Il capitano della Djumna/Parte seconda/19. Assediati sull'albero

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19. ASSEDIATI SULL'ALBERO


Quando l'alba sorse, gli assediati, che durante l'intera notte si erano tenuti in guardia, temendo qualche altra diabolica sorpresa da parte degli andamani, s'accorsero con quali nemici formidabili avevano da fare.

L'isolotto pullulava di orribili rettili e quasi tutti di natura velenosissima. Si vedevano contorcersi dei naia neri lunghi quasi due metri, colla testa semicoperta da una specie di cappuccio di forma ellittica, su cui spiccavano due strani occhiali giallastri; dei serpenti del minuto, i più piccoli di tutti poiché non superano i quindici centimetri di lunghezza, ed anche i più esili, avendo una circonferenza di tre o quattro millimetri, ma i più velenosi di tutti i rettili conosciuti; dei gulabi, i più belli della specie, essendo color rosa-pallido picchiettati di rosso vivissimo, ma pure assai pericolosi; dei cobra-manilla lunghi un piede e colla pelle d'un azzurro brillante e perfino alcuni boa lunghi tre metri, d'un bel color verde-azzurrognolo, segnati da anelli irregolari e da bellissime striature, per cui furono anche chiamati pitoni tigrati.

Erano almeno cinque dozzine e parevano tutti furiosi di trovarsi in così numerosa compagnia, su quel piccolo lembo di terra. Scendevano e strisciavano lungo le rive, cercando di trovare un passaggio, poi tornavano in mezzo ai cespugli e trovandosi ancora in così gran numero, si azzuffavano fra di loro, mordendosi ferocemente.

Gli andamani erano tutti accorsi sulle sponde dello stagno, per vedere se gli assediati erano ancora vivi o se si erano decisi a gettarsi in acqua. Erano una quarantina armati di archi, di lance colle punte di osso e di alcuni arpioni. In mezzo a loro si distingueva il capo, il quale aveva la testa fasciata da un pezzo di tela fabbricata con corteccia battuta e poi filata alla meglio. Vedendo gli assediati rifugiati sull'albero in compagnia del loro compatriota, parvero impazzire dalla collera. Urlavano come ossessi, si dimenavano ed agitavano minacciosamente le armi.

Alcune frecce furono scagliate, ma l'isolotto era troppo lontano e non giunsero a destinazione.

— Se le mie pistole avessero una portata maggiore, vedreste come farei scoppiare la testa al vostro capo — mormorò Alì, — Se avessi almeno salvata una buona carabina, a quest'ora non vi vedrei dinanzi a me, ad urlare ed a minacciare.

Sfogata la loro collera, il capo si fece innanzi, spingendosi con precauzione nella palude e parve che volesse parlare.

— Cosa vuoi? — chiese Alì.

— Che gli uomini del Bengala mi ascoltino — rispose l'andamano.

— Parla, canaglia.

— Io posso ancora salvarvi.

— L'isolotto è pieno di serpenti.

— Li uccideremo o li farò ritornare.

— Sei uno stregone, tu?

— Gli uomini del Bengala odano le parole di Mangabo.

— Ti ascolto, signor Mangabo.

— Volete costruirmi la casa galleggiante?

— E poi?...

— Io vi libererò, ma bisogna che prima tu mi ceda le armi che mandano fuoco.

— Per poi ammazzarci, signor Mangabo!...

— Non ho detto questo.

— Ma lo leggo nei tuoi occhi, furfante.

— Mi hai udito?

— Sì, ma ti rispondo che le mie armi le terrò io, per impedirti di uccidermi appena ci avrai nelle tue mani.

— Allora morrai!

— Lo vedremo.

— Non puoi scendere dall'albero.

— E tu non puoi venire sull'isolotto.

— Ma la fame ti costringerà a scendere.

— Scenderò, signor Mangabo.

— Ma vi sono i serpenti.

— Ma le mie armi uccidono i serpenti.

— E noi saremo pronti a cacciarti nelle sabbie mobili.

— Provati e vedrai che le mie pistole uccideranno te ed i tuoi uomini.

