Il tulipano nero/Parte seconda/XI
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XI
Il terzo Tallo.
L’annunzio della venuta di Boxtel era appena dato che egli entrò in persona nel salone del signor Van Herysen, seguito da due uomini portanti in una cassa il prezioso peso, che fu depositato sopra una tavola.
Il principe prevenuto, lasciò lo scrittoio, passò nel salone, ammirò e tacque; quindi tornò silenziosamente a prendere il suo posto nell’angolo oscuro, dove da se stesso aveva collocato la sua seggiola a braccioli.
Rosa palpitante, pallida, esterrefatta, aspettava di essere alla sua volta invitata per andare a vederlo.
Sentiva la voce di Boxtel.
— Gli è lui! ella esclamò.
Il principe fecele segno che ella guardasse dalla porta socchiusa: e Rosa esclamò:
— È il mio tulipano! è lui, lo riconosco. O mio povero Cornelio!
E si struggeva in lacrime.
Il principe alzossi e andò fino alla porta, dove rimase per un istante alla luce.
Gli occhi di Rosa si fermarono su di lui; e più che mai si convinse che quella non era la prima volta che ella avesse veduto quello straniero.
— Signor Boxtel, disse il principe, entrate.
Boxtel accorse frettoloso e trovossi faccia a faccia con Guglielmo d’Orange.
— Sua Altezza! esclamò tirandosi indietro.
— Sua Altezza! ripetè Rosa tutta stordita.
A questa esclamazione venuta dalla sua sinistra, Boxtel si volse, e vide Rosa.
A questa vista tutta la persona dell’invidioso si scosse come al contatto della pila voltaica.
— Ah! mormorò tra sè il principe, egli si è turbato.
Ma Boxtel con uno sforzo potente sopra di sè, erasi già rimesso.
— Signor Boxtel, disse Guglielmo, parrebbe che voi aveste trovato il segreto del tulipano nero?
— Sì, mio Signore, rispose Boxtel con una voce che rivelava un po’ di turbamento.
È vero che il turbamento poteva originare dalla emozione provata dal tulipaniere nel riconoscere Guglielmo.
— Ma, riprese il principe, ecco una giovine che ha pure la stessa pretensione.
Boxtel sorrise di sdegno e fece una spallata.
Guglielmo notava tutti i suoi movimenti con uno interessamento di rimarcabile curiosità.
— Del pari, non conoscete punto questa giovine?
— No, mio Signore.
— E voi, ragazza, conoscete Boxtel?
— No, non conosco il signor Boxtel, ma conosco il signor Giacobbe.
— Che volete voi dire?
— Voglio dire che a Loevestein, costui, che si fa chiamare Isacco Boxtel, chiamavasi signor Giacobbe.
— Che rispondete, signor Boxtel?
— Dico, mio Signore, che questa giovine mentisce.
— Voi negate di non essere mai stato a Loevestein?
Boxtel esitò; l’occhio fisso e imperiosamente scrutatore del principe impedivagli di mentire.
— Non posso negare di essere stato a Loevenstein, mio Signore, ma niego di avere rubato il tulipano.
— Me l’avete rubato e di camera mia! esclamò Rosa indignata.
— Lo niego.
— Ascoltate; niegate voi d’avermi seguito nel giardino il giorno, in cui io preparava la casella, dove io doveva sotterrarlo? Niegate voi d’avermi seguito nel giardino il giorno, in cui io finsi di piantarlo? Niegate voi quella sera stessa d’esservi gettato, dopo la mia partenza, sul luogo dove voi speravi di trovare il tallo? Niegate voi di aver frugato la terra con le vostre mani, ma inutilmente per grazia di Dio, perchè non era che una furberia per conoscere le vostre intenzioni? Dite, mi negherete tutto questo?
Boxtel non giudicò punto a proposito di rispondere a queste diverse interrogazioni; ma lasciando la polemica suscitata da Rosa e volgendosi al principe, disse:
— Sono venti anni, mio Signore, che coltivo tulipani a Dordrecht; ho parimente acquistato in quest’arte una certa reputazione: uno dei miei ibridi portò in Catalogna un nome illustre. L’ho dedicato al re di Portogallo. Ora ecco la verità. Questa ragazza sapeva che io aveva trovato il tulipano nero e di concerto con un suo amante, che ha nella fortezza di Loevestein, si è formata il progetto di rovinarmi coll’appropriarsi il premio de’ cento mila fiorini, che otterrò, spero, in grazia della vostra giustizia.
— Oh! esclamò Rosa soffogata dalla collera.
— Silenzio! disse il principe.
Poi volgendosi a Boxtel, gli disse:
— E chi è questo prigioniero che voi dite amante di questa ragazza?
Rosa fu per isvenirsi, perchè il prigioniero era raccomandato dal principe come un gran colpevole.
Niuna cosa poteva essere più aggradevole a Boxtel di questa dimanda.
