse l’Ostia, poi discese e comunicò gli altri. Fu questo l’ultimo incontro di Maria Antonietta con l’Abate Magnin. Questi s’infermò gravemente pochi giorni dopo e dovette per un po’ di tempo astenersi dal servizio delle anime. La Fouchè introdusse dalla regina un altro prete, il quale, nella notte del 13 ottobre, cioè alla vigilia della sentenza del tribunale, le portò in una teca di argento un’Ostia consacrata. Era l’abate Cholet, vandeano: compiuta la sua missione, egli sapendosi cercato a morte, lasciò la Francia e riparò in Inghilterra. Il racconto di questa fortunosa e meravigliosa avventura si deve allo stesso abate Magnin. Il Pisani che lo ricorda e lo rinarra coi colori suggestivi che la sua penna sa stemperare mirabilmente, discute finemente il valore della testimonianza dell’abate Magnin e conclude che esso non solo è ineccepibile, ma è altresì confermato da altri documenti di valore indiscutibile. L’abate Magnin tenne segreto l’episodio per più di venti anni, finché, venuta la Ristaurazione, gli fu ingiunto dall’arcivescovo di Parigi di renderlo pubblico. Ricevuto alle T uileries dalla figlia di Maria Antonietta, che gli aveva fatto ottenere la cura di St. Germain, parrocchia della Corte, egli narrò tutti i particolari dei suoi colloqui con l’infelice regina, poi ne scrisse relazione intera e particolareggiata, confortandola con le testimonianze della signora Bault che viveva ancora. Così la comunione di Maria Antonietta alla vigilia del patibolo è un fatto certo e come tale va collo

cato nell’intreccio emozionante degli episodii che si svolsero in quel periodo storico della Rivoluzione francese in cui urtarono passioni violenti, odii feroci ed eroismi sublimi. Ruth.