Il buon cuore - Anno XIII, n. 36 - 7 novembre 1914/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIII, n. 36 - 7 novembre 1914 Religione

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Il santo degli infermi


Siamo a Roma nel 1569, all’ospedale di S. Giacomo. L’antico asilo aperto dai cardinali Pietro e Giacomo Colonna a tutti i dolori a tutte le miserie, intesse già da tre secoli la sua vivente apologia della carità cristiana; è vecchio, vecchio d’anni, d’opere e di gloria, e geme sotto il peso dei premi e degli onori. Da cinquant’anni Leone X gli ha conferito il grado di Arcispedale, lo ha arricchito di privilegi, lo ha messo a capo di tutte le istituzioni congeneri della città. Il veterano della carità è sulla china della decadenza; il nosocomio, che era agli altri esempio e modello, non vigila più, non dirige più, e lascia che anche nelle sue corsie le cose vadano come Dio non vuole.

Gli storici del tempo ci tracciano dell’inteno degli ospedali quadri assai foschi, ci narrano cose quasi incredibili per chi avvicina quelle ombre alle luci che sfolgoravano dalle faci di carità accese negli Oratorii e nei Ridotti degli Incurabili, alimentate dall’ardore inestinguibile di Caterina da Genova, di Gaetano da Thiene, di’ Filippo Neri. Gli infermi af fidati a mani e cuori mercenari, avvicinati e serviti senza amore e senza regola più secondo la natura del loro male che secondo la gravità della loro sciagura; sfuggiti quelli che languivano per mali ripugnanti é contagiosi, ridotti quasi a morir di inedia per mancanza di chi somministrasse loro il cibo; uguagliati tutti nel disprezzo, nel vilipendio, nelle ingiurie che raccoglievano spesso in cambio del servizio umilmente richiesto: poca o nessuna cura dei moribondi,

sicchè avvenne non una sola volta che fossero portati nella cella mortuaria non spenti ancora. Nel clero, stesso si notava un profondo orrore per gli ospedali guardati come luoghi di esilio e di castigo. A tal punto era ridotta la carità ospitaliera a Roma che fin dagli albori del cristianesimo aveva aperto ad essa le ville di Agnese di Fabiola, di Lucina, di Galla. Ma non era che una fugace decadenza, un breve inverno che doveva preludere a una precoce fiorente primavera.

Alle porte del maggiore degli ospedali romani, dell’Arcispedale di S. Giacomo, picchiava in quell’anno un giovane mal vestito, alto e forte della persona, ma stanco, esausto da un lungo cammino. Chiedeva ospitalità e cure per una piaga ostinata che gli.martoriava una gamba, e lavoro per campare.

Si chiamava Camillo De Lellis e veniva da Aquila.

Era nato diciannove anni innanzi a Bucchianico, presso Chieti, da una famiglia antica e resa illustre da una lunga discendenza di uomini di chiesa, di lettere, di toga e di armi: era orfano di padre e di madre. Suo padre era stato soldato e aveva raggiunto nella milizia un alto grado, guerreggiando in quasi tutta l’Italia, a Napoli, a Firenze, nel Lazio, nel Piemonte, nella Capitanata. E aveva avviato il figlio per la stessa carriera, incamminandosi con lui, appena questi aveva toccati i diciotto anni, verso Venezia, per condurlo a combattere contro i Turchi: ma il vecchio guerriero era caduto ammalato e a S. Elpidio, sulla via del ritorno, moriva. Camillo si rimise solo in viaggio verso gli Abruzzi; ad Aquila si presentò ad uno zio, guardiano del convento di S. Bernardino, gli espose il proposito formato lungo il viaggio di farsi religioso Francescano, e gli chiese che lo accogliesse nel suo convento. Ma lo zio non credette al proposito del nipote, e lo rimandò con dei buoni consigli: che si curasse la salute, poi si vedrebbe. E Camillo aveva ripreso il suo lungo pellegrinaggio, ed era venuto a Roma, spinto da una segreta irrequietudine, assilato da un oscuro tormento: qualche cosa che fin da, allora gli parlava nell’animo, una parola incomprensibile e ancor misteriosa.

