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Il vicario di Wakefield/Capitolo trentesimoprimo

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Capitolo trentesimoprimo

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo trentesimoprimo
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CAPITOLO TRENTESIMOPRIMO.

Il precedente benefizio ripagato con inattesa usura.

Comparve il signor Thornhill coll’usato sorriso sul labbro, ed avviossi diritto allo zio per abbracciarlo. Ma quegli con isdegnoso volto ributtandolo, gli parlò con severa voce tali parole: “Non fa d’uopo ora di lisciamenti e moine. L’unica via per guadagnarsi il mio cuore è l’onore; ma queste ch’ora m’hai date sono prove di viltà, di codardia, d’oppressione. E perchè questo povero vecchio a cui ti dicevi amico, è ora così duramente trattato? Fu egli guiderdone alla sua ospitalità il sedurgli con infami arti la figliuola, il gittar lui in una prigione, per avere egli forse sentita profondamente l’ingiuria? E questo figliuolo di lui col quale tu temesti di venire al paragone, quasi uomo egli non fosse...?”

E il nipote interrompendolo: “Può egli mio zio rinfacciarmi come delitto il non avere io accettato ciò che le sole sue ammonizioni a me ripetute m’hanno insegnato di schifare?”

“Il tuo rifiuto è giusto; in questa occasione ti sei comportato da uomo savio, quantunque non come avrebbe fatto tuo padre. Il mio fratello aveva l’anima calda d’onore; ma tu.... Pure questa volta hai operato prudentemente; e te ne lodo.”

“Nè credo che sia da biasimarsi nel resto la mia [p. 199 modifica]condotta. Io intervenni ad alcune pubbliche feste in compagnia della figliuola di questo gentiluomo. Ad una sì fatta galanteria lo scandalo diede titolo più turpe; e fu detto ch’io avessi violata la fanciulla. Però andai io da suo padre affine di porre in chiaro ogni cosa a intera soddisfazione di lui; ed egli con ingiurie mi accolse ed oltraggi. Perchè egli sia qui, domandatene il mio procuratore e ’l capocastaldo ai quali io abbandono interamente il governo delle faccende domestiche. S’egli ha contratti dei debiti, e non vuole o non può pagarli, sta in mano di quelli il giovarsi dei mezzi che somministra a tale uopo la legge: nè io veggo in ciò crudeltà od ingiustizia.”

“Se il vero tu narri, meriti facilmente perdono. E quantunque avresti potuto mostrarti più generoso nel non sofferire che questo gentiluomo venisse oppresso dalla tirannia de’ tuoi dipendenti, pure può dirsi almeno non ingiusta la tua maniera di procedere.”

“Egli non può negare una sola parola di quanto dissi. E’ faccia pure se gli dà l’animo: ben molti de’ miei servi saranno testimoni della verità. Ecco dunque, o zio,” continuò egli vedendomi stare zitto, perchè in fatto contradire al racconto di lui io non poteva, “ecco giustificata la mia innocenza. Ma quantunque per amor vostro io sia pronto a perdonare a costui ogni offesa; pure l’avere egli tentato di farmi scadere della vostra stima, intanto che il suo figliuolo mi cercava a morte, mi solleva in cuore tal rabbia cui io non so frenare. E tanto mi par nero codesto delitto, ch’io ho fermo nel pensiero di lasciar libero corso alle leggi. Però meco ho la lettera di disfida e due testimoni; e un altro de’ miei servi è a casa ferito a malo modo. E s’anche mio zio istesso, che non credo, tentasse di dissuadermene, voglio pubblica vendetta averne; ed egli in pace lo soffra.”

“Ahi mostro!” esclamò mia moglie; “non se’ tu vendicato abbastanza, senza che il mio povero figliuolo senta tutta la tua crudeltà? Ma spero che il buon signor [p. 200 modifica]Guglielmo vorrà proteggerci; perchè il mio Giorgio è innocente, innocente come un bambino, e non fece mai male ad uom del mondo.”

“Madama,” soggiunse l’onesto signor Guglielmo, “i vostri voti per la salvezza di lui non sono no maggiori de’ miei; ma mi duole di scorgere a sì chiaro indizio manifesta la sua colpa. E se ’l mio nipote persiste....” Ma gli tolse il più dire la venuta di Jenkinson coi due birri, li quali strascinavano dentro un uomo alto della persona, vestito di bei panni, e di figura in tutto corrispondente alla descrizione già data di quel tristo che aveva rapita la mia figliuola. “Eccolo,” esclamò Jenkinson dandogli di pinta vêr noi, “eccolo nel calappio il mascalzone; e se vi ha mai degno candidato per le forche, egli è certo costui cui spetta il capestro.”