Il capo emise un urlo di rabbia e si ritirò sulla riva facendo un gesto di minaccia, mentre i suoi sudditi si disperdevano tutti intorno alla palude per impedire agli assediati di fuggire, precauzione inutile del resto, poiché Alì ed i suoi compagni si trovavano nell'impossibilità di abbandonare l'albero protettore, almeno pel momento.

Il capitano e Sciapal, dopo il cattivo esito di quel colloquio, si erano messi seriamente a pensare per cercare un mezzo qualunque che permettesse loro di sfuggire al pericolo o di morire di fame o di veleno, ma invano si torturavano il cervello.

In quanto alla resa non vi pensavano, sapendo ormai che il capo ardeva dal desiderio di far pagare loro cara la gherminella e anche i due pugni. Erano ormai convinti che tutte le sue promesse altro non fossero che un tranello per averli nelle sue mani.

E nondimeno era necessario che in un modo o nell'altro abbandonassero quell'isolotto, che era diventato una vera trappola. I viveri non avrebbero tardato a mancare e la fame non era un supplizio da potersi sopportare parecchi giorni di seguito.

Alì si era provato ad uccidere alcuni serpenti, i pitoni specialmente, che potevano, spinti dalla fame, salire sull'albero, ma ben presto s'accorse che le sue munizioni non sarebbero bastate e poi ci teneva molto alle sue ultime cariche per respingere gli andamani, nel caso che si fossero decisi ad assalirli. Si provò anche ad abbattere un bozzagro nel momento in cui passava sopra l'albero, ma il volatile cadde fra i serpenti, i quali se lo disputarono ferocemente e le magre provviste degli assediati non aumentarono, anzi scemarono dopo la colazione, quantunque Alì avesse dispensato ai suoi compagni delle razioni infinitamente piccole.

Avevano però la fortuna di potersi dissetare a loro piacimento, poiché spingendosi un ramo dell'albero sopra la palude, con un cono formato di foglie e appeso alla corda che serviva a Sciapal di cintura, potevano attingere quanta acqua volevano.

Nessun avvenimento accadde durante quella prima giornata d'assedio. Solamente una banda di scimmie vauvau venne a distrarre un po' Alì ed i suoi compagni, coi suoi esercizi ginnastici, colle sue smorfie e colle sue grida acute. Era una truppa composta di quindici o venti individui, che si era installata sulle cime di un macchione di alberi altissimi. Quei quadrumani avevano il pelame d'una bella tinta azzurrognola, la testa più larga che alta, la faccia nuda ma adorna d'una folta barba e le braccia così lunghe che stando col corpo ritto, colle dita si toccavano il malleolo dei piedi.

Dotate d'una agilità prodigiosa, eseguivano degli esercizi straordinari senza preoccuparsi, a quanto pareva, delle leggi della gravità, slanciandosi da un ramo all'altro come se fossero fornite d'ali.

Vedendo però che gli andamani cercavano di avvicinarle per abbatterle a colpi di freccia, non tardarono a fuggire in mezzo ai boschi più fitti. Anche una piccola truppa di lar, altre scimmie che sono molto comuni in quelle isole, alte quasi un metro, col pelame nero come il carbone, ma segnato d'una striscia bianca sulla fronte, venne verso il tramonto a far udire le sue grida di uluk, uluk; ma anche quei quadrumani non tardarono a fuggire, appena s'accorsero della presenza degli andamani.

— Là tanta selvaggina e qui tanta penuria — disse Alì, con tristezza. — Come finirà quest'assedio? E non possiamo contare su nessuno, nemmeno su Pandu che forse è stato ucciso dai selvaggi o divorato da qualche tigre affamata.

Sciapal, intanto, colla sua corda aveva riunito alcuni rami, preparando alla meglio un'amaca per Narsinga, temendo che la piccina, vinta dal sonno, precipitasse fra i serpenti; poi si era accomodata fra le biforcazioni dei rami per riposarsi qualche po'.

Alì e Sciapal non osavano però dormire, temendo che gli andamani approfittassero delle tenebre per tentare qualche sorpresa.

