Istoria della decadenza e rovina dell'Impero romano/1

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Estensione e forza militare dell'impero nel secolo degli Antonini.

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Estensione e forza militare dell'impero nel secolo degli Antonini.
Prefazione dell'autore 2


Nel secondo secolo dell’era cristiana , Roma sottomesso aveva al suo impero le più belle contrade della terra, e fra i suoi sudditi annoverava le più colte nazioni. Il coraggio, la disciplina, una fama acquistata per lunga serie di vittorie, rendevan sicure le frontiere di questa immensa monarchia. La dolce, ma possente influenza delle leggi e de’ costumi , aveva formata l’unione di tutte le province, i di cui abitatori, nel seno della pace, godevano ed abusavano de’ vantaggi del lusso, e delle ricchezze. Conservatasi intanto con religioso rispetto l’immagine d’una libera costituzione. Il senato romano possedeva in apparenza la suprema autorità, e gl’imperatori avevano in mano la potenza esecutrice. Per più di novant’anni la pubblica amministrazione venne regolata dai talenti e dalla virtù di Traiano, di Adriano, e de’ due Antonini. Noi comincieremo dal descrivere il florido stato dell’impero in quello felice periodo; e passerem di poi a riferir le circostanze le più interessanti, che dopo la morte di Marc’ Aurelio accompagnata ne hanno la decadenza, e la rovina: rivoluzione degna d’eterna ricordanza, e che oggi ancora influisce sopra tutte le nazioni del globo.

Le principali conquiste de’ romani furon fatte nel tempo della repubblica. Gl’imperatori si contentarono, per la maggior parte, di conservar questi stati, l’acquisizion de’quali era il frutto della consumata prudenza del senato, dell’attiva emulazione de’ consoli, e del militare entusiasmo del popolo. I primi sette secoli non aveano presentata che una rapida serie di trionfi ; ma all’ imperator Augusto era riserbato l’abbandonare l’ambizioso progetto di soggiogar l’universo . Ei fu quegli, che ne’ pubblici consigli introdusse lo spirito di moderazione. Inclinato alla pace non tanto per la sua situazione, quanto per suo carattere, conobbe facilmente, che Roma, giunta al colmo della grandezza aveva più a temer , che a sperare, se aspirar voleva ambiziosa a nuove conquiste. Volendosi in fatti continuare quelle guerre lontane, l’impresa diveniva ogni giorno più difficile, la riuscita più dubbiosa, e meno utile il possesso. L’esperienza di Augusto venne in aiuto di queste salutevoli riflessioni. In vece di esporsi alle freccie de’ Parti, ei credette di provvedere abbastanza alla sua gloria, ottenendo la restituzione delle bandiere tolte, de’ prigionieri fatti nella spedizione dello sfortunato Crasso. 1

Ne’ primi anni del suo regno, i suoi generali tentarono di soggiogar l’ Etiopia, e l’ Arabia felice ; e quindi per lo spazio di trecento leghe in circa marciarono verso il mezzo giorno del Tropico; ma il caldo del clima fermò ben presto i conquistatori, e protesse i deboli abitanti di quelle lontane regioni.2 Il Settentrione della Europa pareva a coperto da una invasione : nevi e ghiacci non potevan compensare i vincitori della spesa e de’ patimenti. La Germania coperta di boschi e di paludi, nel suo seno alimentava popoli, barbari bensì, ma coraggiosi, che dispregiar sapevan la vita, allorché questa era disgiunta dalla libertà. Sembrò, a vero dire, da principio, che si sottomettessero alla formidabil potenza romana: ma riacquistaron ben presto l’ antica loro indipendenza. La disperazione somministrò loro nuove forze, e giunsero ad imprimere nello spirito di Augusto una terribile idea delle vicende della fortuna3. Alla morte di questo principe, fu letto pubblicamente in senato il suo testamento: Augusto lasciava a’ suoi successori, come la più util porzione della sua eredità , l’ importante avvertimento di rinchiuder l’impero in que’ confini, che dalla mano della stessa natura parevano disegnati ; all’ Occidente l’Oceano Atlantico; il Reno e il Danubio al Settentrione; l’ Eufrate all’Oriente ; e verso il Mezzo giorno le ardenti sabbie dell’Arabia e dell’Affrica4.