Il signor Thornhill, al vedere quel prigioniero e Jenkinson che l’afferrava nel collo, parve far tre passi indietro atterrito. Gli imbiancò subitamente il volto la coscienza del suo delitto; ed ei tentò di spiccare uno scambietto che lo scapolasse. Ma avvedutosi Jenkinson del suo disegno, gli pose la branca addosso e ’l trattenne, gridando; “Or che ha ella, signor scudiero, che fa cotal viso? Le danno vergogna i suoi due buoni amici antichi, Jenkinson e Baxter? Già i gran personaggi sogliono dimenticare sempre così le amicizie loro: ma noi non ci scorderemo no di vossignoria.” E rivolgendosi al signor Guglielmo, “Codesto malandrino,” disse, ch’io qui conduco ha già confessato tutto. Questi è quel tale che si spacciava per ferito mortalmente. Egli dichiara che fu il signor Thornhill quegli che gli mise in campo una tale impresa, che gli prestò gli abiti onde poter fare il signore, e gli pagò la carrozza da posta. S’erano tra di loro a questo accordati: che costui dovesse rapire la fanciulla, menarla in luogo sicuro, ed ivi con minacce spaventarla; e che il signor Thornhill, sopraggiungendo come a caso, dovesse far vista di riscattarla dalle mani del fellone [p. 201 modifica]braveggiando collo stocco: quindi l’altro dopo quattro spadacciate al vento l’avrebbe data a gambe, lasciando intera la vittoria al signor Thornhill, il quale colla bella favola d’esserne il liberatore, si sarebbe ingegnato di amoreggiare colla fanciulla e farsegli grato.

Riconobbe il signor Guglielmo l’abito di Baxter essere del nipote, avendoglielo sovente veduto indosso. E con più circostanziato racconto il prigioniere istesso avverò ogni cosa, fino a dire che il signor Thornhill gli aveva spesse volte con disconce parole fatto palese, lui essere innamorato di tutte e due le sorelle ad un medesimo tratto.

“Ahi qual serpente nodriva io nel mio seno!” esclamò il signor Guglielmo. “E ardiva quel perfido fingersi zelatore della giustizia! Bene sta; avralla quale ei la merta. Presto, o carceriere, le manette a costui.... Ma no t’arresta; perocchè non è forse evidenza questa che basti per lo dovere legare.”

Allora il signor Thornhill, tutta umiltà, pregò che non si ammettesse per valida la testimonianza di due rinnegati mangiaferri; ma che si ponessero ad esame i suoi servi. “Tu non hai più servi,” rispose il signor Guglielmo; “nè tuoi più chiamarli, o sciagurato. S’odano tuttavolta costoro. Voglio ancora di tanto esserti pietoso. Venga il canovaio di lui.”

Chiamato il canovaio; ed entrato quegli alla presenza di noi, s’accorse dall’aspetto turbato del suo padrone che tutto il potere di colui era ito in fumo. “Dimmi,” gridò severamente il signor Guglielmo; “vedestù mai il tuo padrone in compagnia di quel mariuolo vestito de’ panni di lui?” Rispose l’altro che mille volte l’aveva veduto bazzicare con esso lui, ed essere quegli il solito ruffiano che a lui conduceva femmine.

A queste parole lo scudiero sgridollo amaramente come osasse cotanto in faccia sua. “Sì, in faccia vostra,” soggiunse il canovaio, “e in faccia di chicchessia. Per [p. 202 modifica]dirvi la verità com’io la sento nell’anima, o signor mio, non vi ho amato mai; nè voi mai mi andaste a sangue; e poco m’importa il cantare spiattellatamente la cosa come ella sta.” Dopo di che, Jenkinson volle ch’ei manifestasse quanto sapeva di lui. E’ canovaio: “Di te non posso in fede mia narrar virtù. La notte in cui fu con inganno tratta a casa nostra la figliuola di quel gentiluomo, eri tu pure uno della brigata onesta che allora gavazzava di sì bella impresa.”

“Begli in vero,” disse il signor Guglielmo al nipote, “sono codesti testimoni coi quali intendi provare la tua innocenza, o svergognato ribaldo cui dava l’animo di parteggiare con sì sozza canaglia.” Poi continuando l’esame: “Tu dici, o canovaio, che costui fu quello che portò al castello la figliuola di questo buon vecchio....” — “Non è così, ed ella s’inganna; perocchè quello rapimento fu pensato ed eseguito dallo scudiero in persona, e costui non fece che condurre il prete il quale finse di sposarli.” — “Egli è vero pur troppo!” gridò Jenkinson. “Toccò a me quell’ufficio; e ’l debbo confessare per mio rossore.”