Camillo fu ricevuto a S. Giacomo come inserviente; ma il giovine generoso, il soldato ribelle non po- [p. 282 modifica]teva adattarsi alla compagnia dei mercenari che servivano quel tempo l’ospedale: ed ebbe presto delle brighe coi colleghi. Aveva una passione, il giuoco, che lo faceva cadere nelle stesse negligenze che egli forse rimproverava agli altri. Fu ammonito, castigato,licenziato. Camillo ritornò alle armi, andò a Venezia. Inibarcatosi sulle galee della Repubblica, veleggiò verso Lepanto; ma dovette sbarcare a Corfù per una malattia the lo ridusse in fin di vita. Guarito, ritornò a bordo e riprese la sua vita avventurosa: a Castelnuovo presso le bocche di Cattaro sostenne il fuoco dei Turchi; fu alla difesa di Tunisi e di Goletta; a Zara sfidò a duello un suo camerata, ma la vertenza ebbe fine incruenta, non per interposizione di secondi, ma per l’energico e sbrigativo intervento di un terzo, un ufficiale; a Capri corse pericolo di naufragare; fra Napoli e Palermo fu tre giorni e tre notti in balia delle onde, sconvolte dalla tempesta. A Napoli le truppe furono licenziate, Camillo rimase senza soldo, con la febbre del giuoco che ancora lo bruciava, e giuocò tutto quel poco che gli rimaneva: la spada, l’archibugio, i fiaschi della polvere, il mantello, gli abiti che aveva indosso. Ridotto a chieder l’elemosina si mise a correre il inondo in cerca di fortuna, finché trovò la,sua via di Damasco nella strada di Manfredonia. Solo, nella campagna solitaria, riandando gli anni passati, guardando all’oscuro avvenire cui andava incontro, illuminato da una divina luce interiore, lesse nella.propria coscienza: la parola misteriosa che gli parlava da giovinetto nell’anima si scoprì, si’ rivelò, si fece chiara e imperiosa. Aveva venticinque anni, quando entrò come novizio nel convento dei cappuccini a Trivento, che dovette presto abbandonare per venir di nuovo a Roma a S. Giacomo a farsi curare la piaga che si era riaperta. A S. Giacomo conobbe e coltivò l’amicizia di Filippo Neri; guarito ritornò a Trivento; ma si riammalò; fu dichiarato non idoneo alla vita dell’Ordine Francescano; ed eccolo nuovamente a Roma, a San Giacomo, ove iniziò il suo apostolato fra gli infermi. per gli infermi. A S. Giacomo fu accolto, come si direbbe oggi, nel personale del nosocomio, con l’ufficio di maestro di casa. Egli si diede subito a riordinare, a riformare, ma specialmente ad educare. Radunava gli inservienti, parlava loro come si dovessero curare e trattare i malati e insegnava più con l’esempio che con la parola, facendosi egli stesso infermiere, assistendo con le sue mani i ricoverati, lavando, curando i più infelici i più ripugnanti. Esortava, vigilava, eseguiva per primo le disposizioni e gli ordini che dava: rimise così un po’ d’ordine e un po’ di pulizia nelle corsie; suscitò un po’ di carità verso i malati; ma il male era profondo e bisognava sradicarlo dalla radice: occorreva sottrarre l’ospedale alle mani dei mercenari. Camillo De Lellis pensò, studiò, meditò: il rimedio non poteva essere diverso da quello classico del Cristianesimo: un sodalizio di uomini di buona vo lontà, animati dalla fede e dall’amore, uniti dai vincoli della carità. L’ordine dei ministri degli infermi nasceva nella mente del suo fondatore: non restava che formarlo, ordinarlo, disciplinarlo. L’ospedale stesso fornì al De Lellis i,primi compagni, il primo nucleo della futura grande famiglia. Catechizzati, istruiti, formati da Camillo ben presto uscirono da S. Giacomo e ’si sparsero per gli altri ospedali e per le case ove fossero ammalati. La cosa nuova ebbe, da principio, le accoglienze di1utte le cose nuove: i misoneisti sono di tutti i tempi. Camillo fu guardato con sospetto,’ fu accusato di farsi dei proseliti per impadronirsi dello spedale: i direttori se ne adombrarono, lo rimproverarono, gli ingiunsero di abbandonar tutto, e fecero metter sottosopra la stanza ove egli soleva adunarsi coi suoi discepoli: Tutti gli uomini che hanno fatto e fanno il bene hanno conosciuto queste miserie, hanno vissuto questi dolori. Le persecuzioni non fecero che rendere più tenace il proposito di Camillo, e più salda la sua fiducia nel trionfo della sua causa che era la, causa dei poveri e dei derelitti. Egli perseverò tenace nel suo disegno: incuorò i timidi, tenne a freno temerari, secondò gli audaci, condusse a termine nella preghiera, ’nello studio,,néll’esercizio della carità la ’faticosa preparazione. Riprese gli studii lasciati alla prima adolescenza, tornò a trentadue anni sui banchi della scuola, studiò teologia e fu ordinato sacerdote. Intanto