Il buon cuore - Anno XIV, n. 20 - 15 maggio 1915/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIV, n. 20 - 15 maggio 1915 Religione

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I versi imitativi


In tutti i trattati scolastici di elocuzione o di rettorica, e in particolar modo nei trattati di versificazione, si discorre più o meno della dosi detta «armonia imitativa» mediante la quale i poeti, col suono delle parole, cercano di imitare in qualche modo i suoni e le voci della natura.

In questi trattati si trovano immancabilmente ripetuti i soliti esempi, il

Procumbit humi bos....

e il

Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum

di Virgilio, che pronunciati dal professore di ginnasio nella sua classe con voce adattata, fanno sentire agli stupefatti studentelli il cadere pesante del bue al suolo e il galoppare del cavallo. E il bravo professore non manca mai di far sentire ai suoi allievi il suono della tromba nei famosi versi del Tasso:

Chiama gli abitator dell’ombre eterne

Il rauco suon della tartarea tromba,

e il guaire della cagnolina in quelli del Parini

Aita, aita

Parea dicesse, e dalle arcate volte

A lei l’impietosita Eco rispose.

Di queste imitazioni se ne debbono, distinguere due sorta. Quelle ottenute con parole che più o meno riproducono il suono che vuolsi imitare, ma nello stesso

tempo esprimono un pensiero. E’ evidente che le imitazioni di questo genere, quando siano ben trovate, conferiscono grande bellezza alla poesia. Nell’ultimo esempio sopra citato, le parole aita, aita, sembra ci facciano proprio udire il guaito della cagnolina colpita dal «villan piede» del servo. Se il poeta avesse detto invece, per esempio, guaì, guaì, l’armonia imitativa l’avrebbe ottenuta egualmente, ma avrebbe espresso un pensiero assai comune, perchè chiunque è capace di pensare che un cane al ricevere un calcio guaisce.

L’altro genere di imitazione dei suoni è invece ottenuto con voci che non sono registrate nei dizionari perchè di per sè non significano nulla, e possono andare all’infinito. Tra esse ve ne sono alcune assai in uso come din, don, din, dan, per esprimere il suono delle campane chicchirichi, con cui viene imitato il canto del gallo; rataplan, che riproduce il rullar del tamburo, ecc.; ma altre innumerevoli sono di solito create per l’occasione dal poeta, il quale, in tal guisa può fabbricarne quante ne voglia; e siccome in realtà non esprimono alcun pensiero, non essendo altro che un suono vuoto, avviene per queste onomatopee ciò che avviene per la musica, che ognuno la interpreta come la sente. Il più allegro valtzer di Strauss può invece dell’allegria eccitare il pianto in chi si trova in un dato stato di animo, e nella stessa guisa in poesia un verso imitativo, composto nel modo ora indicato, può produrre effetti assai diversi di quello cercato dall’autore. Per esempio, nella Bufera del Pascoli il verso

uuh... uuh... uuh...

con cui termina ogni strofa, invece del senso di lugubre terrore ché il poeta ha inteso con esso di suscitare, potrebbe specialmente se la poesia fosse recitata da un lombardo, suscitare l’ilarità.

Si capisce anche che i versi imitativi di questa seconda specie, sono più facili che non quelli della prima specie, e perciò abbondano nella poesia popolare. Il Parzanese nel suo Fabbro ferraio finisce ogni strofa col verso:

Ton ton tan tà, ton ton tan tà;

chiude quelle della poesia La Campana col ritornello:

Dig din, dog don,

[p. 154 modifica]T’allegra, o povero, questo è il tuo suon. e quelle del Vecchio Sergente; con Rataplan, rataplan, rataplà. Chansons anciennes à quatre voix pubbliNelle cate da Nicolas Chemin a Parigi nel 1551, si trova questa strofa meravigliosa: France! France! France Courage! courage! donnez des horions. Patipatac trique trac zou zou trinque trac Tue, tue, tue, chipe, chape! nella quale l’autore ha voluto imitate il frastuono di un combattimento, come del resto è ben chiarito dalla parola tue, tue, ammazza, ammazza! Precisa mente come certi disegni. si capisce benissimo ciò che vogliono rappresentare, purchè vi sia scritto sotto. In questo genere di armonie imitative molto si sonò sbizzarriti i poeti maccheronici. Il francese Frey cosi descrive il suonare a sturino delle campane in una sommossa: Extemplo esmeutae signum toxinus ab alta Turre strepens, rauco quassatae murtnure clochae Tin tan tin iterans, din don don donque sonabat! e un poeta spagnuolo imitò come segue il rimbombo dell’artiglieria in una battaglia: Horrida per campos bam bim bombarda sonabant. Anche l’antichissimo poeta Ennio si era permesso una onomatopea di questo genere volendo esprimere il clangore della tromba; ma il noto verso che lo contiene, potrebbe essere scambiato anch’esso per uno dei più bei parti dei poeti maccheronici: At tuba terribili sonati taratantara dixit. Questo genere di imitazione armonica se può passare nella poesia popolare e se talora può riuscire efficace nella poesia scherzosa, è assolutamente fuori di posto nella poesia che vuol essere nobile e seria. In tutta l’opera poetica del Carducci, di simili onomatopee non si trova che il qua, qua, qua, delle oche nel Canto dell’Italia che va in Campidoglio, ma è poesia terribilmente satirica. Similmente J. J. Rousseau, con analogo artificio, imitando del resto Aristofane, ha cercato di riprodurre il gracidar delle rane, ma in una poesia del tutto giocosa: Aussita la bète aquatique Du fond de son petit thorax, Leur chante pour toute rnusique Brre ke ke ’kex, koax, koax. I.es compagnes criaient: merveilles! Et toujours fiere comme Ajax Elle cornait à leurs oreilles: Brre ke ke kex, koax, koax.... Forse non è stata a torto rimproverata al Pascoli la sua esagerata tendenza alla espressione musicale che- gli fa adoperare certe onomatopee arditissime, quali l’uuh... accennata più sopra, e lo fa giungere sino a voler tentare di riprodurre con dei sci/p, dei chif4, dei vitt, dei videvitt le voci di varie specie di uccelli, scrivendo per esempio:

Virb... disse una rondine e a volere persino significare inafferrabili suoni come: St... un rumore... Che cosa? Nulla: un, tarlo, un brandir lieve di porta. Si deve osservare per altro che il Pascoli è poeta di tempra assolutamente speciale. «Non esito ad affermare’— scrisse di lui il professor Vittorio non esito ad affermare che in lui l’espresCian sione musicale prepondera su tutte le altre, perchè più ancora che i colori, esercitano sull’anima sua di artista un fascino potente i suoni. E ciò mi ha confermato egli medesimo. Lo direbbero oggi, un uditivo; più semplicemente io direi che egli ha buon orecchio, che ha fine, squisito il senso dei suoni.» E invero certe poesie del Pascoli sono tutte un mirabile ordito di imagini musicali oltre che pittoriche, e spesso e molto bene egli dimostra di non aver bisogno di fabbricare speciali onomatopee per fare dell’armonia imitativa. Cosi, senza bisogno di ricorrere anch’egli al koax, koax aristofanesco, come fa in Nozze, trascrivendolo per giunta in caratteri greci, mirabilmente riproduce altrove il gracidar della rana, quando gli piace, nell’inerzia estiva.....ascoltare le cicale al sole E le rane che gracidano: acqua, acqua! La tendenza di questo poeta a riprodurre o imitare i suoni anche con semplici voci insignificative, deriva da un fondo di ingenuità fanciullesca che si unisce ai suo forte ingegno e al suo fine sentimento poetico. Infatti, nelle onomatopee che il Pascoli tanto predilige, vi è sempre qualche cosa di fanciullesco e che sa di trastullo. Per questo appunto si riscontrano quasi esclusivamente nella poesia popolare e nella giocosa. Esse invero non sono che un residuo della primordiale origine del linguaggio, origine di cui anche nelle lingue più evolute si riscontrano le traccie in un gran numero di vocaboli onomatopeici. Del resto, tutti sanno quanto nell’imitare i suoni ed i rumori si dilettino i fanciulli, e tra le persone del popolo e incolte non è difficile trovare chi, senza alcuna idea certamente di fare della poesia imitativa, anzi servendosi della prosa più volgare, cerca di rendere sensibile allo spirito di colui che ascolta l’oggetto che egli vuole descrivere, quasi voglia fargliene udire il suono, farglielo vedere, garglielo palpare. Vi è chi si sforza di ottenere tale effetto intercalando ad ogni istante nel discorso dei zunfete, dei panfete. dei patatrac, dei tracchete, e via... vociando. Per costoro il tuonar del cannone è un bum; zun zun significa musica; tic tac è.il rumore dell’orologio, ecc. E’ cia notare però che anche insigni oratori, per colorire e per dare forza al loro dire, non isdegnarono, parlando a un rozzo pubblico, di ricorrere a simili fanciullesche espressioni. Presso i popoli latini i predicatori, pur ricorrendo volentieri ad artifici oratorii in generale, hanno avuto ispirazioni abbastanza allegre. Un predicatore [p. 155 modifica]francese del Seicento, Oliviero Maillard, per invocare una generosa colletta a favore delle anime del Purgatorio, disse un giorno dal pulpito che quelle anime, allorquando odono il suono delle monete che vengono date per esse, e che cadendo nel bacino fanno: tin, tin, tin, si mettono a ridere. e alla loro volta a ogni tin tin fanno ha! ha! ha! hi! hi! hi! A proposito di aneddoti praedicatoriana, eccone uno abbastanza ameno che si può leggere nei Sermones dottissimi Joannes Raulini ordinis ’cluniacensis. Nella sua terza predica sulla vedovanza, il «dottissimo uomo» racconta nel suo facile latino di sacristia di una certa vedova che andò a consigliarsi dal suo curato se dovesse rimaritarsi, allegando che si trovava senza aiuto, e che aveva un servo peritissimo nell’arte del suo defunto marito: Il curato le disse: • Ebbene, sposalo. Ma la donna gli rispose: E non correrò pericolo, sposandolo, (li farmi dei mio servo, un padrone? E il curato: -- Ebbene, non sposalo. - E come farò a sostenere il peso che mio marito sosteneva se non mi rimarito? E allora sposa quel tuo servo. — ’ Ma se poi facessi cattiva riuscita? Se vorrà usurpare, consumare i miei beni? E allora non sposarlo! Et sic semper curatus iuxta argumenta sua concedebat ei. Vedendo -finalmente il curato che quella vedova aveva una gran voglia di sposare il servitore, le disse di ascoltare bene attentamente che cosa le avrebbero detto le campane della chiesa e di regolarsi secondo il consiglio che le avrebbero dato. Essa ascoltò il suono delle campane, e tutta lieta udì che proprio secondo il suo desiderio le dicevano: Spo-sa-lo!.S’po-sa-k! Fatto il matrimonio il servo si mise a bastonare la padrona diventata sua moglie: servus egregie verberavit eam et fuit ancilla quae prius erat domina. Allora essa tornò dal curato, per consiglio, maledicendo horam que erediderat ei. Ma egli: Non hai udito bene quello che le campane ti dicevano. E afferrate le corde delle campane, si diede a suonarle. Essa allora udì benissimo che le dicevano: Non spo-sar-lo! Non spo-sar-lo! Tunc enim vexatio dederat ei intellectum, aggiunge a guisa di morale l’ameno predicatore. Riguardo alle onomatopee si può aggiungere ancora che uno stesso rumore, un medesimo suono*parrebbe che in ogni paese e in ogni epoca dovesse venire espresso nello stesso modo, cosicchè per queste voci almeno dovrebbe esistere una specie di lingua universale. Ma non è così. Per esempio, il canto del gallo nel seicento veniva imitato in Italia colla voce ono 155

matopeica cuculicu, come si può vedere nel libro primo dei dieci in cui è digesta la. Musurgia Universalis, sive Ars Magna consoni et dissoni del celebre padre gesuita Atanasio Kircher. Adesso invece. quello stesso suono noi lo riproduciamo colla voce onomatopeica, chicchirichì; i francesi lo esprimono con un cocoricà,. che nel vecchio francese era coquerycoq, e gli inglesi con cock-a-doodle-do. Il,suono del tamburo noi lo riproduciamo con rataplan; i francesi press’a poco come noi: ran plan plan, rataplan; gli inglesi, invece, assai diversamente lo. esprimono con rub-a-ditb-dub, e i vecchi tedeschi rn•re lo esprimessero col pumerle. pump. Non sarebbe forse privo d’interesse estendere a molte voci e presso molti’popoli questa ricerca comparativa.