“Dio buono!” esclamò il baronetto; “come la costui malignità mi squarcia il cuore quanto più la discopro! Il suo delitto è manifesto appieno: e ben si conosce che la ostinazione di codesto tiranno nel perseguitare questa misera gente, d’altro non deriva che da codardia e vile sete di vendetta. Poni in libertà quel giovane soldato così carco di ceppi, o carceriere: io tel comando; ed entro in malleveria per tutto quanto di tristo ten potrebbe nascere. Sarà cura di me l’informare distesamente della verità l’amico mio il giudice che ’l fece imprigionare. Ma dov’è la sventurata fanciulla? Oh! venga innanzi e ponga il colmo alla costui confusione; dica ella con quali arti questo maledetto l’ha sedotta. Dov’è la meschina, dov’è?”

“Ahi, domanda” diss’io, “che mi lacera l’anima! Fui un tempo avventurato padre d’una figliuola; ma le sciagure di lei....” Quivi improvvisamente comparve [p. 203 modifica]damigella Arabella Wilmot che doveva la mattina appresso maritarsi al signor Thornhill. Sommo fu lo stupore di quella, quando all’entrare trovò con noi il signor Guglielmo e ’l nipote, essendo ella venuta nella carcere per mero accidente e d’ogni cosa ignara. Passando ella insieme al vecchio padre per mezzo della città, cammino pigliando di verso una sua zia la quale voleva ad ogni patto che le nozze di Arabella con Thornhill si celebrassero in casa sua, aveva in fine della città fatto alto ad un’osteria, e quivi era smontata per rifocillarsi e riposarsi alcun poco. Affacciatasi ad una finestra Arabella, e veduto uno de’ miei bambini far di baie nel mezzo della strada, aveva mandato tosto un donzello a prenderlo. Da alcun pispigliare di lui le era venuto sentore de’ nostri guai, senza però indovinare che ne fosse cagione Thornhill. Quindi, ad onta che le dimostrasse il padre essere a lei disdicevole cosa l’andarsene ad una prigione, determinata ella di venirci a ritrovare, preso per guida il fanciullino, si era avviata difilato vêr noi; e giunse appunto allora quando meno la si aspettava.

Però prima di continuare l’istoria, m’è forza dar qui luogo ad una considerazione sovra codesti incontri casuali de’ quali, quantunque tutto dì se ne veggano, poca maraviglia prendiamo per l’ordinario; trasecolandoci solamente quand’essi avvengono in occorrenze di gran momento per noi e le meno frequenti. Eppure da che fortuito concorso d’accidenti scaturiscono eglino mai tutti i nostri piaceri, tutti gli agi della nostra vita! Quanti di quelli fa mestieri che s’uniscano, prima che noi possiamo essere vestiti o pasciuti! È d’uopo che il contadino sia disposto ai lavori delle terre, che le piogge cadano ad innaffiarle, che il vento gonfi le vele alla nave del mercadante; senza di che moltissimi patirebbero penuria delle cose necessarie alla vita.

Un silenzio universale regnò per alcuni istanti; e la mia vezzosa pupilla, chè tale io chiamava sempre [p. 204 modifica]Arabella, tacita anch’essa dava a divedere nel volto e negli sguardi una cotale aria di compassione ripiena e di stordimento, e che nuova leggiadria alla bellezza di lei aggiungeva. Fatto ella pensiero che il signor Thornhill non per opprimerci, ma per soccorrerci fosse a noi venuto, a lui così parlò: “A dir vero, mio caro signore, scortesia mi sembra la tua nel voler qui venire senza di me, e nulla mai dirmi dello stato infelice d’una famiglia da entrambi noi amata cotanto. Lo sapevi tu pure che somma sarebbe stata la mia soddisfazione nel contribuire al sollievo di codesto vecchio venerando, un tempo a me precettore, e per cui la mia stima non verrà meno giammai, e sarà viva sempre quanto quella per lui tu senti. Ma veggo che come lo zio tu ami di far del bene in segreto; e fàllo pure se te ne giovi Iddio.”

“Ama di far del bene di’ tu?” esclamò il signor Guglielmo. “No, chè i suoi diletti sono vili al pari di lui. Ravvisa in codesto uomo, o fanciulla, il più vigliacco furfante ch’abbia mai disonorata l’umana razza; uno scellerato che dopo di avere ingannata la figliuola di questo povero vecchio, dopo d’avere tramato iniquamente una congiura contro l’innocenza della sorella di lei, ne cacciò in prigione il padre, ne gravò di ceppi il fratello, onde punirlo dell’avere egli avuto il coraggio di sfidare valoroso a duello il traditore della sua famiglia. Oh! bene avventurata tu sei per avere così evitati gli abbracciamenti d’un cotanto ribaldo; ed io primo teco di ciò mi congratulo.”

