Il buon cuore - Anno XIV, nn. 35-36 - 4 settembre 1915/Religione

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Vangelo della domenica XIVa dopo Pentecoste

Testo del Vangelo.

Dai confini di Tiro e di,Sidone, dove aveva operato la guarigione della figlia della Cananea, ritornava Cristo sui monti della Gàlilea, quando gli, fu presentato un uomo sordo muto, perchè gli imponesse le mani. Or, egli, presolo in disparte dalla folla, gli mise le sue dita nelle orecchie di lui; a avendo sputato, collo sputo gli toccò la lingua. Poi, alzati gli occhi al cielo, sospirò e diss’egli: «Effeta», che vuoi dire «». E tostamente le orecchie di lui furono aperte, J si sciolse il nodo della sua lingua, e parlava distintamente. E ingiunse alle turbe che nol dicessero ad alcuno, ma più ei lo divietava loro, e più quelli lo predicavano, e ne restavano ammirati. E vedendo mutoli parlare, zoppi camminare, ciechi vedere, rendevano gloria al Dio di Israele, dicendo: «Ogni cosa ha fatto bene; ha fatto udire ai sordi e favellare i mutoli». (S. MARCO Cap. 7) Pensieri. Molti insegnamenti potrebbero essere tratti dall’odierno Vangelo. Noi ci accontentiamo di cavarne solo quello che appare più evidente nel miracolo di Cristo, la guarigione materiale del sordo-muto, immagine della guarigione della sordità e della mutolezza spirituale, dalla quale si vedono affetti molti cristiani. Forse, senza che noi ci siamo mai accorti, troveremo che in questo numero dobbiamo essere posti un pochino anche noi.