la sua anima, la sua tempra si formavano nell’assistenza ai malati. Passata coi suoi seguaci alla Madonna dei Miracoli a Porta del Popolo, Camillo De Lellis diede forma e disegno alla sua Congregazione già formata nello spirito’ e nelle opere; e con l’e regole che dettò per la sua Famiglia disciplinava quella riforma degli ospedali che più che diretta fu eseguita, vissuta da Camillo e dai suoi compagni, e fu universalizzata più dall’esempio che dai regolamenti. Crescendo il numero dei discepoli, ben presto la casa attigua alla Madonna dei Miracoli fu piccola per la già numerosa famiglia, e Camillo passò ad una casa in via delle Botteghe Oscure, donde emigrò nel 1586 alla Maddalena, che divenne la Casa Generalizia, del nuovo Ordine, che sì diffuse ben presto in tutta Italia, rinnovando ovunque con la riforma ospedaliera i prodigi della pietà cristiana. Camillo De Lellis peregrinò, seguendo il cammino della sua Congregazione, in molte città d’Italia, ma il campo ove più a lungo rifulse la sua opera di carità e di sacrificio fu Roma, ove combattè le più aspre delle incessanti battaglie che egli ingaggiò contro i mali più terribili: contro la peste, contro la carestia. Memorabile fu il morbo che nel 1589 scoppiò in Roma al monte. Quirinale e nel rione popolare di S. Maria degli Angeli. In molte case giacevano nello stesso letto padre, madre, figli senza una mano pietosa che porgesse loro aiuto; e a migliaia e migliaia morivano i colpiti o per la violenza del male, o per mancanza di soccorso. Camillo De Lellis coi [p. 283 modifica]suoi religiosi fu primo tra i primi nella lotta impegnata contro il morbo e la moria. Andava e guidava i suoi discepoli presso i malati, assistendoli, curandoli, governandoli, cibandoli. Passava di porta in porta a distribuire medicine, pane, acqua; ova, carne, vestimenta: quando occorresse a quei miseri derelitti. Nelle ’case ove tutti:erano attaccati dal male, egli e suoi religiosi si sostituivano ai fainigliari nella cura domestica. Nell’Ospizio di S. Sisto morirono in poco tempo tremila persone; Camillo con otto dei suoi discepoli piantò ivi le sue tende, e durò notte e giorno nell’immane e impari lotta contro il male: ben cinque dei, suoi discepoli incontrarono serenamente la morte, attaccati dal morbo, martiri del sacrificio. Non bastando l’Ospizio a contenere 1 numero dei malati, Carriillo prov, vide a sfollarlo: prese in affitto a suo carico, un ampio granaio, lontano dall’abitato, e quivi condusse i più gravi. Per proVvedere il nuovo asilo di mas-, serizie, di, viveri, di medicina, occorreva danaro; e Camillo non interrompeva la sua opera diuturna di infermiere che per correre le vie di Roma, stanco, affamato, mal fermo in salute, raccogliendo offerte e limosine, salendo le scale del palazzo patrizio, fermandosi all’umile porta del tugurio i cui abitanti il contagio della carità da lui diffusa rendeva generosi oltre le loro forze. ’L’inverno’ del 159o-91 fu terribile per i poveri di Roma, anche per il freddo rigidissimo e la spaventosa carestia, che devastò Roma: tanto che fra la,cit"tà e la campagna ne morirono diverse diecine di migliaia, Camillo De Lellis provvide i poveri di vesti, e di cibo; giunse talvolta a spogliarsi dei suoi abiti per vestire quei miseri tremanti di freddo; e quattrocento persone poterono essere ogni giorno nutriti al convento dei ministri degli infermi. Molta gente, per,proteggersi dal freddo, si riparava nelle stalle, nelle grotte, tra i ruderi di Roma antica, ove morivano di miseria e di fame. Là_ andò a rintracciarli Camillo seguito dal suo manipolo di discepoli, recando loro vesti e alimenti, rifocillando. sul posto i sani, conducendo agli ospedali o al convento gli inferini; e spesso’ si doveva provvedere anche a. trasportare al cimitero dei cadaveri Di tali eroismi, che egli rinnovò a Milano, a Torino; a Noia, ovunque infierissela pestilenza o imperversasse la carestia, in un continuo pellegrinaggio di amore, è intessuta tutta la vita di Camillo De Lellis, che passava dall’ospedale alla strada, dalla strada all’ospedale,;n una continua sollecita vigilia di carità, finche, consumato dal suo ardore, dalle sue fatiche, morì in Roma, nella Casa Generalizia dei suo Ordine, la sera del 14 luglio 1614. Il popolo tributò alla sua salma gli onori che spettano agli eroi di Cristo: Benedetto XIV compì e sanzionò l’apoteosi popolare, decretandogli l’onor degli altari e canonizzandolo solennemente. Riassumerne nel breve spazio di un articolo’ la vita operosissima, feconda di insegnamenti e di rinnovazioni, rievocando insieme. la figura di, apostolo,