“Oh Dio!” gridò l’amabile giovinetta; “con che arti costui mi aggirava! Egli giurommi, il tristo, come cosa verissima che il figliuolo maggiore di questo gentiluomo, sì il capitano Primrose, se n’era ito in America colla sua sposa novella.”

“Menzogne tutte,” disse mia moglie, “sono quelle ch’ei ti narrò. Sappi, o dolcissima fanciulla, che il mio figliuolo Giorgio non uscì mai del Regno, non ebbe mai [p. 205 modifica]sposa. Quantunque ogni memoria tu abbia deposta di lui, egli ti amò sempre di tale amore che impossibile gli era il pensare ad altra donna. E spesso l’udii io giurare volere egli morire scapolo, poichè tuo consorte nol poteva.”

Proseguì Debora a dire della amorosa, ingenua passione di Giorgio; poi del duello col signor Thornbill, chiaritane ogni menoma circostanza; poi de’ vituperii dello scudiero e delle finte nozze; e conchiuse con una pittura oltraggiosa della codardia di lui.

“Ahi me misera!” esclamò Arabella; “di che precipizio era io mai sulla sponda! E oh quanta è la mia gioia per esserne scappata! In mille guise s’infinse questo bugiardo. Egli ebbe da ultimo tanta scaltra impudenza, da persuadermi che l’infedeltà dell’unica persona a me cara e a cui io m’era con promesse allacciata, mi scioglieva d’ogni legame; a tale perfino traendomi colle sue infami arti, ch’io dovetti detestare un uomo generoso ed onesto.”

Erano state tolte intanto di dosso a Giorgio le catene, scopertasi l’impostura di colui che si voleva ferito. E il signor Jenkinson adoperandosi intorno al mio figliuolo come un valletto, gli aveva acconciati i capegli e raffazzonata la persona, sicchè colui più non pareva quel sudiciotto di prima. Uscito poi per pochi istanti, tornò egli a noi vestito della bella assisa del suo reggimento: e senza che altri m’incolpi di vanità, perocchè io la disprezzo, dirò ch’egli appariva soldato avvenente e gaio quant’altri mai. Appena giunto sull’uscio, fece un modesto inchino a madamigella Wilmot; e non sapendo ancora quali cambiamenti avesse prodotti nell’animo di lei la materna eloquenza, non volle accostarsele. Ma non valse decoro di fanciulla a trattenere lei impaziente d’ottener dall’amante il perdono. Infiammata di rossore la guancia, piovente lagrime il ciglio, disiosi gli sguardi annunziavano il tumulto del cuore, e quanto dolore ella sentisse di aver potuto obbliare le antiche impromesse e d’essersi lasciata sedurre da un ipocrita vilissimo. Tanto [p. 206 modifica]stupiva il mio figliuolo della condescendenza di lei, che quasi verace non la credeva; e manifestolle i suoi dubbi e come quella le paresse troppa felicità nè da lui meritata.

“No,” diss’ella, “fui ingannata, fui iniquamente tradita. Che s’altro fosse stato, avrei io violati i miei voti? Già da gran pezza tu sai quanta amicizia io ho teco annodata. Ma deh! perdona ogni mio errore: e come già un tempo io ti giurai costanza, solennemente or qui ti ripeto que’ giuramenti; e sta’ certo che se Arabella non può essere tua, non sarà d’altri mai.”

“E d’altri tu non sarai,” gridò il signor Guglielmo, “se d’alcuna stima io son degno presso del padre tuo.”

Bastarono queste parole perchè Mosè, l’altro mio figliuolo, corresse precipitoso all’osteria ov’era il signor Wilmot, e l’informasse d’ogni cosa. Ma lo scudiero in quel mentre vedutosi disperato interamente, nè dell’adulazione o degl’inganni potersi più giovare, fece pensiero che l’unico mezzo che gli rimanesse fosse di cavarsi del tutto la visiera ed opporsi a faccia aperta a’ suoi persecutori. Però, posta giù la paura dello zio, e nudatosi d’ogni pudore, mostrossi quant’egli era consumato guidone; e volgendosi al signor Guglielmo usò a lui queste parole: “Niuna giustizia poss’io qui aspettare che mi si faccia; ma per Dio! io la voglio ad ogni patto. Voi dovete sapere, o signore, ch’io non sono più quel poverello che debba sospirare i vostri favori, e che di loro me ne fo beffe del tutto. Niuna cosa del mondo può tormi le ricchezze di madamigella Wilmot, le quali, mercè della paterna avarizia, sono larghe assai. Il contratto per cui diventano mie è sottoscritto, è in mia mano; e nol mi si strappa per Dio! Non la persona, ma la dete di lei mi trasse a volgere l’animo a codesti sponsali: a me l’una, vada l’altra a chi se la brama.”

