Intorno alla vita ed alle opere del Commendatore Luigi Pichler/Biografia
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Roma, come il furono un tempo Atene, Corinto, Elide ed altre città della Grecia, è stata mai sempre feconda di sublimi ingegni, i quali anche nelle arti belle ebbersi nominanza e fama non già nella sola Italia, ma in qualsivoglia parte del mondo. Nè doteva altramente avvenire, imperocchè alla scuola parlante di que’ capolavori in ogni genere, ond’essa è doviziosa per cura de’ Giuli, de’ Leoni, de’ Gregori, de’ Sisti, de’ Clementi e de’ Pii, trovano un vasto campo nel quale raccorre messe ubertosa, e sentono improvvisamente ispirarsi ed avvivarsi alla immaginazione di concetti, e alla esecuzione di essi. Il perchè non dubitò il sommo Canova di appalesare innanzi a quel grande imperatore, il quale presso di se lo voleva, che l’artista, per quanto abile, manca lontano da Roma d’ispirazione c di genio. Fra questi valenti cultori delle arti belle, che sullo scorcio del secolo XVIII fiorirono, niuno certamente negherà onorevole posto a Luigi Pichler, cui toccò in sorte di vedere le sue opere ovunque desiderate e cerche. Ci avvi siamo quindi che non fia punto discaro il conoscere talune memorie della sua vita, e il cammino da esso battuto per giugnere a celebrità; nel che non ci siamo passati di diligenza cd industria su quanto più appartener poteva a si insigne artista1.
Da Antonio Pichler originario di Bressanone nel Tirolo austriaco, incisore anch’esso di non comune riputazione, e da Gaetana Magozzi del Tusculo seconda moglie di lui nacque in Roma il nostro Luigi nel 31 gennajo del 1773. Se ancor giovinetto soggiacque alla perdita del genitore, questa gravissima sventura per le cure della buona madre, e del fratello maggiore Giovanni2 gli venne in gran parte alleviata. Tutto eglino adoperarono per ben istruirlo ed accostumarlo. Non paghi di averlo inviato alle pubbliche scuole, conciossiachè sono le lettere come la base di ogni scienza, lo provvidero altresì in casa di saggio precettore, volendo che per tal guisa dalla unione del pubblico e privato ammaestramento ritraesse maggiore vantaggio.
Mentre nelle umane lettere cominciava ad erudirsi, appalesavasi in Luigi una naturale inclinazione al disegno e alla gliptica; il perchè il fratello Giovanni, giusta il detto Oraziano doctrina vim promovet insitam, procurò fin d’allora di coltivarne l’amore. Ed eccola da lui caldamente raccomandato a Domenico De Angelis pittore di quel tempo non oscuro. E sì Luigi avvanzò in tale studio che il fratello compiacevasi oltremodo del progresso del giovinetto. Quattro anni restò alla scuola di tal maestro, cioè fino al 1784, e nel seguente si pose sotto quella dello stesso Giovanni, ove non abbandonando il disegno imparò a modellare. Così rapidamente egli progrediva, che in breve condusse in cera lavori da far maravigliare i più intelligenti. Vedendolo omai a ciò acconcio divisò Giovanni di fargli intraprendere la difficile arte dell’intaglio, nella quale per due anni continui si esercitò con piena soddisfazione del precettore.
