Il buon cuore - Anno XIV, nn. 35-36 - 4 settembre 1915/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIV, nn. 35-36 - 4 settembre 1915 Religione

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Buscido, il codice etico dai Giapponesi


Il Giappone possiede nel Buscido un codice etico, di cui fu difficile formarsi un’idea per la mancanza di libri adatti che lo illustrassero.

Letteralmente la parola Buscìdo significa maniere cavalleresche militari, cioè «precetti di cavalleria»; perché in sostanza il Buscìdo una raccolta di massime che i nobili guerrieri, o Samurai, dovevano osservare nella loro vita ordinaria e nella loro professione di guerrieri. Tuttavia non si deve credere che il Buscìdo rappresenti semplicemente il vecchio codice cavalleresco della nobiltà giapponese; esso è più altamente comprensivo, e può definirsi come l’equivalente giapponese di ciò che le nazioni cristiane chiamerebbero Verità Infinite come la cristallzzazione per così dire, dei principii morali di tutti gli insegnamenti religiosi. Buscìdo è l’«Anima del Giappone» la quale produce e vivifica ogni forma e ogni espressione delle religioni giapponesi.

Per quanto diverse siano le sette, un vincolo comune le ricollega al Buscido; dacchè in esso sta scevra da dogmi, la vitalità fondamentale donde è derivata tutta la parte morale della religione indipendentemente dalla credenza nel divino: esso insegna gli elementi di ogni vera virtù, la rettitudine in pensiero e in azione.

Quali sono le origini del Buscìdo? Anzitutto fu il Buddismo a suggerire un sentimento di serena fede nel fato, ima quieta rassegnazione all’inevitabile, una stoica compoStezza in presenza dei pericoli e delle calamità, incuranza della vita e famigliarifà con la morte.

Poi venne lo scintoismo, che fornì molti degli elementi mancanti nell’insegnamento buddistico; inculcò la fedeltà al sovrano, il ricordo riverente degli avi e la pietà filiale. Degno di nota è il fatto che nei templi scintoisti il posto d’onore è dato a uno specchio piano, inginocchiandosi davanti al quale i devoti vedono riflessa la propria immagine; l’atto della preghiera in questi templi equivale alla ingiunzione delfica «conosci te stesso.»

Al popolo giapponese lo scintoismo insegna a riguardare la patria come «qualche cosa di più del suolo donde si può estrarre oro e raccogliere cereali; essa è la residenza degli Dei, degli spiriti dei, nostri cielo maggiori; per loro l’Imperatore personifica sulla terra e ne riassume in sè la potenza e la clemenza».

Oltre a queste due importanti fonti del Buscido bisogna ricordare gli scritti di Confucio e di Mencio che formarono i principali libri di testo della gioventù giapponese. Quei due pensatori provvidero la massima parte delle dottrine strettamente etiche de Buscìdo. Quanto ai principii essenziali che il Buscìdo ne trasse e da cui risultò costituito, sono pochi e semplici.

In prima linea sta la Rettitudine o Giustizia, il più importante precetto del Samurai. I sotterfugi e le torte vie ripugnavano alla sua mente,

Accanto alla rettitudine c’è poi Giri, letteralmente Giusta Ragione, che finì per significare il dovere verso i genitori, i superiori, gli inferiori, la società in generale, e cosi via. La pietà filiale offre uno dei più notevoli esempi di Giri.

Il coraggio era ritenuto appena degno di prender posto fra le virtù, a meno che non fosse impiegato in una causa di giustizia. Confucio lo definisce spiegando nel modo negativo in lui abituale che cosa esso non è: «Il riconoscere ciò che è giusto e il non metterlo in pratica dinota mancanza di coraggio.»