La sordità spirituale ha questo di peggio in confronto della sordità materiale, che mentre la sordità materiale è involontaria, la sordità spirituale è effetto della nostra volontà. La sordità materiale è effetto della natura, e nessuno ci ha colpa immediata, specialmente chi ne è colpito. Il sordo spirituale è sordo perchè vuol esserlo. Il sordo materiale non sente la parola degli uomini; il sordo spirituale non sente la parola di Dio; non la sente non perchè non la possa sentire; non la sente perchè non la vuol sentire, sebbene in mille modi, e nei modi- più efficaci questa parola risuoni dentro di lui, risuoni fuori di lui; risiioni nell’orecchio, risuoni nel cuore. Chi sono i colpiti da questa spirituale sordità? Sono, dice un sacro oratore, coloro che non vogliono ascoltare la parola di Dio per non essere inquietati nelle loro passioni; che non vogliono ascoltare la voce della verità, per non essere obbligati a praticar la virtù. quelli che l’ascoltano, ma con distrazione, con mala voglia, o per pura curiosità o che non si danno mai pensiero di eseguire ciò che essa prescrive o di tralasciare ciò che essa proibisce. Nel numero di questi sordi si devono mettere anche quelli che non danno ascolto alle buone aspirazioni, agli impulsi della grazia, quando Dio li chiama alla penitenza, alla confes•sione dei loro falli od alla emendazione dei loro costu; coloro che non danno retta ai rimorsi della coscienza, quando questa li avvisa del male che fanno e del bene che dovrebbero fare e che tralasciano, ne soi focano la voce amica per seguire i clamori e gli strepiti delle passioni. Nel numero di questi sordi si mettano quei figli che non vogliono ascoltare gli avvisi dei genitori e li lasciano dire e gridare, e intanto fanno ciò che vogliono, seguitano a frequentare quei cattivi compagni, a tenere quelle amicizie, ad impegnarsi in quei giuochi, e si levano’ anche talora con insopportabile audacia a ribattere con cattive parole gli avvisi amorevoli dei superiori. Sordi sono anche tutti coloro che non ascoltano avvertimenti di amici, esortazioni del loro pastore che li chiama alla emendazione della vita, alla frequenza dei Sacramenti; indurando nella vita traviata loro cuore, cosicchè finiscono a non più sentire anche quando avrebbero propensione a voler sentire, non più capaci di essere nè convertiti, nè risanati. CoMe la sordità materiale porta la rnutolezza, la sordità spirituale porta pure con sè una riprovevole mutolezza cl-te toglie la parola quando sarebbe il luogo e il tempo di. parlare. Di qui avviene, dice lo stesso oratore, che sentendosi tante volte racconti di cose cattive con tutta l’autorità che si avrebbe di interromperli, non si ascolta la voce del dovere e si lasciano proseguire; sentendosi parole contro la carità, espressioni scandalose, si lascino passare. Uno non" può aprir bocca senza dir male del prossimo. non vi è chi lo.corregga; un altro pronuncia senza rispetto il nome di Cristo è della Vergine, non vai è chi lo riprenda; un terzo deride le pratiche religiose e le opere di pietà, facendole soggetto di empi motteggi, nessuno ha il coraggio di dargli «su» la voce. Si vedono corrispondenze sospette e si tace; si vedono tendenze, inclinaziioni pericolose, e si tace; si vede gravemente compromesso l’onor di Dio, la salute delle anime, e si tace. Questa mutolezza sarebbe poi tanto più riprovevole se si trovasse in padri e madri e capi di casa, i quali sapendo che in famiglia vi è qualche cosa che non va bene, lasciassero tuttavia passar tutto senza alzar la voce e troncare il male dalla radice. Le persone estranee alla famliglia sarebbero obbligate ad avvertire e ad impedire il male per carità, per l’obbligo generale di allontanare il male dal nostro prossimo, ma i genitori, i capi di casa, i direttori di istituti e di stabilimenti, lo sono per dovere di giustizia, e guai a loro, se vedendo il male nei loro subalterni, chiudessero gli occhi e non aprissero la bocca. Vivrebbero forse abbastanza per avere a pentirsene in vita; ma è certo che - non andrebbero esenti di grave castigo nell’altra. Chi è incaricato di sorvegliare sugli altri, sorvegli; chi è posto a correggere, corregga. Guardisi’ognuno dal meritarsi da. Dio il titolo di cane muto, che non sa a tempo alzar la sua voce. Quando si tratta dell’onor di Dio e degli interessi della religione, quando si tratta del bene delle anime, bando ai rispetti umani; una santa franchèzza vi metta sulla bocca quelle parole pronte, [p. 253 modifica]opportune, condite di sale cristiano, che preservano e guariscono dalla corruzione. Una buona parola a tempo val cento prediche.

Ma se vi è, continua lo stesso oratore, una sordità e una mutolezza riprovevole, vi ha pure una sordità commendevole e buona. E’ sordità commendevole e buona il non ascoltar le mormoraziion_ le maldicenze, le calunnie; sordità commendevole il chiudere gli orecchi a brutti discorsi, a racconti indecenti, a cattive suggestioni di chi vi tentasse al male; sordità commendevole il non prestare orecchio a chi vi dà cattivi consigli, o di togliere l’altrui, o di cagionare del danno, o di far vendette per ingiurie ricevute. Vi sono di quelli che vi vogliono distogliere dal seguire una vita cristiana, che vi dicono che per salvarsi non è poi necessario far tutto quello che si dice; non è necessario mortificare le passioni; che certe cose non sono quel gran peccato che si crede; che il mondo è,fatto per goderlo; che a fare il bene si avrà tutto il tempo quando si sarà,vecchi; che a convertirsi ci sarà sempre il tempo? Allora è il momento di fare il sordo, di non ascoltare. Vi hanno di quelli che vogliono intaccar la vostra fede e togliervela, che vi dicono che non bisogna poi lasciarsi spaventare dalle minaccie dei sacerdoti, che non bisogna, aver paura delninferno, e vanno avanti con spropositi l’uno maggiore dell’altro? Fare il sordo, fare il sordo, non dar retta alle loro empietà, andar via dritti per la vostra strada, senza lasciarvi nè arrestare, nè fuorviare.