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di riformatore, di soldato di Cristo, di legislatore del-. la carità, sarebbe stata assurda pretesa: ma era doveroso profilarne in poche, incerte e sbiadite linee la gigantesca figura, oggi che Roma ne celebra il terzo centenario. La sua opera è giunta fino a noi, è ancora viva fra noi: e in questa possiamo meglio conoscerlo. E’ tutto il grande, colossale edificio della carità moderna, di cui vanno orgogliosi i nostri tempi. Camillo De Lellis non è il solo che vi abbia lavorato attorno, chè tutto uno stuolo di grandi e prima e dopo di lui, e insieme con lui, vi portarono la loro pietra; ma la sua impronta è, come l’impronta. degli altri, chiaramente visibile e nitidamente &finCamillo De Lellis, senza doti eccezionali d’ingegno, senza vasta coltura, poco disserendo, molto operando, fu un suscitatore di energie, un educatore di anime, un riformatore e un legislatore della carità: e fu tale semplicemente, umilmente. C’è oggi molta gente che studia scientificamente il fenomeno del pauperismo, indaga, scruta, Coglie nelle’ cause più profonde, nelle origini più oscure e lontane il problema della miseria, stampa libri, accumula volumi,,moltiplica le cdnsultazioni, rinnova le inchieste, appronta tavole statistiche dense di cifre, traccia quadri grafici irti di linee enigmatiche; e non riesce, quando riesce, che ad organizzare della beneficenza, della filantropia..... InChiniamoci dinnanzi all’uomo pio semplice ed umile, che non ebbe altra ricchezza che quella del suo cuore, che non conobbe altra legge, altra guida, altro lume che l’amore, e meditiamo. PIETRO MELANDRI

