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In Valmalenco/Capitolo XXII

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Capitolo XXII. Sulla via del Castello.

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Capitolo XXII. Sulla via del Castello.
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Sulla via del Castello.


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XXII.


Una gita dilettevole e per nulla faticosa quella che, da Chiesa o da Lanzada, si può intraprendere per arrivare al lago Palù; poco più di due tre ore di cammino, per una strada non troppo erta, che offre ogni poco novità di vedute e che, fatta in compagnia, trascorre piacevolissima, senz’ombra di fatica e di stanchezza.

Così ci aveva detto la sera prima il curato, ed io e l’amico mio Pier Ruggero Radice, venuto da Milano per reintegrare nella salubrità dell’aria le forze abbattute da una malattia recente, divisammo di partire all’alba, di arrivare al lago col fresco della mattina e di ritornare per mezzogiorno a rifocillarci con un pranzo copioso.

Riuscimmo ad incamminarci alle otto avendo per guida il lìgliolo del Sass soprannominato Sassin; era un po’ tardi per dire il vero, ma, camminando di lena, si faceva conto di toccar [p. 228 modifica]la cima alle dieci, fermarci un poco, ed essere di ritorno per le dodici senza troppo sudare.

Povere nostre intenzioni!

La marcia ascendente, incominciata súbito dietro le case di Lanzada, proseguì abbastanza bene fino agli ultimi rustici del monte; la via, incassata nella costa ripida, saliva quasi diritta, ogni tratto ombreggiata da onizzi; dopo gli abituri divenne sentiero scoperto e il sole ci investì: movemmo più celeri, per riparare dentro un grande bosco di larici, che appariva al confine del pendio verde, e, raggiuntolo, posammo alquanto rivolti verso il punto di partenza che vedevasi più basso, quasi sotto di noi.

In faccia s’allargava Caspoggio, alla destra avevamo Chiesa, col suo grande albergo circondato da pini; sopra, da tutte le parti, le altre vette che abbiamo già imparato a conoscere, e che apparivano allora disciolte dalla solita bruma mattinale.

Riprendemmo il sentiero, che fu presto smarrito; allora, preceduti dalla guida inabile, continuammo a salire attraverso i larici a caso, sperando di arrivare presto alla fine del bosco o ad una traccia di sentiero che ne aiutasse un poco.

Il piccolo Sass rideva, saltando da un massa all’altro, scomparendo fra tronco e tronco a destra, talvolta passando rapido alla nostra sinistra per ricercare la strada, che non poteva essere lontana.

Si finì per trovare e per accontentarci di un alveo precipitoso di torrente, che scendeva giù [p. 229 modifica]diritto attraverso il bosco, formando una maravigliosa galleria verde, rettilinea, al capo superiore della quale s’intravedeva un varco e lo sfondo azzurro del cielo, e sul principio invece, dietro di noi, per l’abbassarsi improvviso della montagna, le case di Caspoggio al di là della valle.

Bellissimo punto di vista, atto a rianimare l’abbattimento di chi si credeva sperduto, e a dar nuova forza all’amico mio Radice, che la salita faceva ansare con troppa frequenza.

Su, su, dunque; — sembrò dirci la guida, appostata più in alto, in una posa piena di sicurezza e di baldanza — venite meco: e, all’invito silenzioso, segui un gesto d’incoraggiamento; il ragazzo tolse la mano dal fianco sul quale l’appoggiava, segnò con essa, a braccio teso, il varco che appariva nello sfondo, e riprese a saltare da un sasso ad un altro agile e veloce.

Noi gli tenemmo dietro; d’un tratto scomparve.

Lo vedemmo più su, fermo, con un braccio ad ingoio tra fianco e spalla, con l’altro ripiegato contro il petto, per impugnare le falde del sacco che gli ricadeva sul dorso; con le gambe aperte, nella posizione solita di piccolo infallibile sorridente.

“Trovata la strada!” ti ci disse quando gli fummo allato.

“Davvero? Che Dio ti benedica!” gli rispondemmo entrambi, felici, e su con lui, per una traccia di sentiero, lasciando l’alveo che ci aveva fino allora condotti. [p. 230 modifica]

La polvere e i granelli giallo aranciati, che facevano da tappeto sdrucciolevole fra larice e larice, nascondevano ogni tanto la traccia: ma essa appariva súbito qua e là, discorrendo fra gli aggruppamenti degli alberi, e mantenendosi sulla costa, senza salire o discendere.

