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Il vicario di Wakefield/Capitolo trentesimosecondo

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Capitolo trentesimosecondo

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo trentesimosecondo
Capitolo trentesimoprimo
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CAPITOLO TRENTESIMOSECONDO.

Conclusione.

Risvegliatomi la dimane, trovai seduto sulla sponda del letto il mio figliuolo maggiore, venuto a porre il colmo alla mia contentezza colla novella d’un’altra fortuna per me. Perocchè, scioltomi dall’obbligazione che io avevagli il dì innanzi fatta, narrommi che il mio mercatante fallito era stato imprigionato ad Anversa, ed ivi aveva rassegnate sostanze da pagare ogni debito e sopravanzarne. Tanto piacquemi la generosità del giovanetto, quasi quanto un così inaspettato e felice avvenimento: ma mi nacque il dubbio s’io giustamente potessi accettare la profferta sua. Mentre che io per tale cagione me ne stava sovra pensieri, entrò in camera il signor Guglielmo al quale partecipai questo mio scrupolo; e fui intorno a ciò a ragionamento seco lui. Però egli manifestommi il parer suo, dicendo che le nozze di mio figliuolo apportando già a lui abbondanti ricchezze, senza esitare io poteva accogliere la rinunzia che colui faceva alle sei mila lire. Indi pregommi che io assistessi quella mattina agli sponsali per cui egli aveva la notte già mandato a [p. 216 modifica]prendere le licenze, e col non partire rendessi felice compiutamente la bella compagnia.

Non avevamo ancora finito di dire, quando un valletto ci avvisò essere giunto il messo colle carte cercate. Quindi mi diedi in fretta a vestirmi; e com’ebbi poi terminato, scesi abbasso, ove rinvenni ognuno da quella allegrezza compreso che gli agi somministrano e l’innocenza. Tuttavolta non andommi a genio gran fatto lo sghignazzare di quelli nel momento stesso in cui stavano preparandosi ad una cerimonia ch’era tanto solenne. Però dissi loro di che austero e sublime e conveniente contegno era mestieri per accostarsi a quel sacro mistico rito; ed affine di ben disporli, lessi loro due omelie ed una delle mie dispute. Ma essi, ad onta di tutto questo, non si lasciavano piegare; nè della mia serietà tenevano conto. Anche nell’andata alla chiesa, camminando tutti dietro a me, sdimenticarono affatto il portamento grave che loro si addiceva; per lo che più volte mi venne talento di ritornarne indietro sdegnato.

Ma in chiesa un altro dilemma destossi di non facile scioglimento, qual coppia cioè si dovesse sposare per la prima; perocchè insisteva caldamente la sposa di mio figliuolo nel voler dare la preminenza a madama Thornhill; ma scansava l’altra quell’onore con pari disinvoltura, dicendo non volere ella per cosa niuna del mondo commettere tanta inciviltà. E con uguale caparbieria e buona creanza dall’una parte e dall’altra si mantenne viva per lungo tempo la contesa; mentre che io col mio libro aperto in mano me ne stava ritto ritto aspettandone la fine. Stanco poscia ed annoiato de’ cinguettamenti, lo chiusi; e tenni loro questo corto ragionamento: “E’ pare che non vi vogliano essere nozze quest’oggi; e poichè nè l’una nè l’altra le brama, migliore partito è il ritornare a casa.”

Non fu d’uopo di più dire, perchè elle dessero luogo alla ragione: e ’l baronetto fu il primo a porre l’anello [p. 217 modifica]alla Sofia; poi il mio figliuolo non diede indugio a seguitare un sì fatto esempio colla sua vezzosissima sposa.