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SOVRANITÀ DA LEGGENDA

La regina d’Albania Se mai vi fu epoca poco favorevole allo sviluppo delle leggende è senza dubbio la nostra, non solo quella dei nostri *giorni; ma anche dei più prossimi cinquantenni. Eppure di tanto in tanto, le sorti dei popoli e anche quella degli uomini, di taluni uomini per lo meno, è travolta nell’inatteso, nel fantastico, nell’avventuroso come in una vecchia fiaba; finchè la più comune realtà costituita e resa invincibile dall’accumularsi dei secoli, che hanno gradatamente elevato la forza della collettività per attenuare quella degli individui — soli possibili protagonisti delle leggende — fa giustizia o ironica o catastrofica dei più pittoreschi elementi. Qual’è il motivo dominante delle favole belle che attraggono ed esaltano ’i ragazzi? Quasi esclusivamente la prodigiosa creazione di principi, di re e di regine. Dalla piccola «Cenerentola» che lascia il focolare e trova al ballo il principe innamorato, alla bionda «Stellina» smarrita nel bosco, la reggia è la fine e lo sfondo dei maliosi racconti. Del resto, [p. 284 modifica]in tempi molto remoti, la storia creava davvero uno di quei fatti che la leggenda moltiplicava fantasticamente; e un povero diavolo purché prode soldato, e una donna purchè bella, potevano giungere anche al trono. Oggi tutto al più, un assiduo lavoratore, nascendo in America, può diventare re.del (dardo» o del ((carbone»: ma ciò non è punto poetico e leggiadro a raccontare. In Europa, invece, ove si accoglié il maggior numero di re, accade di tanto in tanto, che si crei qualche sovranità nuova, sovranità che per non essere consacrata da una vecchia tradizione, la quale fa gravare sul regale manto il peso dei secoli, ha quasi infallantemente la fragilità e la leggiadria fantasiosa dei troni di leggenda. Non è infatti una bella favola quella di Giuseppina di Beauharnais, la giovane creola, cui una zingara, guardandole la mano, predice l’impero? (( Tu sarai regina, ma dovrai fare un grande viaggio per cingere la tua corona». E la vaticinata fanciulla, che appunto sta per abbandonare la nativa isola della Martinica, sorride al folle presagio, e quasi lo dimentica attraverso le vicende della sua vita in Francia. Sposa un ufficiale valoroso che la lascia vedova, ne sposa un altro che si chiama Napoleone Bonaparte. Giuseppina viene così di un tratto assunta in una luce di fasto e di gloria che pochi novellatori avrebbero saputo immaginare. Senonchè la fine della fiaba è triste, chè alla sovranità improvvisa manca una ragione storica, quella cui i nostri antichi davano carattere sacro e sovente pericolosa. I nostri tempi come dicevamo poc’anzi, possono tutto al più tentare di ordire le fiabe belle, ma raramente le sanno condurre a compimento. Un’altra leggenda poetica e maliosa, un altro fantastico sogno regale sorride un girno intorno al turrito castello di Miramar. La sovranità attendeva oltre Oceano i due giovani sposi del solingo castello. Ed essi andarono ed approdarono fra nembi di fiori e fra clamori di gioia. Le feste avevano tessuto per il biondo capo -della donna avventurosa, nascostamente inaspettatamente il serto di regina; gli uomini ve lo premettero su così forte da suggerne • il cervello. Ed ora, pur sperando, desiderando, che la densa nuvola minacciosa si dissolva, e che i sovrani di Albania possano tornare sereni étranquilli al trono chè non avevano sognato, io penso malinconicamente alla Principessa di Wied. Chi nel tranquillo solitario castello andò, a parlarle di regalità? Ella era già sposa e madre felice, e non aveva mai pensato ad un trono. Ed ecco come in un sogna, fantastico