  • * *

Così pure vi è tempo di parlare e tempo di tacere, e quando è tempo di tacere, la mutolezza è degna di lode. Tale è il non parlare contro del nostro prossimo, il non pubblicare í difetti e i peccati altrui; quando si sente gli altri a sparlarne e non si può impedirlo, tacere almeno e non assecondarlo. Tale è il silenzio dinanzi alle ingiurie che vi venissero fatte, gli affronti, i cattivi trattamenti, sopportando tutto in santa rassegnazione per amor di Dio. Tale é il non permettersi parole inutili in Chiesa, dove la santità del luogo ci deve inspirare un riverente silenzio, che non deve essere interrotto che dalle preghiere e dalle lodi a Dio. alla Vergine, ai Santi. Tale finalmente è il non riportare ad altri quello che vedeste od udiste fatto o detto da un terzo contro di lui, ma attenersi all’avviso dello Spirito Santo il quale dice che udendosi parola ingiuriosa al prossimo, la si seppelisca, la si faccia morire in sè, non producendo questi rapporti che odi, liti, risse, discordie accanite, interminabili. Astenetevi sopratutto dal riportare le parole riportate; se indifferenti finiscono ad essere cattive, se vere finiscono ad essere false.

Vi ha quindi una sordità riprovevole, ed è quella di chi non vuol sentire il bene, e vi è una sordità conimendevole*, ed è quella di chi si proibisce di sentire il male. Così vi ha parimenti una riprovevole mutolezza,

ed è quella di chi tace quando dovrebbe parlare, e vi,ha una mutolezza commendevole ed è quella di chi giustamente tace quando non deve parlare. L’amor di Dio, l’amor del prossimo, il bene dell’anima vostra, il bene dell’anima altrui, il desiderio di mantenere la pace con tutti, l’esempio (li Cristo e dei Santi, la prudenza cristiana, vi insegneranno quando sia il momento di ascoltare o di fare il sordo, di parlare o di fare il muto. Chi riuscisse in ciò sarebbe già per metà santo. L. V.

Vangelo della Domenica I dopo la Decollazione

Testo del Vangelo.

In quel tempo giunse a notizia di Erode Tetrarca tutto- quel che facevasi da Gesù, ed egli stava coll’ani mo sospeso, perchè alcuni dicevano, clic Giovanni era risuscitato da mante; altri poi che era comparso Elia, ed altri che uno degli antichi profeti era risorta. Ed Erode diceva: A Giovanni feci io tagliare la testa. Ma. chi è costui del quale sento dire siffatte cose 2 E cercava vederlo. E ritornati gli apostoli, raccontarono a lui tutto quello che avevano fatto; ed egli presili seco, si ritirò a parte in un deserto del territorio, di Bethsaida. La qual cosa risaputasi dalle turbo. gli tennero dietro: ed Egli le accolse e parlava loro del Regno di Dio, e risanava quei che ne avevano bisogno. (S. LUCA, Cap. cc.

Pensieri. Nelle ansie che Frode prova all’annunzio della. grandi opere compiute da Gesù, colla voce del pop() Io che Gesù fosse Giovanni Battista redivivo, quel Giovanni che egli aveva fatto uccidere, i Santi Padri ravvisano d’anima colpevole tormentata dal rimorso. Osserviamo: il rimorso è una pena immancabile a.chi fa male; eppure, a chi ne approfitta, qual grazia grande è il rimorso!

