Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Camina/VI

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Il sindaco Lorsa

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IL SINDACO LORSA.


Tutte queste cose, che il maestro sentì dire a spizzico e ascoltò con viva curiosità nei primi giorni, non gl’impedirono di darsi pensiero della lentezza inesplicabile con cui s’andava facendo l’elenco degli obbligati, se pur ci si pensava; il che gli pareva un cattivo indizio. Egli era venuto con dei buoni propositi: che fosse cascato davvero, come gli aveva detto il collega briaco, in un paese dove avrebbe dovuto combattere col malvolere di autorità noncuranti od anche avverse alla scuola? Per uscire da quest’incertezza penosa decise d’andar dal sindaco a sollecitarlo in via indiretta, offrendosi di compilar l’elenco egli stesso.

Il sindaco parve seccato da quell’offerta. Ricevette il maestro in piedi, rivoltando fra le grosse mani una pipa di legno vuota, accanto al tavolo grande delle sedute, sul quale c’era una torre di Bollettini della Prefettura. Lo ringraziò; ma non c’era bisogno del suo aiuto. — Sarà fatto senza di lei... — disse — e in tempo debito... prima della fine del mese.

Il maestro osservò, con riguardo, che avrebbe desiderato d’aver l’elenco all’aprirsi della scuola, per cominciar regolarmente.

— Si comincierà regolarmente lo stesso, — rispose il sindaco. — Non cascherà il mondo se manca l’elenco. Ora abbiamo un monte di cose....

— Dicevo, — ripetè il maestro, — per poter agire fin da principio sui parenti dei mancanti.... perchè, se si fa subito, come lei sa, fa più effetto.

Il sindaco stette un momento muto. [p. 96 modifica]

— I mancanti, i parenti... — disse poi; — si vedrà. Hanno tutti una smania.... Capisco la legge... ma l’Italia non vorrà andare in rovina se qualche ragazzo tarderà una settimana a venire a scuola.

Il maestro lo guardò con stupore; e un altro stupore gli s’aggiunse al primo posando lo sguardo e la mano sopra la torre di quei bollettini mensili, contenenti le circolari e i regolamenti relativi all’istruzione, che la Prefettura manda ai sindaci; i fogli erano tutti intonsi.

— Ma, — osservò, dissimulando il suo sentimento, — lei sa che i ragazzi che perdon le prime lezioni, ci vuol poi doppia fatica a metterli al corrente, e si fa del danno a tutti gli altri.

— O santo Iddio! — esclamò il sindaco, scrollando le spalle e mettendosi a camminare per la stanza, — son tutti ad un modo loro.... Credono tutti di rimettere le brache al mondo con quattro lezioni. Io ho le mie idee. Io dico: istruire, va bene.... Ma non bisogna poi pensare che un uomo non possa essere un uomo fuori di lì. Intendo di dire.... Lei, certo, come maestro, è naturale che la pensi in un altro modo....

E dopo una pausa, come per ispirazione improvvisa: — Vede quegli alberi? — gli disse con l’aria di chi vuol persuadere celiando, e gli accennò i pioppi che s’alzavano sopra le case dal lato opposto della piazza. — Sono diventati grandi e grossi, e non sono mai andati a scuola.

Il maestro guardò i pioppi, senza rispondere.

— Dico per dire, — s’affrettò a soggiungere il sindaco per attenuare la mala impressione delle sue parole: — è una mia idea. Del resto, provvederemo all’elenco.

E per far piacere al maestro, gli disse che aveva dato ordine di rimettere due vetri rotti nella sua scuola.

— Le occorre altro?