I loro timori non erano infondati, poiché verso la mezzanotte la loro attenzione fu attirata da un tonfo sordo, come se qualche massa enorme fosse precipitata in acqua.

— Hai udito, padrone? — chiese Sciapal.

— Sì — rispose Alì.

— Che sia stato qualche coccodrillo?

— Non avrebbe prodotto un simile fragore e poi non ne abbiamo veduti in questa palude. Odi l'onda che s'infrange sull'isolotto?

— Sì, padrone.

— Deve essere stato gettato in acqua qualche cosa di ben pesante e di molto volume per produrre quella ondulazione.

— Qualche barca?

— O qualche zattera? Mi pare di scorgere una massa nera galleggiare presso la riva della palude.

— È vero, padrone, e vedo delle ombre agitarsi sopra di essa.

— Prepariamoci a riceverle, Sciapal.

— Non ardiranno sbarcare.

— Ma si avvicineranno a tiro di freccia e ci saetteranno.

— Passiamo dietro al tronco.

— Presto, sveglia Narsinga ed il prigioniero.

Intanto il galleggiante, che era una zattera di dimensioni non piccole, s'avvicinava lentamente ed in silenzio all'isolotto. Quantunque l'oscurità fosse assai profonda sopra la palude, si scorgevano quindici o venti uomini muniti di lunghi bastoni, dei quali si servivano per spingere innanzi quell'ammasso di tronchi. Alì, Sciapal, Narsinga ed il prigioniero si erano nascosti dietro al tronco dell'albero a diverse altezze, mantenendosi a cavalcioni dei rami.

— Sciapal — disse il capitano all'indiano che gli stava sopra. — Incaricati delle munizioni e spicciati a caricare le armi. Finché abbiamo polvere e palle, quelle canaglie non oseranno avvicinarsi.

— Sono pronto, padrone.

In quell'istante un sibilo lamentevole si udì fra le tenebre ed un dardo lungo mezzo metro passò a pochi pollici dal tronco dell'albero, un po' sopra l'indiano, piantandosi in un ramo.

— Ci sono a tiro, — disse Alì; — ma se le vostre frecce giungono fino a noi, anche le mie palle possono toccarvi.

Si curvò da un lato e scorgendo la zattera ferma a soli trenta passi dall'isolotto, tese rapidamente la destra armata di pistola, mirò alcuni istanti, poi fece fuoco. La detonazione fu subito seguita da urla furiose che s'alzarono sulla zattera e sulle rive della palude, mentre i serpenti, spaventati da quel lampo, si svegliavano facendo udire un concerto di sibili.

— Colpito, padrone? — chiese Sciapal, ricaricando prontamente la pistola che Alì gli aveva data.

— Lo spero — rispose il capitano. — Attenti alle frecce!...

Una volata di dardi giungeva fischiando fra i rami, piantandosi nel tronco dell'albero. Alì scaricò la seconda pistola.

Questa volta udì distintamente un urlo di dolore, l'urlo d'un uomo colpito a morte.

— Toccato, Sciapal — gridò.

— Il capo forse?...

— Non l'ho veduto sulla zattera.

— Il poltrone!

— A me la pistola carica.

— Continui, padrone?

— Ancora, Sciapal.

Una terza detonazione rimbombò destando gli echi della foresta, seguita da un altro urlo.

— Il piombo morde! — esclamò l'indiano, raggiante. — Se puoi... Ah! Cane!... Padrone! Aiuto!...

Alì sorpreso e spaventato da quelle grida, alzò il capo e vide il prigioniero che era piombato addosso all'indiano serrandogli le dita attorno al collo, e facendo sforzi disperati per precipitarlo dal ramo.

— Ah! Traditore! — tuonò.

Sciapal, aggrappato strettamente al ramo che lo sorreggeva, non era in caso di difendersi per tema di piombare fra i serpenti. Resisteva colla forza della disperazione, ma il selvaggio spingeva sempre e minacciava di strangolarlo. Ad un tratto si udì un colpo secco, come un colpo di bastone avventato sul cranio d'un uomo. L'andamano emise un vero ruggito ed allentò la stretta. Quel colpo era stato vibrato da Narsinga. La brava piccina, che si trovava più alta di tutti, vedendo sotto di sé l'assalitore, aveva strappato un ramo secco e se n'era servita percuotendo, con quanta forza aveva, il cranio del prigioniero. Sciapal, che teneva fra i denti la pistola del capitano che aveva appena caricata, sentendosi libero, impugnò colla sinistra l'arma.