Conosceva questi la grande importanza d’incider molto per meritarsi il titolo e il nome di valente. Ed il sentiero a quest’apice di gloria era aperto, dacchè dopo la distruzione de’ greci, siccome le scienze e le belle arti decaddero dal loro splendore, così era pure avvenuto allo incider in gemme o in altre materie. La quale ignoranza o barbarie per lungo volger di anni durò nell’Italia, fino a tanto che riscossa dal suo letargo cominciò l’arte a risorgere nel principio del secolo XV, e giunse a poco a poco a quella perfezione in che oggi la vediamo, quantunque a dir vero siano pur lodatissimi alcuni incisori delle scuole Fiorentina, Romana, Longobarda che dopo quel tempo fiorirono3. Giovanni tuttochè scorgesse nel fratello vaghezza di tentare il cammeo, seppe nondimeno allettarlo per modo da trattenerlo nella gliptica assai a lungo, imperocchè ben avvisava, che
. . . «se tu seguì tua stella |
In questo periodo condusse Luigi a termine più di venti intagli. Ora chiunque conosce l’arte, che si piacquero i greci chiamare glittica o diaglittica, cioè quella incisione cava e profonda, che vediamo nelle pietre dette perciò incise ad incavo, e le difficoltà ch’essa presenta a preferenza dell’anaglifica o incisione a rilievo, dovendo l’artista operare quasi a tentone e al buio, necessitato presso che ad ogni momento ritrarre in cera o in pasta la figura che sta lavorando per giudicare dell’effetto e dirigere il ferro, stimerà di per se con quale valentia ed amore il giovane Pichler si avanzasse.
Ma egli era tempo che si provasse ancor sul cammeo, e i primi saggi sotto la scorta di sì premuroso fratello il dichiararono maestro anzi che principiante. Nel che si vide alla nostra Roma continuato il magistero dell’arte, venendo in tal guisa a ripararsi la morte di Giovanni immaturamente rapito alle arti nel gennaio del 1791. Né qui ci sembra dover passare sotto silenzio come argomento e di grato animo e di fraternale affetto, che per l’indefessa cura da Luigi prestata al fratello nel crudel morbo onde fu tratto al sepolcro, pur egli ne rimanesse preso. Appena dal dolore di tanta perdita e dalle conseguenze della infermità si riebbe tornò come suo unico conforto al disegnare e al modellare; e potendo anco di queste due arti dirsi con Flacco «Alterius sic altera poscit opem res et conjurat amice» così ne andava egli in pari tempo a studiare sui capolavori raccolti nel Vaticano, nel Campidoglio e nella villa Albani.
Sul declinare del 1795 il desiderio che accendevalo di conoscere i monumenti di belle arti anco oltremonti, e il bisogno d’interrompere un’applicazione, che forse alla sanità di lui avrebbe potuto recar nocumento, il condussero in Vienna, ove a motivo delle politiche vicende dovè protrarre la sua dimora, assai più di quello che avesse in animo, e sostare eziandio in Moravia. Luigi però non voleva né poteva rimanersi inoperoso, sì che in quella capitale riprodusse in cammeo la contessa Schönborn, e vagamente eseguì una Venere, ed un Amore che abbraccia l’anima simboleggiata dalla farfalla, concetti entrambi di sua propria invenzione.
Quantunque nel 1797, in cui Luigi si fu ritornato alla patria ed ai congiunti, sopraggiugnessero tempi assai difficili e turbolenti, egli, a somiglianza di Archimede, se ci é lecito il paragone, ignaro di quanto al di fuori avvenisse, era tutto inteso a suoi lavori sempre ambiti da tutti. Nè qui crediamo fuor di luogo anche ad altrui insegnamento notare, come il Pichler sapesse in buon’ora spacciarsi da quella vera peste della società, che avida di guadagno mercanteggia sopra l’ingegno dell’uomo, abusando di quella condizione in cui non rare volte il valente artista si trova. Fatto consapevole che uno speculatore avea venduto al Gabinetto di antichità di Vienna a carissimo prezzo, e come fattura greca, una gemma rappresentante una vittoria sulla quadriga da lui incisa e per poco danaro venduta, divisò quindi in poi di apporre ai lavori il proprio nome, e di prenderne direttamente le commissioni. Nè una sola volta, ma più e più fiate essendogli cotesto in avanti accaduto, ben può ognuno giudicare della eccellenza cui era salito, potendo condurre lavori con tale una perfetta imitazione degli antichi da andarne errati anche i più saggi conoscitori. E ben si vide anche in Luigi avverata quella greca sentenza, che l’uomo dotto cioè ha sempre in se la ricchezza; imperocchè avendo nell’anarchia del 1798 perduto l’intero patrimonio di sua famiglia consistente in cedole di stato dette luoghi di monte, potè egli col prodotto de’ suoi lavori onoratamente provvedere, ed a tutto suo carico non solo mantenere la famiglia composta allora della madre, della sorella e di un fratello minore, ma nel 1800 unirsi in matrimonio ad Anna Belli giovanetta romana di onesti natali, avvenente, e saggia che il fè padre di molta prole, sebbene tre soli figli ne siano oggidì superstiti5.