Al maestro non occorreva altro davvero, e se n’uscì sconfortato, vedendo già i banchi della sua scuola mezzo vuoti, l’insegnamento intralciato, l’ispettore malcontento. Senonchè un altro sentimento gli sottentrò: una curiosità viva del come si potesse spiegare che uomini nati dal popolo infimo e saliti, acquistando l’agiatezza, in una classe superiore, non solo non fossero propugnatori appassionati dell’istruzione della loro classe originaria, ma [p. 97 modifica]quando afferravano il potere nei comuni, la combattessero. Egli non sapeva, lì per lì, darsi altra spiegazione che quella di una ripugnanza naturale che essi provassero ad occuparsi d’una materia della quale non s’intendevano, e in cui, per conseguenza, dovevan prender lezioni da tutti. Le ragioni vere, che eran tutt’altre, egli non aveva sufficiente esperienza del mondo da poterle scoprire da sè. Il sindaco di Camina, come molti altri, era uno di quegli ambiziosi risaliti, nei quali, a un segreto desiderio di tener bassa nell’estimazione pubblica la classe su cui si sono inalzati, appunto per far parere più alto, e dovuto a meriti rarissimi, il loro inalzamento, s’unisce un dispregio sincero della cultura che non hanno, non solo perchè, avendo fatto fortuna senza di quella, la ritengono inutile, ma perchè credono davvero che essa indebolisca e fuorvii le facoltà semplici e rudi con cui essi sono riusciti; oltrechè l’odiano perchè nasce dal paragone di chi la possiede la non sufficiente estimazione in cui pare a loro d’esser tenuti nel mondo. Al signor sindaco Lorsa, del bel numer uno, venuto su per forza d’ingegno naturale, e con una costanza ferrea di quarant’anni nella fatica e nella parsimonia, parevano ridicolaggini tutte quelle quisquiglie grammaticali, quell’agronomia letteraria, quell’arruffìo di cognizioni generali ed astratte, in nome delle quali si promettevano tante cose ai ragazzi nati nella sua condizione. Delle centinaia di ragazzi ch’erano andati a scuola nel suo paese dopo ch’era data fuori questa febbre dell’istruzione pubblica, egli non n’aveva visto uno solo, che avesse fatto una riuscita straordinaria; e questo era il suo grande argomento. Incapace di comprendere gli effetti lontani del lento accumularsi delle cognizioni e delle idee di generazione in generazione, e del perfezionarsi continuo delle facoltà intellettuali ereditate e trasmesse, cercando egli soltanto i frutti immediati e palpabili, non gli pareva che questi valessero le noie che la scuola recava alle Autorità, il disturbo che portava alle famiglie, e il vampo enorme che se ne menava. Gli pareva, anzi, una vera e propria ciurmerìa. Per lui, ispettori, provveditori, programmi, premi, discorsi... eran ciarlatani e ciarlatanate. Era in piena buona fede. E in queste idee lo teneva fermo in particolar modo l’esperienza dei propri figliuoli,Fonte/commento: ed. 1890 [p. 98 modifica]due dei quali, i più grandi, egli aveva avviato agli studi, sul primo mutare della sua fortuna, facendo dei gravi sacrifizi. Il maggiore, arrivato fino alla terza ginnasiale, a Torino, aveva tutt’a un tratto piantato il latino e l’italiano, per entrar garzone in una bottega di confettiere. Il secondo, diventato ufficiale delle Poste, e ficcatosi nella società signorile, gli aveva fatto dei chiodi, l’aveva offeso, nei suoi brevi ritorni in paese, con un disprezzo beffardo della casa paterna, delle sue origini e della sua vita, tanto ch’egli s’era disgustato a morte con lui. E a tal punto, per questi fatti, gli eran venuti in odio gli studi, che s’era deciso di lasciare alla campagna il terzo figliuolo, nato da una seconda moglie; il quale, d’altra parte, mostrava di sentir per la scuola la stessa propensione che pel camposanto. Avendo poi letto un giorno in una gazzetta un brano d’una relazione d’un provveditore, il quale diceva: — la scuola elementare in Italia, fatte le debite eccezioni, non educa i fanciulli, istruisce poco, desta precoci ambizioni e non fa amare il lavoro, — questa sentenza gli era rimasta piantata immobile nel cervello, come un responso d’oracolo, e intorno ad essa era andato sempre avvolgendo e stringendo il filo delle sue idee antiche, fino a farne un nodo che nessuna forza o finezza di ragione contraria avrebbe più potuto disfare. Quando era venuta la legge dell’istruzione obbligatoria, egli, già sindaco, l’aveva accolta con una scrollata di spalle. Gli elenchi degli obbligati non eran mai pronti che verso la fine dell’anno scolastico; le ammonizioni ai parenti eran date con un ritardo ridicolo di quindici giorni, quando eran date; di ammende nessuno aveva mai parlato; e il disaccordo tra lui e il maestro antecedente, che aveva finito con doversene andare, non era nato da altro che da questo: che il maestro s’era rifiutato di eseguire l’ordine suo, di non notare le assenze degli alunni, o di notarle giustificate, e di dichiarare assenti dal paese o morti quelli che dopo tre quattro mesi non s’erano ancor presentati alla scuola. La sua avversione per la scuola s’era naturalmente inasprita in questo contrasto, a segno che un giorno, avendo visto nelle mani d’un suo contadinello un libro intitolato L’agricoltore istruito, glie l’aveva strappato di mano e buttato dalla finestra.