Una forte distinzione è fatta fra il mero coraggio fisico ed il coraggio morale. Un principe Samurai disse una volta: «Lo slanciarsi nel più folto della mischia e farsi uccidere è una impresa abbastanza facile che il più rozzo degli uomini sa compiere, ma il coraggio vero sta nel vivere quando è giusto che si debba morire.» Non si parlava di «grande valore» [p. 250 modifica]nel Giappone se non per intendere coraggio morale, e il titolo di «coraggio servo» era riservato unicamente alla bravura materiale. Tutti i figli dei Samurai erano allevati con metodo veramente Spartano e quindi non occorreva alcun insegnamento particolare intorno al coraggio fisico. Al coraggio tien dietro la Benevolenza e il sentimento della Pietà. Amore, Magnanimità, Affezione • per gli altri, Simpatia e Clemenza furono sempre riconosciuti dal Samurai come virtù supreme, come i più alti attribuiti -dell’anima umana. Ai giovani Samurai si insegnava inoltre a coltivare la musica e la poesia; non la musica delle trombe e dei tamburi,,la la dolce melodia degli strumenti a corda.,eitre;e poesie si occupavano delle bellezze (leva natura e del canto degli uccelli, piuttostó che di battaglie e di morte. Ciò che in Europa ha fatto il Cristianesimo per mitigare gli orrori delle guerre, nel Giappone è stato fatto dall’amore per la musica e per le lettere. ’Da tutti i seguaci del Buscìdo si ammetteva gran peso alla Gentilezza e al rispetto dei sentimenti altrui. sebbene non fosSero considerati all’altezza di vere e proprie virtù. «La gentilezza sarebbe una ben meschina dote se fosse soltanto il risultato del timore di offendere il buon gusto; essa invece deve essere la manifestazione ’di un simpatico riguardo per i sentimenti degli altri. Essa implica un giusto apprezzamento delle cose, e quindi un doveroso rispetto alle varie posizioni sociali derivate in origine, non da distinzioni plutocratiche ma da merito morale. Nella sua forma più elevata la gentilezza si avvicina quasi all’amore.» L’insegnamento della gentilezza (lette luogo a mi sistema molto elaborato di cerimonie. Il modo di condursi a tavola è divenuto una scienza; il bere e il servire il the è stato portato al grado di una funzione importantissima. In sostanza - la gentilezza rappresenta un ottimo requisito, anche se non serve ad al-. tro che ad impartire grazia alle maniere. Ma il Buscìdo insegna che per gentilezza s’intende molto più di questo: una persona gentile prende viva parte ai sentimenti degli altri, e piange con chi piange e gioir sce con chi è contento. Senonchè fu anche riconosciuto che la gentilezza può essere spanta troppo in là e degenerare in finzione; perciò nel Buscìdo si attribuisce un grande valore alla Veracità. E’ interessante constatare la mancanza di qualsiasi accenno contro la falsa testimonianza e la menzogna; queste colpe erano semplicemente denunciate come disonorevoli. E l’Onore costituiva una delle grandi virtù del Samurai, se non la maggiore di tutte. Peraltro il Buscìdo, oltre a creare un delicato codice d’onore, prepara anche delle salvaguardie contro i possibili eccessi di questo sentimento predicando Magnanimità e Pazienza. Fra gli insegnamenti del Buscido se ne distingueva uno di fronte al quale nessun sacrificio era stimato troppo caro, nessuna vita troppo preziosa: il dovere di Fedeltà, base di tutte le virtù feudali.

Oggi il feudalesimo è sparito dal Giappone, eppure non vi si rispetta meno di un tempo il dovere di fedeltà, poichè secondo il Buscìdo ciò che vale per la famiglia, i cui interessi e quelli di ogni singolo componente formano una cosa sola, deve valere per la nazione; così il Buscìdo ha fatto dei Giapponesi la razza più’ patriottica del mondo. Quantunque sulle prime, ’questo codice ’fosse destinato "unitamente ai Samurai, esso si è infiltrato ed ha agito come un ferMento tra le masse fornendo una forma morale per l’intera popolazione. I precetti di cavalleria sono diventati una inspirazione e una aspirazione per tutto ill paese; • così Yamato Damasci (l’anima del Giappone) ha finito in ultima analisi per esprimere il Volkgeist dello Stato.

L’esplorazione delle Catacombe di Roma (Continuazione e fine v num. 33-34)