Non eravi straniero di quanto vuoi lontana regione che al primo suo arrivo in questa metro poli non dimandasse del Pichler, nol visitasse, e non gli allogasse lavori. E bella gloria fa al certo per lui, allorquando per la Imperatrice Giuseppina eseguì un lavoro commessogli nel real nome dal francese Nitot giojelliere di corte che allora trovavasi in Roma. E sebbene questi e molti altri ammiratori del Pichler si sforzassero d’indurlo a trasferirsi in Parigi, capitale che poteva in vero adescare ogni animo avido di gloria e di fortuna, tuttavia non poterono spingerlo ad abbandonare la patria. Nondimeno le ordinazioni avute da Vienna per parte del principe Zinzendorf, del conte Lodron, del cav. Malia, e di altri gl’ingenerarono il desiderio di visitare di nuovo quella città imperiale. Tolse a motivo il presentare da se stesso i compiuti lavori. Il Zinzendorf, sì per la fama che il Pichler godeva, sì per le raccomandazioni fattegli dall’immortale Canova gli diè generosa ospitalità; nè volle che ne ripartisse, se prima non fosse ricevuto in udienza dall’imperatore Francesco I prossimo a tornare dalla Dieta d’Ungheria. Frattanto avvicinossi pure al conte Stadion allora ministro degli affari esteri; onde l’Imperatore che già conosceva il Pichler per fama, e n’era stato amorevolmente prevenuto dagli officj di così ragguardevoli personaggi lo accolse in modi oltre ogni credere benigni, e dissegli voler fare con esso lui ciò che l’imperatore Giuseppe II fatto avea col fratello Giovanni. Accoglienza sì nobile onorò il Pichler, ma non lo invanì, e fu lieto tornarsene alla sua Roma ove ogni giorno più i suoi lavori invogliavano.
Restituito alla sede del Vaticano con inaudito trionfo il gran Pontefice Pio VII, ambì il Pichler per la devozione somma che serbavagli, e della quale aveva saputo dargli prove manifeste con pericolo della stessa sua vita, di essere ascritto fra gli Ufficiali di quella scelta guardia civica destinata a scortarlo ed accompagnarlo. In questa sola occasione seppe Luigi imprimersi nella mente, e ritrarne l’augusta effigie per modo, che lo stesso Pontefice, cui la sottopose, ne restò sorpreso, e tenne vieppiù l’artista in particolare amorevolezza.
Ma per quanto il Pichler amasse grandemente e Roma e i suoi, fu nel 1818 astretto a cedere agli onorifici inviti, che venivangli fatti dal Ministro degli affari esteri principe Metternich in nome dell’Imperatore Francesco. Quel profondo diplomatico non aveva mai perduto di vista, specialmente dopo il ritratto eseguitogli dal Pichler, il desiderio manifestato molti anni prima dal medesimo Imperatore, e però voleva arricchire l’Accademia di Vienna di sì valente artista col nominarlo professore d’incisione in pietre dure nell’I. R. Università di belle arti. Era egli è vero qualche anno dacchè il Ministro Imperiale residente in Roma tentava la stessa cosa, ma il merito d’averne vinta la ritrosia fu tutto del Metternich.