Questa fu cosa inaspettata e terribile: e il signor Guglielmo ch’era stato egli medesimo messo mezzano al vecchio Wilmot per la stipulazione del contratto di [p. 207 modifica]matrimonio, sentì tutte le ragioni per cui il nipote poteva pretendere la dote. Allora madamigella si accorse come gli averi suoi erano irreparabilmente perduti; e guardando in volto al mio figliuolo, domandògli se così spogliata com’era di ricchezze, egli ancor l’apprezzasse, e se a lui bastasse la sua mano, unico dono a lei rimasto da potere offerire.

“E questa sola,” rispose il vero amante che lei amava sopra la vita sua, “è la cosa da me ambita; nè altra reputai degna mai d’essere accettata. Credilo, Arabella mia; e per tutto quanto v’ha di più sacro io giuro che la tua povertà adesso raddoppia la mia contentezza; poich’ella vale a convincere la mia dolce amante della sincerità dell’anima mia.”

Accorso anch’egli il signor Wilmot, mostrò non poca gioia del vedere la sua figliuola scampata da tanto pericolo; e di buon grado acconsenti all’annullazione del matrimonio di lei con Thornhill. Ma sentendo che da costui non si voleva rinunziare alla dote, n’ebbe crepacuore il più grande ch’uomo mai aver possa. Vide egli che il molto oro da lui ragunato doveva sgraziatamente arricchire un pitocco che non aveva soldo del suo in tasca. Però l’essere un briccone il suo genero futuro pareagli sopportabile danno; ma il non avere egli quattrini quanto la sua Arabella, era assenzio per l’anima sua. Quindi egli sedutosi per alcuni minuti senza dir motto, se ne stette rodendo la piaga, pieno di vergogna e di rabbia. Finchè poi il signor Guglielmo, desideroso di calmarne l’angoscia, così gli disse: “Vi debbo, o signore, confessare che non affatto disgradisco questa vostra traversía; poichè ella è giusta pena alla smoderata vostra avarizia. Ma quantunque la fanciulla non possa ora essere ricca, le restano tuttavia fortune onde vivere competentemente. Eccovi un giovane soldato d’onesti costumi, pronto a sposarla senza dote. Lungamente si sono essi amati a vicenda: ed essendo io amico del padre di quel [p. 208 modifica]garzone dabbene, non istarà certo per me ch’egli non sia presto promosso a più alto grado nella milizia; ma vi contribuirò con tutta l’opera mia. Via dunque codesta ambizione che vi martella il cuore, ed afferrate una volta la felicità che vi si offre.”

“Signor Guglielmo,” rispose il vecchio, “siate convinto ch’io non ho mai angariati gli affetti della figliuola mia, nè ’l farò adesso. Se ella tuttavia è innamorata di questo giovane soldato, abbiaselo pure; ch’io di tutto cuore mi vi piego. Grazie a Dio, non tutti gli averi sono perduti; e la vostra protezione accrescerà quel poco che ne rimane. Solo che codesto mio antico amico (accennando me) prometta di donare in assegnamento alla mia figliuola sei mila lire, in caso che egli ricoverasse i beni suoi; ed io volentieri sono disposto ad unirli questa notte istessa.”

Non dipendeva che da me solo la felicità de’ giovinetti; laonde senza entrare in forse, mi acconciai tostamente alla domanda del signor Wilmot; il che non fu gran favore, essendo accordato da un uomo così nudo di speranze com’io era. E quelli immantinente noi vedemmo con somma consolazione nostra avventarsi al collo le braccia a vicenda, inebriati d’allegrezza. “Dopo le mie lunghe sciagure,” disse Giorgio, “oh quanta ricompensa io ottengo che tutti i miei desiderii vince! Non avrei, no, osato sperare il possedimento di te, preziosa vergine, dopo le sofferte mie pene.” — “Sì, o mio Giorgio,” rispose l’amabile sposa, “io sono felice davvero; e tu ’l sei, anche senza le mie perdute ricchezze. Rapiscanle dunque a loro posta i ribaldi, che a me non ne incresce per nulla. Oh che fortunata sorte è la mia per avere cambiato il più vile degli uomini nel più caro, nel più savio!” — “Abbiasi colui il godimento delle tue ricchezze, perch’io sento d’essere felice anche in mezzo alla povertà.”