Ma la responsabilità di gran parte.di queste imperfezioni incombe non tanto all’autore, quanto al tempo in cui egli visse e alle enormi difficoltà dello studio al quale egli per il primo si era messo; e se altri ricercatori avessero continuato per quella via che egli aveva aperta così brillantemente, senza dubbio la scienza delle Catacombe si sarebbe completata e approfondita. Ma il Bosio non aveva potuto farsi degli scolari, e così la «Roma sotterranea» appena scoperta e superficialmente esplorata, venne di nuovo abbandonata. Accadde, anzi, qualcosa di peggio: i divoti, cioè fecero a gara nell’asportare dalle Catacombe le reliquie dei primi cristiani; per quasi un secolo l’autorità ecclesiastica accordò largamente tutti i permessi richiesti di scavatori improvvisati e interessati, i quali tormentarono il suolo da tutte le parti, senza metodo, senza preoccuparsi di salvare dalla rovina le pitture e gli oggetti che trovavano; sicchè fu quellia un’epoca di distruzione barbara e irreparabile. Nello stesso tempo le Catacombe correvano un altro pericolo; esse divenivano preda dei polemisti religiosi.: alcuni protestanti dopo di averle visitate, vennero fuori ad affermare che esse non erano state costruite dai cristiani, bensì dai pagani che le loro pitture non risalivano all’antichità, ma al Medio Evo, e che le ossa in esse contenute non erano reliquie dei martiri cristiani, ma avanzi di Roma pagana. I direttori degli scavi che alla fine erano stati istituiti ufficialmente dai papi, come l’insigne epigrafista Fabretti e dopo di lui il Boldetti, dovettero pensare anzitutto a difendere l’autenticità dei cimiteri cristiani e ciò impedì loro di eseguire nuove ricerche. Si deve tuttavia al Fabretti la descrizione di due Catacombe ignorate dal Bosio, e al Boldetti la relazione, purtroppo molto confusa, dei ritrovamenti’ fatti durante cinquant’anni nei’ quali egli coprì la carica di direttore degli scavi. Uno dei’ suoi collaboratori, il Marangoni, lavorò per 17 anni a compilare un inventario delle pitture, sculture e oggetti vari contenuti nelle Catacombe; ma questo Catalogo era appena terminato, quando fu distrutto da un incendio: sembrava veramente che una sorte nemica perseguitasse l’archeologia Cristiana. [p. 251 modifica]Nè ciò bastava ancora: un altro danno gravissimo ebbero a soffrire le Catacombe da parte di coloro che, pur essendo animati dalle migliori intenzioni, tuttavia per amore dell’arte, le venivano distruggèndo. Alla fine del secolo XVIII il francese Sèrona d’Agincourt, il quale si accingeva a scrivere la storia dell’arte Cristiana, domandò ed ottenne il permesso di staccare dai cimiteri sotterranei parecchie pitture murali; e il suo esempio fu seguito da numerosi imitatori i quali asportarono una quantità di affreschi e altri ne sciuparono miseramente. Nel secolo XIX sorsero infine degli studiosi che si dimostrarono degni di raccogliere l’eredità del Bosio. Verso il 183o Raoul Rochette consacrò interessanti studi alle pitture cristiane primitive, e dal 1841 in poi il padre Marchi, conservatore dei cimiteri Sacri, si fece campione entusiasta e appassionato delle Catacombe e ne riprese la metodica esplorazione. A lui si devono gli scavi minuziosi nelle Catacombe di Sant’Agnese; fu lui che identificò la tomba di San Giacinto: egli dimostrò che le Catacombe non erano, come alcuni avevano sostenuto, delle antiche case di sabbia, utilizzate poi dai cristiani, bensì delle gallerie da essi espressamente scavate per seppellirvi i loro morti. Il padre Marchi aveva divisato di scrivere un trattato intorno ai più antichi monumenti dell’arte cristiana a Roma; ma di quest’opera grandiosa egli non pubblicò che una parte nel 1844, e precisamente lo studio intorno all’architettura della Roma Sotterranea Cristiana, che è un’analisi seria e sistematica delle Catacombe e dei’vari tipi di costruzioni che vi si incontrano, dei diversi aspetti che esse presentano. Gli avvenimenti politici che turbarono Roma nel 1848 e 49 aggiungendosi al timore che egli’ aveva di non trovarsi all’altezza del grave compito da lui assunto, lo fecero rinunziare a proseguire l’impresa, ed egli si rassegnò al silenzio: ma prima aveva scelto il proprio successore nella persona di un allie-vo che non doveva tardar molto a superare il maestro. Ciò che distingue Giambattista De Rossi da tutti i suoi predecessori, compreso il Bosio, e ciò che lo rende a tutti incontestabilmente superiore, è la precisione del suo metodo, il quale rappresenta il trionfo della critica scientifica. L’opera compiuta dal De Rossi fu insigne e veramente grandiosa: la scoperta di dieci cimiteri nuovi e di una dozzina di tombe di martiri, gli scavi sistematici eseguiti in tutti gli altri cimiteri già conosciUti, la pubblicazione di tre volumi in folio della «Roma Sotterranea )) di due volumi contenenti iscrizioni cristiane di Roma, l’organizzazione del museo crstiano del Laterano, la pubblicazione durata trenta anni del «Bullettino di archeologia Cristiana» e una quantità di lavori particolari sull’epigrafia profana, sulla topografia romana, ecc. ecc. La fortuna che il De Rossi ebbe nei suoi scavi fu dovuta semplicemente a questo: che egli non procedette mai a caso, e non intraprendeva mai una ricerca senza sapere prima con precisione che cosa egli voleva trovare.e Come e dove doveva trovarla. Le più interessanti fra le scoperte di questo genere anteriori al De Rossi, erano state puramente accidentali: egli invece fece in modo da non lasciare nulla al caso, e appunto per questo il caso lo favorì sempre. Seguendo l’esempio del Bosio, ma più rigorosa