Il rimorso è una pena immancabile a chi fa male. Se c’era qualcuno che non dovesse avere rimorso era Frode. Egli aveva fatto uccidere Giovanni; ma egli era re, re assoluto. Chi poteva chiedergliene ragione? chi poteva.punirlo? I suoi sudditi, i suoi ministri gli erano tutti ossequenti: i suoi nemici, che certamente ne, aveva non fossero altri i discepoli di Giovanni, erano impotenti. Lo stesso’, Erode poteva crearsi un po’ d’i ragione attenuante al suo delitto, pensando che la morte di Giovanni egli *non l’aveva ordinata per malanimo, per un senso di crudeltà: no, egli l’aveva ordinata per soddisfare il desiderio di persone care; egli vi era quasi stato obbligato da un motivo lodevole, per non mancare di parola: aveva detto alla figlia di Erodiade, in premio della sua eleganza nel ballare, chiedi quello che vuoi e te lo darò.... Aveva sbagliato nel prometter troppo, nel prometter in un modo così incondizionato; quando la figlia di Erodiade, per instigazione della madre, gli aveva chiesto itl capo di [p. 254 modifica]Giovanni, egli era rimasto, sorpreso, addolorato... ma ’aveva dato la parola; bisognava mantenerla; anche i suoi amici commensali la pensavano così.... Eppure, malgrado queste scuse, malgrado questa impunità, Erode non è contento. Le scuse, per quanto cercate, per quanto numerose, per quanto forti, non arrivano a nascondere la realtà, la gravità del suo delitto. Il suo delitto gli si rizzava innanzi in tutta la sua tragica enormità. Aveva fatto uccidere un uomo giusto; un uomo’ che egli stesso altamente stimava; un uomo che più di una volta aveva interrogato nei suoi dubbi, ricevendone responsi pieni di sapienza e di onestà; l’aveva fatto uccidere per compiacere aí bassi sentimenti d’odio di una donna capricciosa e crudele; l’aveva fatto uccidere, contradicendo a tutte le consuetudini del buon vivere sociale, nel giorno d’el suo natalizio, ordinando la morte quando avrebbe dovuto accordare la libertà, conturbando la gioia del convito, colla presenza di un teschio troncato e sanguinolento. E’ vero che aveva data la parola: ma la parola per compiere un delitto non tiene: è meno male mancare di parola, che Uccidere un innocente... Gli uomini non lo puniranno; non potranno punirlo; ma al,di sopra degli uomini vi è Dio; Dio che tuona colla sua legge, Dio che minaccia co’ suoi castighi; Dio dinanzi al quale i re della terra sono niente; Dio che li spazza via come un granello d’arena, come una foglia inaridita; Dio che chiederà conto più severo a chi è collocato più in alto.... Ciò che avvenne ad Erode avviene a tutti. L’uomo è fatto pel bene; il bene gli è suggerito. imposto da mille ragioni: dalla legge di Dio, dalla bellezza intrinseca del bene, dal dovere di raggiungere il proprio fine, dal consiglio, dall’esempio altrui, dalla necessità di dare buon esempio agli altri, specialmente quando si è costituiti in posizione di alta responsabilità... Chi si oppone a tutta questa molteplice esigenza della virtù non può trovarsi in pace con se stesso. Potrà fingere in faccia agli altri; potrà ostentare pace, sictirezza, gioja, ma non è contento nel cuore; ma nel segreto della sua coscienza, ma nel silenzio delle cose e delle Persone, il suo delitto sorge dinnanzi alla mente, giganteggia per quanto si voglia deprimere, dimenti•care.... Delictum meum contra me est semper, diceva Davide pensando al suo duplice ’peccato; Davide in questo grido non era soltanto Davide; Davide era l’uomo; l’uomo peccatore, è l’uomo infelice. Dio, che conosce l’uomo più dell’uomo stesso, lo ha detto: non est pax impiis. Non c’è pace per l’empio. Chi non ha provito questo stato? Prima di commettere il peccato, pareva che se noi fossimo riusciti ad appagar quella brama, a vincere quella ritrosia, a ottener quell’oggetto, a soddisfare quella vendetta, a toglier di mezzo quell’avversario, a raggiungere quel posto, saremmo stati felici.... Le nostre brame furono soddisfatte: abbiamo raggiunto la felicità? Quante volte le nostre maggiori sventure nacquero dai nostri trionfi! Se non ci fu il disastro esterno, ci fu il disastro interno ’della coscienza: cominciammo ad essere infelici davvero, quel giorno che diventammo felici!