E lo scudiero allora con un ghigno maliziuto: “Sarò felice io pure, godendomi ciò che voi disprezzate.” [p. 209 modifica]

“Piano piano, o signore,” esclamò allora Jenkinson: “e’ potrebbe bene essere ch’ella facesse delle parole fango, e profetasse falso. Una cosuccia a me resta a dire sovra una tale fortuna di vossignoria. Dei danari di questa donna ella non ne gusterà un solo quattrinello.” Poi volgendosi al signor Guglielmo: “Può egli essere che costui ottenga la dote di madamigella Wilmot, s’egli è marito ad un’altra?”

Rispose il baronetto, questa essere goffa interrogazione; essendo fuori di dubbio che se la cosa stava così, colui non aveva diritto di esiger dote. “Duolmene,” replicò Jenkinson, “per l’antica amicizia mia collo scudiero, che fu per tanto tempo compagno meco di trastulli: ma bisogna ch’io ’l dica; il contratto di lui non vale un lupino, perchè egli ha già un’altra moglie.”

“Menti per la gola, manigoldo sfacciato,” disse lo scudiero montato come sulle furie per quell’insulto; “io non fui mai legittimamente sposato a donna alcuna.”

“Eppure, con buona licenza di vossignoria, ella lo fu. Ed ufficio d’amico, spero, riconoscerà ella il mio, nel ricondurle una moglie: e se la brigata vuole per pochi istanti frenare la curiosità, vedranla tutti costoro la moglie sua.”

In così dire, coll’usata lestezza e’ partì, lasciando ognuno al buio di quanto egli intendesse di fare. Diceva lo scudiero nulla a lui importare di quell’andata; perchè fra le tante sue reità, impossibile cosa era d’una cotale il produrre alcuna prova, nè essere egli bambolo da spaventare con razzi matti. E ’l signor Guglielmo attribuiva ogni cosa a troppa voglia in Jenkinson di piacevoleggiare bizzarramente.

“E chi sa, diss’io, ch’ei non faccia sul serio più che non si crede! Ponendo noi mente alle diverse arti con cui questo gentiluomo tentò di sedurre l’altrui innocenza, non potrebbe egli essere che ad una donna più scaltra fosse riuscito di gabbar lui? Quante ne ha egli tratte in rovina! Quanti genitori piangono l’infamia di [p. 210 modifica]cui egli ha contaminate le loro famiglie! Strana cosa non mi parrebbe se alcuno di que’ miseri.... O maraviglia! Oh che veggo io! La mia perduta figliuola! Lei stringo io al mio seno! Viscere mie, ben mio! io ti credeva perduta, o Olivia: eppure di bel nuovo ti abbraccio; e tu vivi ancora per far me felice.”

Le più violenti commozioni, l’eccesso della gioia nel più appassionato amante non giungerebbero a tale da superare la piena dell’anima mia nel momento ch’io vidi entrare la mia figliuola e me la serrai al petto.

Ella non parlava; eppure quel silenzio diceva da quale tumulto d’affetti le fosse il cuore sbattuto. “Oh sei tu dunque a me tornata, fanciulla mia, per consolare i cadenti anni miei!”

“Ella è dessa,” disse Jenkinson, “ella è pur dessa; e stimarla sommamente tu devi, perocchè la è tuttavia l’onorata tua figliuola, donna onesta quant’altra mai qui si ritrovi; nè se l’abbia a male veruna di codeste femmine. E in quanto a lei, signore scudiero, com’egli è certo che ella m’ode e mi vede, questa donna è a lei legittima, verissima sposa. E per convincerla ch’io parlo da senno senza pure ombra di menzogna, eccole la licenza per cui vossignoria contrasse con codesta donna matrimonio conforme agli ordini della legge.”

Così dicendo, consegnò al baronetto lo scritto. Quegli lo lesse, e trovollo regolare punto per punto. “Signori miei,” continuò l’altro, veggo che tutti voi stupefatti di ciò rimanete; ma poche parole fanno d’uopo per appianare ogni cosa. Questo rinomato scudiero di cui io sono grande amico, e ciò sia detto a quattr’occhi, spesse volte giovossi dell’opera mia in alcuni suoi mali garbugli. Fra le altre mariolerie, mi commise che io gli procurassi una licenza falsa e un falso prete affine di abbindolare codesta giovane donna. Ma essendo io amico di lui sincerissimo, che fec’io allora? gli procacciai una licenza vera e un vero prete, che diede loro la stretta da [p. 211 modifica]cui e’ non ci è verso di slegarsi. Forse voi crederete essere io stato a ciò spinto da generosità d’animo; or bene, sappiate per mia vergogna ch’io ad altro fine nol feci, se non per tenere io in mia tasca la licenza, e servirmene all’uopo di smugnere il borsello dello scudiero ogni qual volta me ne venisse appetito, spaventandolo col dire avere io in mano cosa con cui provare innanzi al giudice la verità delle sue nozze.”