Il genere umano era debitore della sua felicità alla prudenza di Augusto : i vizii e la viltà de’ suoi successori contribuirono ad assìcurar la tranquillità dell’impero. I primi Cesari, o dissoluti, o tiranni, rare volte visitavan le provincie, e mostravansi alla testa degli eserciti. Gelosi del valore, e della gloria de’loro luogotenenti, soffrir non potevano, che questi godessero gli onori di quel trionfo, di cui per la loro indolenza erano essi indegni. La fama militare d’un suddito divenne un attentato contro l’imperial dignità. I generali si contentavano di custodir le frontiere, che loro erano state confidate: il loro dovere o il loro interesse egualmente vietava ad essi l’aspirar a conquiste, che non menò che alle vinte nazioni, a lor medesimi state sarebber fatali5.

La Brettagna fu la sola provincia , che i Romani nel primo secolo dell’era nostra aggiungessero ai loro stati. Gl’imperatori credettero allora di dover piuttosto camminar sull’orme di Cesare, che seguir le massime di Augusto. La situazione d’un’ isola vicina alla Gallia, inspirò ad essi il disegno d’ insignorirsene; e la loro cupidigia era di più solleticata dalla lusinghiera, come che incerta, speranza di trovar colà delle perle6. Pareva, che la Brettagna fosse un mondo separato; quindi questa conquista formava appena una eccezione al sistema generalmente adottato pel continente. Dopo una guerra di circa quarant’anni7, intrapresa, sostenuta , e terminata dai più stupidi, dai più dissoluti , e più vili di tutti i principi, una gran parte dell’ isola fu sottomessa al giogo de’ romani8. Le varie tribù che componevan la britannica nazione, eran dotate di un cieco valore, e appassionate per la libertà, ignoravano i vantaggi d’una unione, che sola poteva renderli invincibili. Questi popoli incostanti prendevan l’ armi con fierezza, e ad un tratto le deponevano, o non ne facevan uso, che per distruggersi fra di loro. Invece di collegarsi contro il comune inimico, combatteron divisi, e furon soggiogati. Né il valor di Carattaco, né la disperazione di Boadicea, né il fanatismo de’druidi poteron sottrar la patria alla schiavitù. I bretoni furono incapaci di resistere ai costanti progressii de’generali dell’impero, che sostenevan la gloria nazionale, in quel tempo stesso, in cui la maestà del trono era avvilita dal delitto, e dalla bassezza. Mentre il feroce Domiziano , rinchiuso nel suo palazzo, provava in se medesimo quel terrore, ch’egli ispirava ; le sue legioni sotto il comando del virtuoso Agricola, a’ piedi del monte di Grampia dissipavano le forze riunite de’ caledonii; e le sue flotte, malgrado i rischii d’una incognita navigazione, spiegavano intorno all’isola gli stendardi di Roma. Già la Brettagna poteva essere riguardata come sottomessa : Agricola disegnava di compierne la conquista, e di assicurare i felici suoi eventi colla riduzion dell’Irlanda. Una sola legione, ed alcune truppe ausiliari sembravan bastanti per la esecuzione del suo pensiero9. Il possesso di quest’isola occidentale avrebbe potuto divenire sommamente vantaggioso; e i bretoni con minor ripugnanza portate avrebber le loro catene , se la vista, e l’ esempio della libertà fossero state intieramente allontanate da’ loro sguardi.

Ma il merito superiore di Agricola fu cagione, ch’ei venisse ben presto richiamato dal suo governo di Brettagna; e con ciò fu per sempre distrutto il piano di conquista, che con tanta prudenza egli aveva formato. Prima della sua partenza, Agricola provvide alla sicurezza del paese, che era costretto ad abbandonare. Aveva egli osservato, che l’isola è quasi divisa in due parti ineguali da due golfi, opposti : costruì alcuni fortini lungo la picciola lingua di terra, che la separa; e questa fortificazione prese dipoi una forma più singolare sotto il regno di Antonino il pio, che vi fece erigere un bastione di terra e d’erba le di cui fondamenta eran di pietra10. Questa muraglia inalzata alquanto al di là di Edimburgo, e di Glasgow, servi di confine all’ impero. I caledonii conservarono la loro indipendenza nella parte settentrionale dell’isola : la loro povertà egualmente che il valor loro ottenne loro questo prezioso vantaggio. Facevan eglino frequenti scorrerie; ma eran tosto risospinti, e puniti. Ciò nonostante il loro paese non restò mai soggiogato11: i sovrani de’climi più ridenti, è più fertili del globo non miravano che con disprezzo, alcune montagne esposte ai furori delle tempeste, alcuni laghi coperti di folta nebbia, valli inculte, ove miravasi il timido cervo darsi alla fuga all’avvicinarsi d’una truppa di barbari nudi, e irsuti.12