  • * *

Eppure, se il rimorso è una gran pena, il rimorso è una grande grazia. Guai quel giorno nel quale, avendo fatto il male, sapendo di averlo fatto, noi non sentissimo rimorso!_Vorrebbe dire che in noi si è ecclissata la parte migliore di noi, la luce dell’intelligenza, la delicatezza della coscienza: vuol dire che per noi non contano più nulla nè Dio, nè l’anima, nè l’eternità, ne il dovere del buon esempio. vuol dire che Dio ci ha ritirato la luce, do stimolo della sua grazia; ci ha lasciati soli nel scendere la china del male, perchè precipitassimo fin nel profondo dell’abisso. Ci sono pur troppo le persone che trovansi in questa deplorevole condizione di coscienza. Sanno di vivere una vita affatto contraria alla legge di Dio; sanno di conservare una relazione illecita, fors’anco con pubblico scandalo; sanno di aver calunniato atrocemente una persona, che non conosce chi è il vile che l’ha danneggiata_ nella fama, che non può difendersi appunto perchè non lo conosce; sanno di mancare di esattezza nelle amministrazioni, di giustizia nei negozi e nei contratti; sanno di avere ingiustamente nelle mani roba altrui; ’sanno di covar nell’animo sentimenti di odio, di invidia... sanno insomma che non possono dire di avere ’la grazia di Dio, sanno di dover dire che certamente non l’hanno, perchè colpa dell’uomo e grazia di Dio non possono stare -insieme; sanno che possono benissimo sfuggire la giustizia e id castigo degli uomini, ma non possono sfuggire il castigo e la giustizia di Dio; sanno che la morte li può colpire da un momento all’altro; ravviso è pur troppo frequente nelle improvvise morti altrui.... sanno tutto questo, eppure sono tranquilli, sono sorridenti; l’impunità passata li lusinga dell’impunità futura: quid nobis accidit triste? dicono coi peccatori ostinati, ricordati nella Santa Scrittura: abbiamo fatto il male, e qual male ne avemmo? Ah, se qualcuno si trovasse in questa condizione; se sapesse di essere in peccato mortale, e non ne sentisse rimorso, quanto dovrebbe chiamarsi infelice! E’ moribondo e non sa di essere ammalato; crede di essere sulla via piana ed è già nell’abisso! Non seguiamo Erode, che pur sapendo di aver fatto male, sente un turbamento, ma è un turbamento leggero, superficiale, passaggiero, che non lo induce punto a pentirsi del male fatto, a troncare il male che fa. Egli desidera di vedere Cristo: il desiderio per sè è buono; anzi è il solo pensiero buono, che si può e ’si deve avere: vedere Cristo, parlare con Cristo, ascoltare la parola di Cristo. Ma Cristo non si lascia vedere, Cristo avvertitamente si allontana da lui.... Cristo sa che se il desiderio di Erode fosse sincero nel cercare il bene, già ne aveva avuto la fortunata occasione nella parola di Giovanni: chi non ascolta il precursore non ascolterà il maestro: la presenza di Cristo non sarebbe la riparazione di un delitto, ma occasione forse a commetterne un altro; Erodiade, la passíone, veglia; sarebbe nella vita cristiana un sacramento, una Comunione ricevuta senza le debite disposizioni: è una grazia nuova? E’ un’orribile sacrilegio! [p. 255 modifica]Imitiamo l’esempio delle turbe. Quando Cristo seppe dagli Apostoli tutto il bene che avevano fatto, predicando intorno la buona parola, egli si ritirò in luogo deserto. Le turbe gli tennero dietro,. ed egli benigno accolse e parlava loro del regno di Dio, e risanava quelli che ne avevan bisogno. E’ una lezione che va bene per tutti, innocenti e peccatori. Peccatori, seguiamo Cilisto nel deserto, cioè esciamo dalle occasioni del male, andiamo a confessargli umilmente le nostre colpe, a chiedergliene perdono. Innocenti, seguiamo. Cristo, nel deserto, cioè nel silenzio della nostra cameretta, nella pace del Tempio; conversiamo amichevolmente con lui, confidiamogli tutte le nostre ansie, i nostri desideri, i no.,ti propositi; viviamo nella intimità della sua vita. Uniti a Cristo, qual gioia per tutti! Peccatori, gioja rel perdono; innocenti, gioja nell’amore. L. V.