Io aveva già mandato sull’alba una carrozza a prendere il mio buon vicino Flamborough e la sua famiglia. E tornati noi dalla chiesa, avemmo la soddisfazione di ritrovarvi già arrivate le due fanciulle di quell’uomo dabbene. Alla maggiore di quelle dava braccio il signor Jenkinson, ed all’altra il mio figliuolo Mosè ch’io mi accorsi dappoi incapriccirsi davvero della zittella. E Dio il benedica; perocchè io non negherogli mai il mio consenso all’accasamento di lui, ogni volta ch’egli me ne faccia inchiesta; nè in onorare le sue nozze terrò stretta la borsa. Non avevamo ancora posto piede nell’osteria, che una turba vi giunse de’ miei parrocchiani per congratularsi meco de’ miei fortunati eventi; e fra questi vedevansi que’ meschinelli istessi che s’erano ammutinati per liberar me dalle mani de’ bargelli, e ch’io aveva tanto severamente garriti. Quindi io raccontai quel fatto al mio genero il signor Guglielmo, che uscito fuori ne li rampognò di bel nuovo con dure parole. Ma vedendoli oltremodo affliggersi, diede a ciascuno di loro una mezza ghinea, onde far brindisi alla salute di lui, e temperare l’amarezza de’ loro cuori.

Fummo, poco stante, chiamati ad un divertimento grazioso apprestatoci dal cuoco dello scudiero Thornhill. Il nome di quest’ultimo torna in acconcio per dire come egli ora meni la sua vita in casa d’un suo parente che lo guarda di buon occhio e lo fa sedere sempre alla sua mensa; se ne levi però poche volte nelle quali sopraggiungendo molti forestieri talchè per lui non v’abbia luogo, tocca al signor Thornhill di porsi alla vicina credenza: perchè con lui non si sta sulle cerimonie. E il tempo ei lo consuma in tenere compagnia a quel suo ospite, in disgombrarne la malinconia a cui quegli si dà di frequente, e in apprendere a sonare il corno. Ma la maggiore delle mie figliuole si ricorda ancora di lui, e [p. 218 modifica]rincrescimento ne sente misto di compassione; dicendomi perfino un giorno la poveretta che, s’egli s’emenda, ella s’indurrà a perdonargli. Queste cose per altro furono da lei a me confidate in segreto; nè io le rivelo ad uomo del mondo. Ma per ritornare a proposito, poichè mi avveggo di non avere buona mano a far digressioni, dico che nell’entrare a tavola la noia de’ complimenti si rinnovellò, insorta essendo quistione se la Olivia, come matrona, dovesse o no avere scranna più onorata delle due novizie. Ma Giorgio tagliò le ciarlerie in bocca a ciascuno, proponendo che ogni uomo sedesse indistintamente a lato alla sua dama. Però tutti furono contenti di questo accomodamento, e fecero plauso. Ma non così mia moglie a cui ciò non andava a sangue gran fatto, sperando la buona donna, a quello che mi sembrò, di mettersi ella in capo alla tavola, e trinciare le vivande per tutta la comitiva; della quale cosa ell’era proprio ghiotta.

Nondimeno però, ad onta di questa leggiera traversia della madre, fu tanta la giocondità di quel banchetto che non varrebbero mille penne a descriverla. Nè io so dire se i nostri ingegni avessero cambiata natura o fossero diventati più acuti e vivaci: so bene che le sghignazzate furono tali che mai non ci eravamo spassati tanto in vita nostra; e ciò tutt’uno a me pare.

D’uno scherzo, fra i molti, ben mi ricorda, di cui prese diletto ciascuno di noi. Beveva il vecchio signor Wilmot alla salute di mio figliuolo il quale, tenendo a lui rivolte le spalle, mirava altrove. Allora Giorgio, udito il brindisi, rispose: “Madama, te ne ringrazio.” Per lo che, l’altro accennando a noi tutti, ci fece accorti come colui pensasse alla sua bella; e poco mancò che le due Flamboroug non si disfacessero dalle risa. Come prima fu terminato il pranzo, seguendo l’antica mia usanza, chiesi che fossero rimosse le tavole, onde con sommo diletto vedere di bel nuovo accolta la mia famiglia tutta intorno ad un focolare darsi buon tempo. Quindi i due bambini [p. 219 modifica]salirono sulle mie ginocchia, e gli altri si adagiarono a canto alle loro donne.

Non eravi più cosa oramai ch’io desiderassi al di qua della tomba, poichè tutti gli affanni erano terminati, e la mia consolazione non si poteva con parole narrare. Però non mi restava che di trovare modo onde nella prospera fortuna la gratitudine dell’animo mio superasse la mia passata rassegnazione nell’avversa.






fine.