I successori di Augusto aveano costantemente seguito le politiche sue massime ; e tale dopo la sua morte era lo stato delle frontiere dell’impero , allorché Traiano salì sul trono. Questo principe virtuoso, e pieno di attività, ricevuto aveva l’educazione di un soldato, e possedeva i talenti di un generale.13 Il pacifico sistema de’suoi antecessori venne ad un tratto interrotto da guerre, e da conquiste. Dopo un lungo intervallo le legioni videro finalmente comparire alla loro testa un imperatore capace di comandare alle medesime. Trajano segnalossì da principio contro i Daci, nazione bellicosa, che soggiorno faceva di là dal Danubio, e che sotto il regno di Domiziano insultato aveva impunemente la romana maestà.14 Alla forza, ed alla intrepidità dei barbari, i Daci aggiungevano un disprezzo per la vita, che veniva loro inspirato da un’intima persuasione della trasmigrazione, e dell’immortalità dell’anima.15 Decebale loro re, non era un rivale indegno di Traiano : ei non disperò della sua fortuna, e di quella della sua nazione, se non dopo di avere, per confessione degli stessi suoi nemici, inutilmente messe in opera tutte le macchine del valore, e della politica.16 Questa memorabil guerra durò quasi senza alcuna interruzione per lo spazio di cinque anni; Trajano, che a suo talento dispor poteva di tutte le forze dell’Impero, rimase vincitore, e interiamente soggiogò i barbari.17 La Dacia, che faceva un’ altra eccezione ai precetti di Augusto aveva 400 leghe in circa di circonferenza: i limiti naturali di questa provincia erano il Niofter , il Teifs , o sia Tibisco, il Danubio, e il Ponto Eusino. Miransi anche in oggi le vestigia di un cammino militare dal Danubio fino presso Bender, piazza famosa nell’istoria moderna, e che presentemente serve di frontiera all’impero ottomanno, ed alla Russia.18

Ardeva Trajano di desiderio di acquistarsi una riputazione. Finché l’uman genere continuerà a collocare i suoi distruttori nel primo ordine, e ad accordare a’ suoi benefattori un minor tributo di elogii; la sete della gloria militare sarà sempre il difetto delle anime più sublimi. Le lodi di Alessandro cantate dai poeti, e dagli istorici più famosi, accesa aveano nell’ anima di Trajano una pericolosa emulazione. L’imperator romano tentò sull’esempio del re macedone, di incatenare le nazioni dell’Oriente; ma poi sospirava , riflettendo che l’ avanzata sua età non gli lasciava la speranza di uguagliare la fama del figliuolo di Filippo19. Intanto se non lunghe , brillanti almeno, e rapide furono le spedizioni di Trajano. Ei mise in rotta i parti degenerati, e indeboliti da guerre intestine. Scorse in trionfo le sponde del Tigri, dalle montagne d’Armenia fino al golfo persico. Questo principe fu il primo che navigasse su questo mare lontano; e di tutti i generali romani egli è il solo che abbia mai goduto di questo onore. Le sue flotte devastarono le coste dell’ Arabia . Finalmente Trajano si lusingò di esser presso alle sponde dell’ Indo20. Ogni giorno il senato udiva con maraviglia favellar di nomi oscuri, e di nuovi popoli, che riconoscevano la possanza di Roma, né senza la maggior sorpresa poté intendere che i re del Bosforo, di Colco, della Iberia, dell’ Albania, d’ Oshroene, che il Sovrano de’ Parti egli istesso ricevuta avevano i loro diademi dalle mani dell’ imperatore ; che i Medi, e gli abitanti delle montagne di Carduchia implorato avevano la sua protezione ; e che in altrettante provincie erano state ridotte le opulente contrade dell’ Armenia, della Mesopotamia, e della Siria21. Queste magnifiche immagini si deleguarono alla morte di Trajano, e si ebbe ogni motivo di temere, che nazioni cotanto lontane scuotessero il giogo; poiché non avevano più a temere la mano potente che loro lo aveva imposto. Correva voce, che allorquando il Campidoglio era stato fondato da uno degli antichi Re di Roma, il Dio Termine, solo fra le inferiori divinità , ricusato aveva di cedere il suo luogo a Giove medesimo. Questo Dio presiedeva ai limiti, e giusta l’ uso di que’ tempi grossolani era rappresentato sotto la forma d’una pietra. Gli auguri aveano interpretata questa ostinazione del Dio Termine nella più favorevol maniera : era ciò, a parer loro, un certo presagio, che i confini della Romana potenza non ritrocederebbero giammai22. Questa tradizione erasi sempre confermata; e siccome accade comunemente, la predizione per un lungo corso di secoli ne assicurò il compimento. Ma avvegna che il Dio Termine avesse resistito alla Imaestà di Giove, ciò nonostante fu costretto a cedere alla autorità di Adriano23. Questo imperatore cominciò il suo regno dal rinunziare alle nuove conquiste di Trajano in oriente. I Parti ricuperarono il diritto di eleggere il loro sovrano, e le truppe, romane abbandonarono le piazze, ove erano di guarnigione nell’Armenia, nella Siria, e nella Mesopotamia. Adriano adattò nuovamente il sistema di Augusto; e il corso dell’ Eufrate tornò a servir di frontiera all’impero24. L’invidia, che non lascia giammai di censurare le pubbliche azioni, e le mire particolari dei principi ha tentato di attribuire a motivi di gelosia una condotta, che era forse dettata dalla prudenza, e dalla moderazione. Un tale sospetto sembra fondato sul carattere singolare di Adriano, capace a vicenda de sentimenti più vili, e più sublimi. Del resto ei non potea far risplendere più luminosamente la superiorità del suo predecessore, quanto confessandosi egli stesso troppo debole per conservare le conquiste di Trajano.