Eccolo adunque precettore in un’illustre Accademia ove altri professori facevano di loro bella mostra: eccolo tutto occupato intorno la sua scuola, quando a nome dell’Imperatore riceve dal Principe Ministro un novello contrassegno di stima. Aveva in animo Francesco I di dare una testimonianza di filiale affetto e venerazione al Pontefice Pio VII; e dopo avere esitato in sulla scelta divisò riprodurre in ismalto tutte le gemme del gabinetto imperiale. Il Pichler non poteva ricevere più onorevole e grato comando, e fu ben presto e in Italia e in Roma per provvedere all’uopo. Reduce in Vienna si sobbarcò al faticoso lavoro, che in men di due anni portò a compimento superando quelle difficoltà e quegli ostacoli, che pur troppo sia pel sommo valore delle gemme, sia per la delicatezza nel trattarlo avevano ad incontrarsi. A tanta perfezione e somiglianza seppe egli condurre l’intera collezione, che, fattone il confronto, non eravi differenza fra gli originali e gli smalti. Moltissima si ebbe lode dal Monarca, dalla Imperiale famiglia, e dall’Imperatore Alessandro di Russia, che in allora trovavasi in Vienna; di più si meritò il segnalatissimo onore di esser destinato ad offeriria al Pontefice. Giunto in Roma vi fu accolto come addiccevasi e al portatore di una nobilissima offerta, nella quale egli aveva avuto la prima parte dal fato artistico, ed all’altissima stima in che era salito. Tornò così grato al Pontefice il dono, che il volle a perpetua memoria collocato nelle sale della Biblioteca Vaticana6. Il Pichler dopo aver ricevuto singolari dimostrazioni di pontificia benignità si ricondusse in Vienna, e ripigliò le occupazioni della scuola. Addentrato come era in sì difficile studio non cessava dall’istruirne i discepoli additando loro quanto fosse antica l’arte dell’incidere in gemme incominciando dagli ebrei, dai quali l’appresero le altre nazioni, e prima degli altri gli egiziani, i caldei, i persiani, da cui i greci che in particolar modo vi si distinsero. Come fosse perfezionata fra gli etrusci, di che fan fede alcune patere da essi vagamente lavorate, e vari cammei e profonde incisioni in pietre dure7. Come inoltre dai greci passasse ai romani specialmente a tempi di Augusto e di Livia, e perciò quanto fosse importante lo studio di questi lavori de’ buoni secoli. Nulla teneva loro celato di quanto potesse ridondare al perfezionamento dell’arte, ed al modo di dare internamente alle pietre quella pulitura e vivezza, che conobbero e seppero darvi gli antichi, modo che andò nel progresso del tempo perduto, e che solo il Pichler con la sua ingegnosa ed acuta mente era giunto a ritrovare8. Il perchè ben s’ingannano coloro che pretendono giudicare dell’antichità delle gemme dalla sola loro interna lucentezza.
Né della sola istruzione faceva lor copia, davane pure continuo esempio co’ molti lavori che trattava e perfezionava di soggetti mitologici vuoi tolti dall’antico, vuoi di propria invenzione, i quali tutti giunsero ad un numero cospicuo. Le ore stesse del riposo erano da lui spese nella lettura de’ classici e specialmente poeti che avvivano soprammodo l’immaginazione, e che furon sempre cari ai sommi artisti, bastando per tutti il dire qual tesoro far sapesse di Dante il Buonaroti. Dalle quali cose siccome veniva all’Accademia cesarea non poco lustro e decoro, così non è a maravigliare, se nel 28 marzo 1836 a proposta di quel consesso fosse il Pichler nominato con sovrana risoluzione ordinario Consigliere Accademico, essendone già fin dal primo suo giungere in quella città Accademico di merito. Nè fra i lavori vogliamo pur omettere i molti ritratti d’imperatori, di re, di reali principi, non essendovi, potremmo dire, corte europea che non sia ricca di una gemma da esso incisa. Per la qual cosa fu egli donato di magnifici e preziosi regali, e di medaglie in oro personali9, distinzioni tutte che solo si largiscono ai sommi ingegni. Ed a gloria del Pontefice Gregorio XVI di illustre memoria non taceremo, che fautore anch’esso e conoscitore delle arti belle ne premiò in Pichler il merito decorandolo nel 1839 delle insegne di cavaliere dell’Ordine di S. Gregorio Magno, e più tardi, cioè nel 1842, di quelle dell’Ordine di S. Silvestro.