Rimbombò allora tutta la camera d’alti viva di allegrezza, la quale si diffuse altresì nella sottoposta prigione comune, ove gl’incarcerati stessi rispondendo alla nostra esultazione:

       Crollaro i ceppi, e cupa un’armonia
       Mandar di gridi e di stridenti ferri.

Sovra ogni volto apparve dipinta la gioia; e le guance d’Olivia rubiconde anch’esse pel piacere si fecero. Nè poca ventura in fatti era la sua; ricoverando la poveretta in un momento solo e fama e amici e ricchezze. E bastevole bene era tanto tripudio a ravvivare la sfiorita bellezza e lo spirito suo per lunghe sciagure appassito. Ma nessuno forse più di me sentiva la voluttà di quella consolazione: ed avvinghiato al collo della fanciulla, nè saziandomi di baciarla, domandava al mio cuore se quei trasporti di giubbilo non fossero una illusione; poi chiedeva a Jenkinson come gli fosse bastato l’animo di accrescere le mie miserie colla novella acerba della morte di lei; e tosto dicevagli non importare, perocchè la consolazione del riacquistarla valeva il sofferto accoramento, e me ne compensava a più doppi.

“Or non è più tempo,” disse Jenkinson, “di tenerti in parole; e mi è facile il mandarti contento d’una risposta. Argomentai che l’unico mezzo per liberarti dalla prigionia fosse il far sì che ti sottomettessi allo scudiero ed acconsentissi alle nozze di lui coll’altra donna. Ma a [p. 212 modifica]ciò tu avevi giurato di non volere scendere mai finchè viveva la tua figliuola. Che altro dunque restava d’adoperare, se non di fingere teco ch’ella fosse morta? Mi misi quindi in cuore di piegare la tua moglie, usando di molte preghiere; e da lei ottenni assistenza in quest’inganno necessario. Ma fino ad ora non nacque mai l’opportunità di svelarti questo segreto; e ne fu mestieri di tacertelo.”

In tutta la brigata non iscorgevansi oramai che soli due visi sovra cui non brillasse la contentezza. Non appariva più albagía sulla fronte di Thornhill; ed era del tutto caduto d’animo quel tracotato, il quale spalancarsi sotto i suoi piedi vedeva un abisso tutto d’infamia ripieno e d’indigenza, e tremava per tema d’esserne ingoiato. Laonde, prostratosi ginocchioni innanzi allo zio, scongiurollo con voce affannosa e da singhiozzi rotta ad avere compassione di lui. Però stava il signor Guglielmo per cacciarlo a calci; ma ad intercessione mia sollevatolo, dopo alquanto silenzio così gli parlò: “I tuoi vizi, i delitti tuoi, la tua ingratitudine non meritano pietà. Ma non ti voglio nulladimeno abbandonato interamente; e sarà da me provveduto alle necessità della tua vita, non alle tue follie. Però questa giovane donna, tua sposa, verrà posta in possedimento d’una terza parte di que’ beni ch’erano tuoi una volta; e solamente dall’anima tenera di lei potrai tu sperare per l’avvenire soccorso alcuno alla tua domestica angustia.”

Voleva l’altro con parole ringraziare di tanta clemenza il baronetto: ma questi lo prevenne, dicendo a lui di non far maggiore la propria viltà già omai troppa, e ch’ei se ne andasse; concedutogli fra i molti servi ch’egli prima aveva, di sceglierne uno, l’unico del quale a lui venisse d’allora innanzi fatta grazia.