— Qual’è il prigioniero? rispose Boxtel.
— Sì.
— Il prigioniero, mio Signore, è un uomo, il di cui nome solo proverà all’Altezza Vostra, qual fede possa prestargli: è un reo di Stato, condannato già alla morte.
— E si chiama?...
Rosa nascose il viso nelle sue mani con un movimento disperato.
— Si chiama Cornelio Van Baerle, disse Boxtel, ed è il vero figlioccio dello scellerato Cornelio de Vitt.
Il principe si scosse, il suo occhio calmo gettò una favilla, e il freddo di morte si stese di nuovo sul suo viso impassibile.
Egli appressossi a Rosa e fecele segno col dito di togliersi le mani dal viso. Rosa obbedì, come avrebbe fatto senza vedere una donna sottomessa al magnetismo.
— Per costui dunque veniste a dimandarmi a Leida la premuta di vostro padre?
Rosa abbassò il capo e mormorò disperata:
— Sì, mio Signore.
— Continuate, disse il principe a Boxtel.
— Non ho altro a dire, seguitò costui, Vostra Altezza sa tutto. Ora ecco ciò che io non voleva dire per non fare arrossire questa fanciulla della sua ingratitudine. Sono andato a Loevestein, perchè i miei affari mi vi richiamavano; hovvi fatto conoscenza col vecchio Grifo, sonomi innamorato di sua figlia, l’ho chiesta in moglie e, come io non era ricco, le ho confidato la mia speranza di conseguire cento mila fiorini; e per giustificare questa mia speranza, le ho mostrato il tulipano nero. Allora, siccome il suo amante, a Dordrecht per dare la polvere negli occhi su i complotti che ei tramava, affettava coltivare tulipani, ambedue hanno macchinato la mia perdita. La vigilia della fioritura del fiore, il tulipano mi fu involato da questa ragazza, portato in camera sua, donde ho avuto la fortuna di riprenderlo al momento in cui ella aveva l’audacia di spacciare un espresso per annunziare ai signori Membri della società di orticoltura, che l’aveva trovato il gran tulipano nero; ma la non si è discreduta per questo. Senza dubbio, le poche ore che lo ha tenuto in camera sua, avrallo mostrato a qualcheduno che chiamerà in testimonio? Ma fortunatamente, mio Signore, eccovi prevenuto contro questa intrigante e contro i suoi testimoni.
— Oh! mio Dio! mio Dio! Oh! profferì Rosa lacrimando e gettandosi ai piedi dello Statolder, che per quanto la stimasse colpevole, sentiva pietà della di lei terribile angoscia.
— Voi avete male operato, o ragazza diss’egli, e il vostro amante sarà punito per avervi così consigliata; perchè siete così giovane e avete l’aria così buona, che mi giova credere che il male venga da lui e non da voi.
— Mio Signore, mio Signore! esclamò Rosa, Cornelio non è colpevole.
Guglielmo fece un movimento.
— Non colpevole di avervi consigliata. Volete dir questo, non è vero?
— Io voglio dire, mio Signore, che Cornelio non è colpevole tanto del primo che del secondo delitto, che gli si vuole imputare.
— Del primo? E sapete voi qual sia il suo primo delitto? Sapete voi di che sia stato accusato e convinto? D’avere, come complice di Cornelio de Witt, conservata la corrispondenza del gran pensionario e del marchese di Louvois.
— Ebbene, mio Signore, egli ignorava di essere detentore di tale corrispondenza; la ignorava completamente. Eh! mio Dio! me l’ha detto lui. Quel cuore per adamantino che fosse, qual segreto mai avrebbe avuto per me? No, no, mio Signore, lo ripeto, dovessi io incontrare anco la vostra collera, Cornelio non è colpevole tanto del primo che del secondo delitto. Oh! se voi, mio Signore, conosceste il mio Cornelio!
— Un de Vitt! esclamò Boxtel. Oh! mio Signore, lo conoscete pur troppo, dacchè gli faceste grazia della vita.
— Silenzio, disse il principe. Tutte queste cose di Stato, l’ho già detto, non interessano punto la società orticola di Harlem.
Poi aggrottando il sopracciglio:
— Quanto al tulipano, siate tranquillo, signor Boxtel; sarà fatta giustizia.
Boxtel col cuore pieno di gioia fece un inchino, e ricevette le congratulazioni del presidente.
— Voi, ragazza, continuò Guglielmo d’Orange siete caduta in un grave delitto, di cui non già punirò voi; ma il vero colpevole la pagherà per tutti e due. Un uomo del suo calibro può cospirare, tradire ancora... ma non mai rubare.
— Rubare! esclamò Rosa, rubare! lui, Cornelio! Oh! Signor mio, non lo dite; ei morrebbe, se ascoltasse le vostre parole! che le vostre parole ucciderebberlo più sicuramente che non fece la scure del boia sul Buitenhof. Se v’è furto, mio Signore, quest’uomo, ve lo giuro è il ladro.