mene ancora, egli si diede a studiare le Lala:oinbe facendo base dei suoi lavori l’esame topografico e geologico del suolo e del sotto suolo della campagna romana; e in queste ricerche egli ricorse alla collaborazione di suo fratello Michele, un eminente giurista. che per devozione fraterna si fece geologo e divent’uno dei più dotti fra gli scienziati italiani, e inventò una macchina ingegnosissima per rilevare automaticamente il piano delle gallerie sotterranee. Il De Rossi era persuaso che lo studio delle fonti letterarie ’dovesse dirigere l’esplorazione topografica. A tale scopo egli mette a dísposízione una preziosa miniera d’informazioni che i suoi predecessori avevano a torto trascurate, e cioè gli Itinerari pubblicati nel VII e nell’VIII secolo per uso dei pellegrini che si recavano a Roma, itinerari contenenti l’enumerazione dei cimiteri, posti su ciascuna delle grandi strade della Campagna romana, con l’indicazione delle distanze che separano questi Cimiteri dalla Città,’ oppure l’uno dall’altro. Il De Rossi capì subito tutta l’importanza di queste guide, e sopratutto delle indicazioni che esse fornivano intorno alle tombe che di preferenza erano visitate dai pellegrini in ciascun cimi!tero, ossia intorno alle tombe dei martiri più illustri. Dal 1593 al 1850 non si erano trovate che tre di queste tombe; il De Rossi pensò che si doveva scoprirne molte di più e vi riuscì infatti limitando ingegnosamente l’esplorazione e il lavoro di scavo proprio in quei punti che erano stati trascurati dai suoi predecessori, perchè in parte ostruiti da frane: e quali provenivano dal crollo delle grandi.,scalinate e di lucernari che erano stati eseguiti nel IV secolo sotto il papa S. Damaso, appunto per facilitare ai fedeli l’accesso alle tombe dei martiri. Gli sforzi del De Rossi furono coronati da pieno successo, e in pochi anni egli mise alla luce dodici di queste tombe storiche, la cui posizione corrispondeva perfettamente alle indicazioni contenute negli itinerari medioevali. Il De Rossi tenne pure molto conto delle epigrafi lasciate dai pellegrini, esaminando le frasi e i nomi tracciate da essi sulle parti delle gallerie sotterranee, osservando come quelle iscrizioni si moltiplicassero in vicinanza delle cripte dei martiri, alle quali la folla accorreva rendendole oggetto di speciale venerazione: tenne pure gran conto delle iscrizioni metriche, di: quegli elogi latini che il papa San Damaso aveva fatto porre sulle principali tombe dei martiri e delle quali egli raccolse i frammenti. Per più di cinquan’anni il De Rossi scrutò i sotterranei dei dintorni di Roma: grazie a lui furono esplorate delle gallerie coprenti una superficie totale di 246 ettari e rappresentanti ima lunghezza complessiva di 876 km. Fra coloro che non prendevano u 1 serio le ricerche e sopratutto le ipotesi del De Rossi, vi fu da principio anche il papa Pio IX, ma per convincerlo della serietà e dell’immensa importanza dell’opera sua, bastò che l’insigne archeologo lo conducesse nel 1852 nella Cripta di S. Callisto, dove erano stati seppelliti i pontefici romani del III secolo, e gli mostrasse le loro tombe, rimesse in luce; circondate da iscrizioni. L’opera incominciata dal De Rossi viene degnamente continuata da una Commissione di archeologia Sacra.