Sebbene fosse il Pichler giunto a tarda età, andasse immune da quegl’incomodi che sogliono accompagnare la vecchiezza, e si vedesse in Vienna ogni giorno più onorato, nondimeno ardeva sempre in lui viso il desiderio di ristabilirsi in patria, ed ivi fra suoi chiudere gli occhi ove li aveva aperti la prima volta alla luce. Impetratone non senza molta difficoltà il permesso, tanto dolea di perderlo, e concessagli a solenne manifestazione di stima dalla corte imperiale la segnalata grazia di una onorevole pensione riabbracciò nella state dell’anno 1850 i suoi congiunti ed amici con una gioja e trasporto che invano si tenterebbe descrivere. Soddisfatto agli offici che una lunga assenza gli rendevano cari, si prescrisse un ordinalo metodo di vita, cui rigorosamente conformossi. Attendeva assai di frequente alle orazioni ed all’esercizio di ogni pratica religiosa, quasi presago di una fine non lontana. Disponeva per lo stesso modo di tutte sue cose, e assai innamorato delle magnificenze del Vaticano sembrava di non poter esser pago se non lasciasse a quella biblioteca una sua memoria. Indirizzava pertanto a mezzo del Cardinal Antonelli umile preghiera al regnante sommo Pontefice Pio IX, perchè si piacesse permettere che vi venisse collocata un’incisione da esso fatta. Degnò il Pontefice secondare la inchiesta del buon vecchio, e dal medesimo Cardinale suo Ministro di Stato facea rendergli benevole parole, ordinando ad un tempo che la gemma fosse collocata fra le altre nella Vaticana, adorna di analoga cornice in oro, e contradistinta del nome di Pichler10. Nè qui fermossi la magnanimità del Pontefice, che volle pur anco l’artista decorato della Croce di Commendatore dell’Ordine di S. Silvestro.
Passava così i giorni tranquilli in una quiete onorata, e lieto del viver suo; ma ciò fu di breve durata, imperocchè piacque al Signore di chiamarlo al riposo de’ giusti il mattino del 13 marzo, ora decorso, assalito da una paralisi, che degenerò tosto in apoplesia. Se riusciron vani i soccorsi dell’arte, se rapidamente perdè l’uso de’ sensi, non gli mancarono que’ conforti di religione che poté in breve spazio di tempo ricevere, e spirando l’anima fra le benedizioni del sacerdote, egli é a credere che varcasse nel porto di salute. Morì in mezzo al pianto de’ congiunti che ne circondavano il letto, lagrimato da quanti il conobbero.
La sua mortale salma per clemenza sovrana venne deposta nella parrocchiale chiesa di s. Andrea delle Fratte, ove dai figli si erigerà un modesto monumento ben degno di essere a lato di una Kauffmann, di un Pessuti, di un Amati e di un Zoega uomini tutti di fama più che europea.
Fu il Pichler alto e svelto della persona; di occhi azzurri vivamente animati; spaziosa la fronte, regolare il naso; il volte macchiato dal vajolo. D’indole allegra e conversevole, nemico dell’orgoglio e degli intrighi; giusto estimatore de’ tempi, e delle cose, temperato sempre ove non fosse tocco nell’onore, che sopra ogni altra cosa aveva caro; generoso, facile all’amicizia, e nel beneficare larghissimo; aperto nella favella; di amena conversazione; modesto nel sentire di se; imparziale verso gli altri; religioso e devoto ai legittimi principi. Godè il favore de’ grandi, in particolare del conte Tatistcheff senatore dell’impero russo, oltre i già nominati, e de’ Cardinali Altieri, e Viale Prelà; la stima di tutti i dotti e letterati contemporanei, fra quali il Monti, il Missirini; nè meno lo ebber caro il Canova già ricordato, il Thorwaldsen, il Girometti, il Cerbara, ed altri valenti artisti romani ed esteri. La Pontificia Accademia di S. Luca lo nominò socio di merito, siccome fecero quelle di Milano, di Venezia, di Firenze.