L'andamano, intontito dalla legnata, si era presto rimesso e stava per piombargli nuovamente addosso, balzando sul ramo come una scimmia, ma ricevette la scarica in pieno petto. Quantunque mortalmente ferito, cercò di tenersi stretto all'albero, ma Alì, furioso, si era alzato e afferratolo per una gamba lo strappò giù, precipitandolo fra i serpenti.

— Grazie, Narsinga — disse Sciapal, respirando a pieni polmoni.

— Le pistole! — urlò il capitano. — Presto, Sciapal, o quei furfanti sbarcheranno.

— Un momento solo, padrone.

La zattera si avanzava verso l'isolotto, ma senza fretta.

Gli uomini che la montavano continuavano a scagliare frecce ma senza successo, poiché il tronco dell'albero, che era grosso, bastava a nascondere gli assediati. Alì riprese il fuoco, cercando di abbattere i selvaggi che meglio scorgeva, ma l'oscurità non gli permetteva di mirare con precisione. Tuttavia al sesto colpo, un altro urlo lo avvertì che un altro nemico era caduto.

— E tre — diss'egli.

— No, quattro — corresse Sciapal. — Anche il prigioniero non è più nel numero dei viventi.

— Si decidono ad andarsene?

— Non ancora, padrone.

— Ecco un altro che si mostra! Prendi! Va' a casa del diavolo!

Un altro selvaggio cadde ferito o morto, ma la zattera non indietreggiò, ma non venne nemmeno innanzi. Gli andamani cominciavano ad avere paura di quelle armi, a quanto pareva.

Le frecce continuavano nondimeno a fischiare attorno all'albero, impedendo agli assediati di abbandonare il tronco protettore. Talvolta anche qualche lancia passava fra i rami sfrondandoli.

— Prendete! — urlava Alì, continuando a scaricare le armi.

— Accoppane un altro, padrone — diceva Sciapal, che gli porgeva le armi cariche.

— Come stiamo a munizioni? — chiese ad un tratto il capitano.

— Abbiamo quattro colpi soli.

— E non si decidono ad andarsene! Prendete, canaglie!

E sparò due altri colpi, ma senza frutto. Vedendo quel cattivo esito, si sentì bagnare la fronte da un freddo sudore.

— Sciapal!...

— Padrone!...

— Stiamo per venire presi o uccisi.

— Ecco i due ultimi colpi.

— E poi?

— Ho la scure.

— Non servirà contro le frecce.

— A te le pistole.

— Esito a bruciare le cariche, Sciapal.

— I selvaggi mi sembrano spaventati. Non si avanzano più.

— Ma non fuggono. Vada un colpo ancora!

Si spinse innanzi più che potè, mantenendo però il corpo riparato dietro al tronco e guardò. Un selvaggio si agitava sull'orlo della zattera, preparandosi a scagliare la lancia.

Lo mirò per qualche istante e bruciò la sua penultima carica.

L'assalitore si accasciò su se stesso, poi cadde nella palude, scomparendo sotto le nere acque.

— A te l'ultima palla — disse Sciapal.

Alì tremò nell'impugnare la pistola che l'indiano gli porgeva. L'aveva puntata due volte e due volte si era trattenuto. Stava per allungare il braccio per la terza volta, quando udì un sonoro latrato echeggiare in mezzo ai boschi.

Una pazza speranza gli balenò nel cervello.

— Sciapal! È Pandu! — gridò.

Un secondo latrato echeggiò, più acuto del primo. Sciapal mandò un urlo di gioia.

— Sì, Pandu! Pandu! — gridò.

— Ed odo delle grida — disse Narsinga.

— Dove? — chiese Alì.

— In mezzo ai boschi.

— Vada allora l'ultima palla!...

Ed abbattè un altro selvaggio che strepitava in mezzo alla zattera.