Il genio marziale e ambizioso dell’uno messo in opposizione colla moderazione dell’altro formava un contrasto, che sembrerà ancora più sorprendente, ove si paragoni la mansueta tranquillità di Antonino il pio, colla infatigatile attività del suo antecessore. La vita di Adriano altro quasi non fu, che un perpetuo viaggio; quefto principe amava la guerra, coltivava le lettere, e possedeva i talenti d’un uomo di stato ; soddisfece tutte le sue inclinazioni, nel tempo stesso in cui serviva alle cure del suo impero. Insensibile alla differenza delle stagioni, e dei climi, camminava a piedi, e a capo scoperto nelle nevi della Caledonia, e nelle ardenti pianure dell’alto Egitto. Finalmente allorché ei fu sul trono, non vi fu una provincia, che onorata non fosse dalla presenza del sovrano25, là dove Antonino passò nel seno dell’Italia tranquillamente i suoi giorni. Nel corso di ventitré anni che quefto amabil principe tenne le redini del governo, i suoi viaggi più lunghi furono da Roma a Lanuvio , ove ritiravasi per godere i piaceri della campagna26. Ad onta di questa diversità nella personale loro condotta, Adriano, e i due Antonini non si allontanarono dal general sistema abbracciato da Augusto. Conservarono il progetto di mantenere la dignità dell’impero senza tentare di estenderne i limiti; e questi principi furono anche veduti impiegare ogni sorta di onorevoli mezzi per acquistarsi l’amicizia de’barbari. Il loro fine era di convincere il genere umano che Roma, rinunziando ad ogni idea di conquisla non era più animata, che dall’amore dell’ ordine e della giustizia; l’evento coronò per il corso di quarantatré anni questa rispettabil politica; e se ne eccettuviamo un piccol numero di ostilità, che non servivano che a tenere in esercizio le legioni sparse sulle frontiere, l’universo fu in pace sotto i regni fortunati di Adriano e di Antonino il pio27.

Il nome romano era rispettato fra le nazioni della terra le più lontane; spesso i barbarii più fieri sottomettevano le loro differenze alla decisione dell’imperatore; e giusta la testimonianza d’un istorico contemporaneo, alcuni ambasciatori, che eransi trasferiti in Roma per chiedere l’onore di essere ascritti all’ordine dei cittadini, se ne tornarono senza aver potuto ottenere una tale distinzione28. Il terrore dell’armi romane rendeva più grande, e più rispettatile la moderazione de’ sovrani. Conservavano questi la pace con tenersi perpetuamente preparati alla guerra; e fintantoché l’equità regolò la loro condotta, le nazioni vicine li accolsero, che eglino erano egualmente poco disposti a combatterle, che a far nuove conquiste. Marc’ Aurelio impiegò contro i germani, e contro i parti quelle formidabili forze che Adriano, e il di lui successore eransi contentati di spargere intorno alle loro frontiere. Gl’insulti dei barbari svegliarono il risentimento di questo principe filosofo; costretto a prendere le armi per difenderli, Marc’ Aurelio co’ suoi generali riportò molte segnalate vittorie sull’ Eufrate, e sul Danubio29. Passiamo ad esaminare gli stabilimenti militari del romano impero. Ella è cosa di molta importanza l’osservare in qual maniera per sì lungo tempo ne hanno essi assicurata la tranquillità, e il declino.