— Provatelo, disse freddamente Boxtel.
— Ebbene, sì. Coll’aiuto di Dio lo proverò, disse la Frisona con molta energia. Poi voltatasi a Boxtel:
— Il tulipano era vostro?
— Sì.
— Quanti talli aveva?
Boxtel esitò un momento; ma comprese che la giovine non farebbe cotale dimanda, se soli esistessero i due talli conosciuti.
— Tre, disse.
— Di che ne sono stati? dimandò Rosa.
— Di che ne sono stati?... Uno è abortito, l’altro ha dato il tulipano nero...
— E il terzo?
— Il terzo?
— Il terzo dov’è?
— Il terzo l’ho io, disse Boxtel tutto turbato.
— L’avete voi? dove? A Loevestein o a Dordrecht?
— A Dordrecht, rispose Boxtel.
— Mentite, esclamò Rosa. Mio Signore, soggiunse volgendosi al principe, vi andrò a raccontare io la la vera storia dei tre talli. Il primo è stato calpestato da mio padre nella stanza del prigioniero, e costui lo sa benone, perchè sperava d’impossessarsene; e quando vide svanita la sua speranza, si mise a maltrattare mio padre, perchè operando in quel modo aveagli tolto di effettuarla. Il secondo da me custodito ha dato il tulipano nero, e il terzo e ultimo (la giovane se lo cavò di seno) eccolo qui nello stesso foglio che involtava gli alti due, quando prima di montare il patibolo, Cornelio Van Baerle davameli tutti e tre. Prendete, mio Signore, prendete.
E Rosa svolgendo il tallo dal foglio, lo porse al principe, che preselo in mano per esaminarlo.
— Ma, mio Signore, questa ragazza non me lo potrebbe avere rubato come il tulipano? borbottò Boxtel spaventato dell’attenzione, con la quale il principe esaminava il tallo, e specialmente di quella che ponea Rosa a leggere alcune linee tracciate sul foglio rimasto in mano sua.
Ad un tratto gli occhi della giovine s’infiammarono, rilesse ansante quel foglio misterioso, e cacciando un grido, lo porse al principe, dicendo:
— Oh! leggetelo! mio Signore; a nome del cielo, leggetelo!
Guglielmo passò il terzo tallo al presidente, prese il foglio e lesse.
Appena vi ebbe gettato gli occhi, che tentennò; la sua mano tremante lasciò quasi cadere la carta; e i suoi occhi presero una espressione di dolore e di pietà.
Il foglio datoli da Rosa, era la pagina della Bibbia che Cornelio de Vitt aveva spedita a Dordrecht a mano di Craeke cameriere del suo fratello Giovanni, per pregare Van Baerle che bruciasse la corrispondenza del gran Pensionario con Louvois.
Cotal preghiera, si ripete, era concepita in questi termini:
- «Caro figlioccio!
Brucia il deposito che ti ho confidato, brucialo senza guardarlo, senza aprirlo, affinchè ti sia sconosciuto. Son di tal genere i segreti, che ucciderebbero il depositario. Brucialo, e avrai salvato Giovanni e Cornelio.
Amami, addio.
- 20 Agosto 1672.
Cornelio de Vitt.
Questo foglio era ad un tempo la prova della innocenza di Van Baerle e il suo titolo di proprietà sul tallo del tulipano.
Rosa e lo Statolder cambiarono un solo sguardo.
Quello di Rosa voleva dire: «Voi vedete bene!»
Quello dello Statolder significava: «Silenzio e attendete».
Il principe asciugossi una goccia di sudor freddo che gli era colata dalla fronte alla guancia. Piegò lentamente il foglio, lasciando sprofondare col pensiero i suoi sguardi nell’abisso senza fondo e senza risorsa che chiamasi pentimento e vergogna del passato.
Ben presto rialzando il capo con isforzo, disse:
— Andate, signor Boxtel, sarà fatta giustizia; ve l’ho promesso.
Poi al presidente:
— Voi, mio caro Van Herysen, custodite qui questa ragazza e il tulipano. Addio.
Tutti s’inchinarono, e il principe escì ricolmo di numerose acclamazioni popolari.
Boxtel se ne tornò al Cigno Bianco molto inquieto. Quel foglio che Guglielmo avea ricevuto dalle mani di Rosa, che avea letto, piegato e messo in tasca con tanta cura, quel foglio inquietavalo.
Rosa si accostò al tulipano, ne baciò religiosamente le foglie e confidossi del tutto in Dio, mormorando:
— Dio mio! voi sapete il buon fine, per cui Cornelio insegnommi a leggere!
Sì, e Dio lo sapeva, dacchè egli punisce e ricompensa gli uomini secondo i meriti loro.