Camminammo così un’ora buona: eravamo costretti, ogni tanto, per non cadere, ad afferrarci ai pini che piovevano le loro rame sopra di noi; quando il bosco cominciò a farsi men fitto e noi a sperare d’essere vicini alla vetta dell’Alpe; ecco, dietro l’ultime piante, mostrarsi uno scoscendimento spaventoso, una specie di fenditura enorme, tutta a massi bianco giallastri, che cadeva giù con una ripidità sensibilissima, e si perdeva, nell’alto, fra certe protuberanze della montagna, che non lasciavano presagir nulla di buono.

Quello poi che irritò maggiormente fu il vederci arrivati appena appena a mezzo monte, con la prospettiva poco simpatica di dovere, o tornare indietro, o tentare la salita che si presentava così disagevole e faticosa.

Ci consigliammo brevemente: Piero non voleva retrocedere, io ci tenevo a salire, ma avevo un po’ di timore per lui: la guida credeva bene discendere fra i sassi dell’ampia fenditura, per ritrovare la strada che assicurava essere più sotto.

La mandammo a quel paese, e, riposatici un poco, ci si arrischiò in mezzo a quella congerie di ciotoli, che l’acqua e lo sfregamento avevano resi lisci e piatti, come altrettante lavagne scolastiche. [p. 231 modifica]

Non era poca fatica, ci si doveva tratto tratto fermare, perchè a Piero mancava il respiro, o perchè un punto più ripido degli altri richiedeva l’unione delle forze per essere superato.

Allora s’inerpicava, prima la guida; io poi spingevo su l’amico, egli, arrivato, protendeva una mano verso di me e m’issavo anch’io.

Così per un’altra ora buona.

Finalmente la fenditura erta incominciò a restringersi; si dovette mantenere una certa distanza fra noi, per aver modo d’evitare i sassi, che, smossi, franavano: eravamo sudati, affranti; ogni poco ci si fermava ed io improvvisavo delle solenni lavate di testa alla guida, che aveva smesso il sorriso e la posizione di piccolo infallibile; Piero solo era filosofo e accettava la sua parte di camminatore senza lagnarsi: a che avrebbe valso del resto?

Il gran canale sassoso e scosceso accennava a terminare: mi portai alla testa della comitiva, battendo un passo inverosimile, arrampicandomi quasi con rabbia, continuando in alcuni punti carpone, in altri ritto, per abbracciare con lo sguardo, rapidamente, il passaggio migliore e tentarlo.

La cima non poteva essere lontana; ogni slittamento, ogni passo perduto accresceva la rabbia sorda che mi divorava e raddoppiava le mie forze; salivo guardando indietro i compagni che mi seguivano, incoraggiandoli, più con l’esempio che con la voce.

Strano il sentimento che mi rodeva. [p. 232 modifica]

Se la montagna fosse stata una persona l’avrei schiaffeggiata; era così indifferente, frapponeva una continuità tale di piccoli ostacoli alla mia marcia, mi soprastava sempre con la sua cresta superba, che si veniva svelando mano mano, e mi rendeva così pigmeo, così imbelle, che tutto l’essere mio reagiva in un’ansietà di dominio; volevo calpestare la vetta ch’era stata tanto restía

Il lago Palù

a concedersi, ridere a mezzo il varco guardando l’opposto versante: se la stanchezza, l’abbattimento avessero dovuto aver ragione delle mie forze, non per ischerzo, mi sarei ammalato d’itterizia.

Per fortuna e per costanza ciò non avvenne.

Sotto me, fìnalmente, apparve la conca, a pini a dossi, verde, bellissima: un vero giardino [p. 233 modifica]incantevole, e apparve anche in fondo, a sinistra, il lago Palù, con la sua casetta sulla sponda e un burchiello cullato dal breve fiottío dell’acqua.

Radice volle riposare, poi si discese: cercammo le baite, si fece una zuppa di latte e la si mangiò all’aria aperta, sotto il cielo che s’era coperto di nubi; ma il liquido era così gelato che ci presero i brividi; su, allora, presto, al lago, verso la casetta come verso un rifugio.

Era abitata, ci avevano detto, da una famiglia milanese: infatti, sul greto, passeggiavano una signora ed un uomo, che avvertirono appena il nostro arrivo, accennando un saluto in risposta al chiaro buon giorno che loro indirizzammo.

A me il freddo era completamente passato, Radice lo sentiva ancora nell’ossa; ci buttammo sull’erba a fianco della casuccia: avevo intenzione di richiedere ai proprietari qualche bevanda forte per l’amico mio che s’era sbiancato in volto e batteva un poco i denti; ma Piero si oppose così recisamente insistendo, perchè io non cercassi nulla, che dovetti accontentarlo.