Perché vince il nostro Esercito

Il nostro Esercito vince perchè se è valoroso quanto sarà o potrà essere quello austriaco, è guidato da uno stimolo d’una Civiltà ascendente che se giustifica l’uso della forza e della sua potenzialità, tempera gli odii, esclude le barbarie ne si cimenta nella cattiveria e nella malafede come fa quello austriaco sulla base dei suoi principii educatori che, per converso, invece, si mettono alla coda del diritto ad incivilire e dominare modernamente.. Vince il nostro Esercito perchè lo anima la santità della causa basata sul diritto naturale di proprietà del suolo, secolarmente sotto il giogo barbaro e anticivile di chi, noti avendo retta onestà d’animo, non sente moralmente il dovere di restituire ciò che si prese non altro che col brigantaggio e colla forza travisando e imponendo nazionalità anti-italiana. Vince il nostro Esercito perchè nell’azione, è fornito d’elementi educativi d’un popolo che se ogni giorno consegue progresso nella civiltà, scienze, arti e mestieri, all’incontrarsi colle asperità, a eliminarle o a vincerle, non si vale dell’oppressione, della fine ipocrisia, della repressione bruta, ma col semplice monito e colla prova di una civiltà veramente progredita che rifugge di dare occasione di formare quegli elementi ingombranti il processo stesso di quell’elevata Civiltà. Vince il nostro Esercito perchè nelle sue decisioni, l’azione, la tattica, le armi, il pensiero, non sono informati al concetto vigliacco del forte che ingenerosamente assale il debole o il piccolo quale il Belgio, la Serbia, le, zone nemiche indi fese, ma ossequiente, invece all’alto concetto superiore di una Civiltà ascendente, s’informa sui principii che ne scaturiscono e lo mette in condizione, per converso all’austriaco, di non farsi mai accusare vigliacco mentre sa farsi rispettare, temere, onorare dal nemico stesso. Vince il nostro Esercito perchè in armonia a quei suoi elevati principii di Civiltà, anche se offeso, non

si difende ed offende coll’insulto volgare e villano dei nemico, (riflesso retrogrado di civiltà) ma si difende ed offende in ben altro modo, sia colla giustizia, sia colla forza e collocando l’animo offeso, in modo nobile, al disopra dell’insulto. Vince il nostro Esercito perchè l’opera del Re, dei suoi generali e governatori, si confonde con quella dei valorosi soldati come è stimolo ed esempio alla prontezza del proprio sacrificio della Vita; è opera sospinta dalla luce di quella nuova civiltà che il grande stellone d’Italia irradia e guida ed ove riflette i raggi della giustizia del dominio civile, della riforma della penalità più rispondente alla Civiltà ascendente e che rifugge dagli antichi mezzi come degli attuali degli austriaci stessi che usano la tirannide e la forca, mezzi, che per se stessi, a giusta riflessione, sono manifestazioni condannate sebbene elevate a legge e quindi in grande contraddizione col preteso predominio della Civiltà. Vince.il nostro Esercito prechè se l’anima italiana porta sempre con se tutta la purezza dell’amor patrio, della poesia, dell’amore all’arte ed alle scienze, tutto ciò fa sl’che lo innalza facendone emergere la sua bellezza, fa sì che se non ha in disprezzo la vita, la cimenta per il sacrificio portandolo così a conseguire il raggiungimento della grande idealità italiana, l’idealità di riavere terre irredente rendendo in un tempo ossequio al fato e al passaggio della Storia. Milano, Agosto 1915. ANNIBALE AGAZZI.

Una serata artistica. (Da «La Valle d’Intelvi» Lanzo, 21 agosto 1915).