Partito appena colui, il signor Guglielmo avvicinossi cortesemente alla sua novella nipote, e sorridendo le augurò di mille fortune. La qual cosa ad esempio di lui fecero altresì madamigella Wilmot e ’l suo padre. Anche [p. 213 modifica]mia moglie stampò baci affettuosissimi in bocca alla fanciulla, congratulandosi seco lei dell’essere ella diventata (per usare le sue parole) una femmina onesta. Poi Sofia e Mosè imitarono la loro madre; e da ultimo egli pure il nostro benefattore Jenkinson domandò che non fosse negato l’uguale onore anche a lui. Pareva allora che la nostra contentezza non potesse andare più in là. E ’l signor Guglielmo, di cui la maggiore soddisfazione era riposta nel fare altrui del bene, girava attorno lo sguardo con una cert’aria serena al par del sole, e non vedeva che aspetti gioviali e ridenti. Sola la Sofia non sembrava, per cagioni a noi ignote, appieno appagata di quella comune ilarità. “M’è avviso,” disse il signor Guglielmo sogghignando, che tutti, fuori ch’uno o due, siano compiutamente ora felici, e a me non resta che di adempire un dovere di giustizia. O buon Primrose, tu senti di quanto noi dobbiamo esser grati al signor Jenkinson per lo zelo con cui si adoperò nella scoperta d’uno scellerato; e guiderdone entrambi noi gliene vogliamo dare. Però madamigella Sofia farallo per certo felice; ed io doterolla in cinquecento lire, sicchè potranno menare una vita agiata. Vieni, o Sofia; che te ne pare egli di questo mio accomodamento? Vi consenti tu?”

La povera fanciulla a tale proposta odiosa cadde mezzo svenuta in braccio alla madre; e con debile voce, “lo sposarlo?” disse; “non sarà mai, no.”

“Che di’ tu?” proseguì il signor Guglielmo. “Non vuoi il signor Jenkinson, il tuo benefattore, un bel giovanotto con cinquecento lire per tua dote?”

“Signor mio,” rispose la figliuola, a cui il dolore quasi toglieva la favella; “deh! per pietà desistete dal vostro pensiero, e non vogliate opprimermi con sì cruda sciagura.”

“Videsi mai ostinazione cotanta! Osi tu rifiutare, o fanciulla, un uomo a cui tutta la tua famiglia debb’essere grata d’infiniti favori? uno che ti conservò la sorella, uno [p. 214 modifica]che ha cinquecento lire? Come è ciò, tu nol vuoi?”

“No, mai, mai; morire piuttosto io voglio.”

“Or, se lui tu non vuoi, io te voglio ad ogni patto.” E stringendosela ardentissimamente al seno: “Amor mio, tenera vergine, come potevi tu mai pensare che ’l tuo Burchell ti volesse ingannare, o che Guglielmo Thornhill potesse sostenere d’abbandonare una persona che ha amato lui per lui solo? Molti anni sono andato cercando una donna la quale, ignara affatto delle mie ricchezze, amasse me non per altro, se non perchè come semplice uomo degno di amore mi reputasse. Ma invano ho corso di molte contrade, invano ho tentato di rinvenirla fino ancora tra le brutte e quelle che vantano dilicata anima. Qual debbe essere adunque la consolazione mia nel far l’acquisto d’una beltà celeste, d’un cuore sì bello!”

Indi volgendosi a Jenkinson: “Poichè non m’è dato di dipartirmi da questa cristianella d’Iddio che presa della mia bella faccia è entrata alquanto in amore per me, altra ricompensa non poss’io guiderdonarti che colla dote di lei: domani adunque dal mio capo-castaldo potrai farti sborsare le cinquecento lire.”

Di tal maniera i complimenti e le congratulazioni da capo ebbero luogo; e madama Thornhill fece quello che aveva già fatto prima la sorella. Intanto venne il cameriere del signor Guglielmo ad avvertirci essere pronte le carrozze per trasportarci all’osteria, ove ogni cosa era stata provveduta pel nostro ricevimento. Laonde mia moglie ed io uscimmo i primi da quel tetro albergo di dolore; e ’l generoso baronetto ordinò che si distribuissero tra’ prigionieri quaranta lire, alle quali il signor Wilmot, punto da quell’esempio, altre venti anch’egli ne accrebbe. Fummo accolti all’uscir di carcere dalle grida festose del popolo accorso in folla; per mezzo a cui io riconobbi e presi per mano due o tre de’ miei onesti parrocchiani. Nè si disgiunse poi dal nostro fianco quella moltitudine; ma volle accompagnarci fino all’osteria. E quivi [p. 215 modifica]trovammo un sontuoso banchetto per noi, e di molte vivande più grossolane onde rallegrare quelle buone genti che ci avevano fatto codazzo.

Dopo la cena, sentendomi illanguiditi gli spiriti per l’alternare de’piaceri e delle pene di quella giornata, presi licenza; e mi ritrassi dalla compagnia, in mezzo a cui tutto era gioia. E appena vedutomi solo, disfogando il mio cuore, ringraziai il datore d’ogni bene e d’ogni guaio; poi placidamente dormii fino alla vegnente mattina.