Ne’ bei giorni della repubblica, l’uso delle armi era riserbato a quella classe di cittadini, che amavano la loro patria, che avevano un patrimonio da difendere, e che partecipando allo stabilimento delle leggi, erano interessati a farle rispettare. Ma a misura che l’estensione delle conquiste indebolì la pubblica libertà, coloro che destinavansi alla professione delle armi, la studiarono insensibilmente come una scienza , e la esercitarono come un mestiero30. Supponevasi sempre che le legioni, come che spesso levate nelle più lontane provincie non fossero formate che di cittadini romani. Secondo il rigore delle leggi vi erano ammessi solamente coloro che già godevano del diritto di cittadinanza; e se talvolta arruolate venivano persone straniere, un tal privilegio era loro accordato, come la distinzione del loro stato, o come la ricompensa de’ loro servigii ; ma in progresso di tempo si ebbe più particolarmente in vista il merito essenziale dell’età, della forza, e de la statura militare31. In tutte le leve di truppe accordavasi con ragione la preferenza ai climi del settentrione sopra quelli del mezzogiorno, nelle campagne piuttosto che nelle città cercavansi uomini, che nati fossero per le armi; imperciocché dovevasi prefumere che le penose fatiche dei falegnami, de’ fabbri, e de’cacciatori, renderebbero più robusto, e vigoroso un corpo, che non le occupazioni sedentarie, che contribuiscono al lusso32. Allorché il diritto di proprietà non fu più un titolo per ottenere impiego negli eserciti, le truppe degli imperatori romani furono comandate da nobili ufiziali educati alla corte; ma i soldati, simili alle mercenarie truppe della moderna Europa, erano tratte dalla classe la più vile, e spesso la più corrotta.

L’ antica virtù del patriottismo nasce dalla ferma convinzione, che il nostro interesse è intimamente unito alla conservazione, ed alla prosperità dello stato di cui siamo membri. Una tale persuasione rese aveva quasi invincibili le legioni della romana repubblica ma far non poteva che una impressione molto debole sugli schiavi mercenarii di un principe dispotico. Allorché questo principio fu distrutto, si cercò di supplirne la mancanza con altri motivi di assai diversa natura; ma di cui prodigiosa era la forza; la religione, e l’onore. Il contadino, o l’artista pensava che nell’atto di prendere le armi egli esercitava una nobile professione, nella quale il suo avanzamento , e la sua gloria dipendevano dal suo coraggio; ed avvegnaché le imprese di un semplice soldato sfuggano spesso alla fama, ciò nonostante ei non ignorava che era in suo potere coprir di gloria, o di vergogna la compagnia, la legione, l’annata stessa di cui divideva i trionfi. Appena era egli entrato in servigio, che colla più gran pompa esigevasi da luì un solenne giuramento. Giurava egli di non abbandonar giammai la sua bandiera, di sottomettere la propria sua volontà agli ordini de’ suoi comandanti, e di sacrificare la sua Vita per la sicurezza dell’imperatore, e dell’impero33. L’ affezione delle truppe romane ai loro stendardi era in essi ispirato dalla influenza riunita della religione, e dell’onore. L’aquila dorata, che splendeva alla testa della legione, era l’oggetto di culto più profondo. Abbandonare nel momento del pericolo questa rispettabile insegna , egli era un coprirsi di ignominia, e un rendersi colpevole di Sacrilegio34. Questi motivi, che dalla immaginazione avevano origine, erano sostenuti da timori, e da speranze più reali : mercede regolare, gratificazioni, certa ricompensa dopo il prescritto termine del servigio, erano tutte cose che animavano i soldati a tollerare le fatiche della vita militare35. Dall’altra parte la viltà, e la dissubbidienza non poteano sfuggire i più severi gastighi. I centurioni avevano il diritto di battere i colpevoli, e i generali aveano quello di punirli colla morte. Le schiere , educate nella romana disciplina, aveano per invariabil massima, che ogni buon soldato doveva più temere il suo ufiziale, che il nemico. Istituzioni cotanto saggie contribuirono a fortificare le armate, e ad ispirar loro una docilità, che giammai non potè essere adottata da barbari impetuosi, che non conoscevano alcuna disciplina.

