Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/XXI

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ALTRE DELUSIONI.


Ma egli l’adorava, e soffriva ancora. E avendo bisogno di conforto, lo tornò a cercar nella scuola. Ma era troppo tardi. La scuola non dà consolazioni che ai suoi amanti fedeli, e punisce più severamente i mutevoli che quelli che non l’hanno mai amata. La sua classe era in disordine, e l’autorità lo fomentava. Certo che il sindaco, il quale aveva preso in odio il maestro, non voleva ora ricominciare con lui una guerra a colpi di testa, come l’aveva fatta con la Galli, per uscirne con le corna rotte: egli s’era persuaso che ci voleva un’altra tattica, ch’era di rendergli la vita intollerabile a forza di piccole molestie continue. Quindi, nella scuola, dove l’inserviente non entrava più, s’andava ammontando il sudiciume; gli lasciavan mancare l’inchiostro e il gessetto per la lavagna; non davan più quaderni agli alunni poveri, che venivano con le mani vuote, e non facevan altro che disturbare. I ragazzi, i quali capivan da tutto questo che il municipio voleva metter fuori il maestro, alzavan la cresta in iscuola, gli consigliavan d’andarsene con delle iscrizioni sui muri, e si toccavan coi gomiti, nei banchi, sogghignando, quando egli diceva a quelli di seconda: — L’anno venturo vi farò far questo e quest’altro; — il che lo feriva nell’anima. Uno dei peggio era il figliuolo del liquorista assessore, un ragazzo sugli undici anni, il quale, ogni volta che il maestro ripetesse, come tutti hanno il vezzo, una frase o parola abituale, contraeva in una certa maniera la pelle del cranio, che tutta la sua capigliatura veniva giù, come una parrucca che si volesse staccare; ciò che esilarava tutta la scolaresca senza ch’ei lo potesse punire, perchè il birbo diceva che era un vizio di natura, che aveva fin da bambino. Un giorno, per altro, provocato fuor d’ogni modo, egli [p. 236 modifica]loFonte/commento: ed. 1890 cacciò dalla scuola, e quegli essendo ritornato con suo padre, ne seguì un diverbio in faccia alla classe, che gli scemò ancora la poca autorevolezza che gli restava. E quanto più questa gli scemava, tanto più egli cresceva in violenza. Arrivò presto a far l’atto di percuotere, poi a percuotere, prima leggermente, e poi sodo. N’ebbe la prima volta un pentimento amaro, poi vi fece l’assuefazione. Ma ne esperimentò subito i mali effetti. Con la violenza egli faceva una scolaresca di violenti. I ragazzi si scambiavano per la strada le ingiurie ch’egli scagliava loro nella scuola, e i giorni ch’egli batteva qualcuno, essi si tiravan dei calci fra di loro per una parola o per uno sguardo. Né, battendo, otteneva maggior obbedienza di prima. Si persuase in pochi giorni di quella gran verità che aveva inteso enunciare alla Scuola: che nella lotta col maestro collerico e manesco, il ragazzo, il quale intuisce che l’ira è debolezza, poichè non nasce da altro che dal dispetto di non sapersi far rispettare altrimenti, finisce sempre con vincere. Avendo egli riposto il potere nella mano, il suo sguardo e la sua voce non avevano più forza; quando faceva un rimprovero, i ragazzi gli guardavan la mano, e fin che quella non si movesse, sorridevano, e la stessa percossa con cui oggi egli rimetteva un alunno al dovere, non bastava più il giorno dopo, e gli bisognava rinvigorirla. E per quanto egli fosse inasprito, l’atteggiamento di cani battuti e percossi che assumevano al suo avvicinarsi gli alunni, lo umiliava. Vedeva che i caratteri si pervertivano e perdevano ogni dignità, e dagli sguardi dei ragazzi capiva che il solo sentimento durevole che destava in loro la percossa era, dopo quello della paura e del dolore, quel della vendetta. Già ne aveva una decina a cui leggeva in viso di continuo il proposito di fargli o presto o tardi del male. Perciò li odiava, e soffriva. E se qualche volta lo pigliava il rimorso, e tentava di tornar quello di prima, pacato e benevolo, notava subito nella scolaresca un atteggiamento di trionfo e di scherno, come in un nemico a cui si rendan l’armi per paura, e quell’atteggiamento gli risollevava nel cuore l’acrimonia e la collera. La scuola gli era diventata un supplizio, ed egli era infelice.