vengono a dirle ch’Ella deve entrare nelle brave famiglie dei sovrani di Europa; che l’aspetta una corona; che i suoi figliuoli saranno sovrani. ’Che poteva o sapeva comprendere lei dalla sua tranquilla dimora, dei secolari spiriti turbolenti del paese che le offrivano il diadema regale? Certo qualche cosa di più ne sapeva suo marito che esitava, mentre ella confidava attratta, •come sarebbe stata, ogni donna,) da quella fantastica luce avventurosa in cui le appariva il nuo vo sogno,.balenante tra le brume fredde’ dell’antico maniero. La sorte sceglieva lei,quasi ignorata finora, per farla regina; come non ubbidire all’iterato richiamo? — Io amerò i miei sudditi maternamente — ella pensava-- ed essi dovranno volermi bene. L’Europa intiera ci sostiene poichè lo ha promesso, e la civiltà deve pur vincere la pervicacia e la barbarie del popolo che sarà mio. E mentre lei si preparava alla nuova missione, persone più Sagge e più gravi persuadevano il futuro re. Così la giovane coppia andò nella terra degli eterni rancori. E qui subito, l’ignoto il pericolo si parò loro dinanzi. La regina ha fatto di tutto per attuare il suo programma nobilissimo di donna moderna colta ed attiva. Ha visitato ospedali, scuole; ha detto parole gentili e di materna pietà. Nel momento del pericolo — così ha scritto il nostro corrispondente — ha saputo conservare il sangue freddo; ha subito compreso quale contegno assumere per il suo nuovissimo grado. E benché grave fosse la mnaccia incombente su lei, come sul re, ha cercato sino dove ha potuto essere utile agli altri. Ella volle recarsi alla scuola italiana trasformata in ospedaletto da campo per visitare i nazionalisti feriti; per esprimere la sua gratitudine e la sua commozione. Interrogò, consolò, esortò. Offrì aranci, cognac, acque minerali, tutto ciò di che poteva disporre. Nel momento in cui la sua non chiesta regalità era più minacciata, ella seppe, con quell’intuito e quella nobiltà propria delle più nobili anime femminili, essere più regina. Eppure Maria di Wied era stata ed è ancora una buona massaia nel senso tedesco, che è quanto dire perfetto della parola. Qualcuno ha osservato che in certi momenti difficili essa è meno sgomenta dello stesso sovrano, forse perchè non consapevole del periglioso groviglio e delle vere condizioni dell’interno dell’Albania. Ma forse per questo già sovra il suo gentile capo, di donna si fanno cadere molte responsabilità. Poiché il re si confida e con lei, ggni atto impolitico viene attribuito a lei, a lei che ignora, che non può ignorare tante oscure trame, tante insidiose vicende e che solo sa, come un giorno dal suo castello, ella sia stata chiamata per essere regina, e che perciò ha tutte le ragioni di credere che chi le ha offerto il dono, sappia conservarglielo. Ma la vecchia Europa è così. Fabbrica ancor:’ qualche bell’avvenimento degno di un bel raccorn ) di fate, ma poi non sa, o non facilmente • si sobbarca alla fatica di disponerne tutto il filo sottile. Molti dovranno fare da sè i giovani sovrani di nuovissima data. E quando gli eventi avranno dissipato i terrori e le tristezze di questo tragico periodo, il trono non apparrà più ad essi un regalo fantastico. ma qualche cosa di faticosamente conquistato. Il regno venuto improvviso come in una fiaba non avrà più il pittoresco e fantastico aspetto con che sor [p. 285 modifica]rise alla principessa,. quando viveva nel sédingo castello. Ma allora sarà più saldo, Più degno di essere amato e sostenuto faticosamente. E la regina di Albania vivace, intelligente e fidente potrà allora so!tanto giudicare se esso valga di più della sua vecchia dimora tranquilla. TERESITA GUAZZARONI.