E’ con animo veramente lieto che m’accingo a parlare della serata artistica musicale che si svolse all’Héitel Bella Vista davanti ad un pubblico elegantissimo, e gremito: quel pubblico speciale delle stazioni Climatiche che ha una psicologia tutta propria, fatta di gaiezza, e di squisite mondanità. Diciamolo pure francamente; raramente avviene di scovare fra i villeggianti non tanto le doti necessarie, quanto l’accordo utile per poter imbastire in pochi giorni un trattenimento che non cada nella banalità e tale da non compromettere l’aurea parola dell’arte, troppo frequentemente fraintesa. Ma sia per la valentia degli esecutori, sia per alcuni nomi già conosciuti al pubblico, la serata passò fra continui applausi e approvazioni e quel che più vale.... senza stancare. Al Maestro Moioli toccarono i primi onori per aver saputo far cantare con perfetta intonazione e sincronismo una trentina di bimbi, belli e sorridenti come il disfiorir d’Aprile. Indovinatissimo l’inno sulle battute della Marcia Reale. Uscivano le note belliche da quelle tenere gole come una sfida degli innocenti al barbaro oppressore. Le signorine L. Candrina ed E. Raffo si distinsero per scuola ed esecuzione al pianoforte in diversi brani di facile fattura. [p. 256 modifica]Emersero per doti non comuni di pianiste la Signora Zucckermann e la Signora Piera Corsi. Quest’ultima accompagnò con tocco delicato e sentimento d’arte le interpretazioni della.violinista Sig. Reinach Niny, la quale nella Romanza di Svendsen, forse abbisognevole di una maggior tornitura specie alle posizioni di terza e quarta corda e nella Pavone dr Krt’isler in sordina, seppe cavare dal suo strumento arcate brillanti e passionali facendosi molto applaudire. Fra la generale aspettativa comparve sulla pedana il ’poeta milanese Federico Bissi che lesse diverse delle sue poesie in vernacolo. Attraverso alle •bellissime composizioni trapuntate di fine umorismo e profondo sentimento, larvate talvolta di pianto sotto un sorriso.... ambrosiano, tal’altra pungenti di satira bonacciona, l’uditorio sentì tutta l’anima dei nostri poeti lombardi, che han saputo dimostrare come fra il lavoro e le cure cotidiane póssa sempre sorridere un raggio di sole che allarga il cuore e la mente a nobili idealità. I sonetti della «Guerra )) strapparono agli ascoltatori eletrizzati un vero scroscio d’applausi. Dal dialetto milanese e brianzolo si passò all’effervescenza del dialetto veneziano. Fuori programma, forse perchè giunta all’ultimo momento, la Sig. Consolo Sarfatti dise efficacemente molte delle sue poesie. In esse è la forza dell’immagine, sono le mollezze, le albe, i tramonti, le caratteristiche, le nostalgie della vita veneziana. Sorrideva Venezia la bella in quadretti di genere indovinatissimi, in istantanee di ottimo cesello, ma

di un sorriso che sa i lutti e le ansie dell’ora presente, le audacie del domani. Dopo il poeta della Madonnina del Duomo, la poetessa del Leone di S. Marco quasi a protezione delle nostre terre e dei nostri mari. E come cc dulcis ’in fluido» non si poteva avere che una voce di donna. E quest’onore meritatissitno, toccò alla signorina Renèe. Dossogne, figlia del Console belga di Milano. Voce educata, timbro caldo e ~ente, morbidezza di passaggi specialmente nelle centrali, sono gli attributi coi quali cantò. Quella fiamma di Benedetto Marcello e la Chanson de Floridn di Godard, ottenendo una: vera messe di applausi. Dopo un bis, gli applausi si trasformarono in ovazione e in grida di «Evviva al Belgio eroico e gentile». Rispose con sguardi commossi e riconoscenti la famiglia consolare. La serata finì con l’estrazione di bellissimi premi generosamente offerti dai villeggianti e fra graditissime sorprese. Fra le altre.... la più bella porta-lettere forse del regno italico. Peccato che ad ogni sorriso corrispondesse un piego tassato! Il concerto fruttò alle famiglie locali dei richiamati, oltre mille lire.