Speravo d’altra parte che i signori, arrivati quasi con noi all’abitazione, attaccassero meco discorso, e, da una parola ad un altra, si venisse a quelle tanto naturali:

“Saranno stanchi! accettino qualcosa! perlomeno da bere...”

Invece nulla.

Uscirono dalla casa la donna di servizio e due belle ragazze: la domestica venne a domandarmi s’io fossi l’Ingegner Altieri; naturalmente risposi [p. 234 modifica]che mi rincresceva proprio di non esserlo, aggiunsi, per avviare il discorso, che non portavo vessilli, ma che, per compiacere bellezze femminili, offertesi all’occhio mio come ninfe di lago, sarei stato capace di portare anche vessilli!

Nessun effetto; tentai con altro mezzo: mi rivolsi a Piero ed a voce alta, in modo che quelli, variamente disposti fuori dalla casetta, sentissero, gli chiesi:

“Come stai? meglio? peggio? avessimo portato qualcosa di forte nel sacco!”

Come sopra.

Allora sparai l’ultima cartuccia, mossi verso i padroni di casa, e, levandomi, con grazia cittadina, il berretto d’alpinista, domandai i nomi dei monti, dei luoghi e incominciai a prenderne appunto sul notes.

Speravo così d’avviare il discorso e d’arrivare a quelle benedette parole...

Una delle signorine, molto bella davvero, facendosi rossa rossa in viso, mi domandò se, io, proprio non fossi l’ingegnere, ed io — notando’ quasi stenograficamente, dinnanzi casa; al di là del lago, Crestone; destra, Motta; sinistra. Monte Nero; dietro, pini nascondenti Disgrazia; — io, fui costretto a rispondenderle:

“No, signorina, non sono proprio l’ingegnere, per quanto abbia misurato spesso le montagne, rovinandomi un poco.... proprio non lo sono, ed è peccato, perchè....”

Stavo per aggiungere, con ispiritosa [p. 235 modifica]sfrontatezza, che l’ingegnere avrebbe avuto tutto lassù, quando l’attenzione dei padroni di casa si rivolse verso un punto del Crestone, donde pareva discendesse qualcuno.

Il discorso morì, e il povero Piero, col povero non ingegnere se ne partirono come erano arrivati, l’uno filosofo sempre buono, pronto sempre a compatire, a giustificare, l’altro iroso come cerbero ringhiante.

Inutile aggiungere che il cerbero era io:

“A queste altezze, quando si ha la fortuna di avere una casupola, si ha anche il dovere di essere ospitali; hai veduto che cordialità nei montanari, nelle guardie di confine?.... è una vergogna!...”

“Senti,” mi risponde il filosofo “grazie, prima di tutto, perchè ogni tua parola è l’indice della grande amicizia che hai per me; tu non avevi bisogno nulla, era per me che chiedevi, permetti quindi che io, parte interessata, dia il mio giudizio sul contegno delle persone fortuitamente incontrate quassù... Esse non hanno fatto che usufruire di un loro diritto, quello di non essere importunate da sconosciuti; io avrei forse fatto lo stesso...”

“Io no, invece,” rimbeccai rosso, fermandomi sopra un terrazzino, formato dalla strada discendente “io, proprio no... e, senti, mi rincresce di una cosa...”

“Quale?”

Risi prima ancora di farla conoscere all’amico: “Quando mi hanno preso per l’ingegnere, avrei [p. 236 modifica]dovuto lasciar fare, dir di sì, ricevere complimenti, bevande; quelle poi, che provvidenza! accettare un invito a colazione, e poi.... addio! scappar via e chi ha avuto ha avuto”.

Piero si ferma sulla strada con una mano al petto, cercando, inutilmente, di frenare le risa e la tosse.

“Sai che non... non posso!...”

“Bella scenettina, vero, sarebbe stata?”

“Tanto più” aggiunge l’amico mio, tossendo ancora un poco “che quelle due signorine erano bottoncini di rosa....”

“Ne convieni?”

Ed ecco uscir dalle nostre labbra una litania di laudi, che ha una conseguenza immediata; quella di farci perder la strada.

Arriviamo a casa dopo le quattro pomeridiane, smorti, affamati e beviamo súbito, di colpo un bicchieretto di fernet.

Lo strano è che beviamo guardandoci negli occhi e formulando lo stesso pensiero: — se ci fosse stato offerto da una mano gentile,


sulla cima, lassù,
dell’aspro Palù....

“Sei forse innamorato?” mi domanda Piero, dopo bevuto il fernet.

“Cotto!” gli rispondo, “e tu?”

“Anch’io! Mah! e l’ingegnere?”