Il carattere delle opere del nostro Luigi non è dissimile da quello del fratello Giovanni. Ammiri in esse congiunti a grande espressione e verità un disegno sì corretto, una conoscenza delle parti del corpo sì piena e vera, un’arte ammirabile di panneggiare, di animare le figure, di trattare i capelli, i lineamenti del volto e le movenze del corpo, che non ti sazieresti mai dal contemplare un suo lavoro; tutto è sì finito e sapientemente condotto anco nelle più infime parti. Alcuni conoscitori profondi dell’arte trovano nelle incisioni di Luigi, oltre all’aggiunta nel nome della greca lettera Λ iniziale del prenome, una grazia e finitezza maggiore, che in quelle di Giovanni, le quali sentono tutte del classico stilo antico senza mai dipartirsene.
Noi non crederemmo di poter meglio compiere questo umile nostro scritto se non coll’invitare il lettore a scorrere il catalogo che qui appresso riportiamo delle opere dal Pichler eseguite. In questa collezione formata dall’autore medesimo e ridotta al numero di centotrenta circa non si comprendono i diversi lavori che egli vi escluse, altri da lui più volte ripetuti, e i moltissimi ritratti che non rappresentano o principi regnagli o celebrità in scienze ed arti. Abbiamo poi dato ai lavori stessi l’ordine che giudicammo più opportuno, per presentare agli amatori delle arti belle una più facile guida a fine di meglio discernere le opere del Pichler, il quale catalogo varrà ben più di qualsiasi elogio potrebbe a lui farsi; imperocchè in tal guisa ha egli acquistato diritto ad una immortalità e ad una fama, che niuno gli potrà mai rapire.
Note
- ↑ Veggasi la Biografia de’ tre Pichler maestri in gliptica pubblicata in Vienna nel 1844 dal ch. Abb. Mugna.
- ↑ Questo valentissimo artista vide la luce in Napoli nel 1 gennaio 1734 e fu il primo figlio del primo matrimonio di Antonio.
- ↑ Aldini, Istituzioni clittografiche. Cesena 1785.
- ↑ Dante. Inf. XV. 55.
- ↑ Antonio scultore di molto ingegno.
Francesco, Capitano nelle Truppe Imperiali Austriache.
Teresa in convenevole matrimonio collocata. - ↑ Questa collezione è ordinata e disposta entro un apposita cassa di mogano intarsiata di argento.
- ↑ Pignotti - Storia della Toscana T. I lib. I. p. 102.
- ↑ Il metodo è il seguente. Andar sopra il lavoro e ricercarlo diligentemente prima con un ruotino di bosso tinto nel petroglio o nafta, e nella polvere sottilissima del diamante; ripetuto più e più volte questo atto v’induce a poco a poco una certa pastosità ed appannata levigatezza, massimamente nelle pietre più dure di natura cristallina, come sarebbe nel rubino, nel zaffiro ecc. fino al topazio, cosa non necessaria in quelle di natura meno compatta, come nell’agata. Questa prima è seguita da un’altra operazione indispensabile in ogni sorta di pietre, ed è un secondo polimento più forte con ruotina di rame, acido zolforico e tripolo bruciato; con ciò lo scopo è raggiunto.
- ↑ L’una è del Re Carlo Alberto di Sardegna avente nel diritto la reale effigie, nell’esergo la leggenda
ALOISIO PICHLER
COELATORI OPTIMOAL PROFESSORE
LUIGI PICHLER
1842. - ↑ Gemma in sardonica rappresentante la testa di Achille.
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