Il valore non è che una imperfetta virtù senza il sapere, e senza la pratica. Erano i romani così persuasi di questa verità, che la parola di esercito in loro favella derivava da un’ altra, che significava esercizio36. In fatti gli esercizii militari erano il più importante oggetto della loro disciplina : mattina e sera i giovani soldati stavano costantemente sotto le armi; e i veterani ad onta della loro eta, e di una profonda cognizione dell’arte loro, ripetevano tutti i giorni ciò che fino dalla più tenera loro giovinezza aveano imparato. Quando le truppe erano a quartier d’inverno , si costruivano vaste gallerie, affinché gli esercizii militari interrotti non fossero da i rigori della stagione. In queste imitazioni della guerra si aveva cura di prendere armi che fosser due volte più pesanti di quelle di cui facevasi uso in una azione reale 37. Una esatta descrizione degli esercizii de’ romani non ha luogo nel piano di quell’opera; osserveremo solamente che tendevan tutti a rendere più robusto il corpo, più pieghevoli le membra, e più graziosi i movimenti. Insegnavasi diligentemente ai soldati a marciare, a correre , a saltare , a nuotare , a portare gravi pesi, a maneggiare ogni sorta d’ armi offensive, e difensive, a formare un gran numero di evoluzioni , e ad eseguire al suono del flauto la danza pirrica, o sia militare38. Allorché la repubblica era in pace, le squadre romane si familiarizzavano colla guerra. Se fede si presta ad un antico istorico che combattuto avea contro di esse, la effusione del sangue era la sola differenza che passava fra un campo di battaglia, e un campo di esercizio39. I più esperti generali, gli stessi imperatori animavano colla loro presenza, e col loro esempio questi studii militari; Trajano e Adriano si degnarono di frequentemente ammaestrare i soldati meno esperimentati, di ricompensare i più abili, e talvolta disputar con essi il premio della forza , o della destrezza40. Sotto il regno di questi principi la tattica venne coltivata con felice riuscita ; e finché l’impero conservò qualche vigore, le militari loro istituzioni furono rispettate, siccome il più perfetto modello della romana disciplina.

Nove secoli di guerra aveano insensibilmente introdotto molti cambiamenti nel servigio, e lo aveano perfezionato. Le legioni descritte da Polibio41, e comandate dagli Scipioni, differivano essenzialmente da quelle che alle vittorie contribuiron di Cesare , e che fecero rispettare il nome di Adriano, e degli Antonini. Noi riferiremo in poche parole ciò che costituiva la legione romana42. L’infanteria che costituiva il principal suo nerbo43, era divisa in dieci coorti, e in cinquantacinque compagnie, sotto il comando d’ un simil numero di tribuni, e di centurioni. Il posto d’onore, e la guardia dell’aquila appartenevano alla prima coorte, composta di millecentocinque soldati, che per valore, e per fedeltà erano il fior dell’ esercito. Le altre nove coorti ne aveano ciascheduna cinquecentocinquantacinque ; e tutto il corpo dell’infanteria legionaria ascendeva a seimilacento uomini. Le loro armi erano uniformi, e mirabilmente adattate alla natura del loro servigio ; portavano un elmo aperto sopra cui sorgeva un pennacchio assai alto, una corazza, o sia un giacco di maglie, e gli stivaletti: ed al braccio sinistro appeso avevano un largo feudo di forma concava, ed ovale, lungo quattro piedi, largo due e mezzo fatto di legno leggiero coperto di una pelle di bove, e guarnito di foirti placche di bronzo. Oltre un dardo leggiero il soldato legionario bilanciava colla sua destra quel formidabile giavellotto la di cui lunghezza era di sei piedi, e che terminava in una punta di acciaio di dieciotto pollici, tagliata a forma di triangolo44. Questa arma era bene inferiore alle nostre armi moderne, poiché servir non potea, che una volta sola e in distanza di soli dieci o dodici passi, ciò nonostante allorché era lanciata da un polso fermo e destro, non vi era scudo capace di resistere alla sua forza; ed alcuna cavalleria non aveva il coraggio di stare a portata de’ suoi colpi. Appena il romano aveva gettato il suo dardo, che colla spada alla mano piombava impetuosamente sul nemico. Questa spada era una lama di Spagna, corta, di una tempra eccellente, formata a doppio taglio, ed egualmente atta a tagliare che a pungere; ma il soldato preferiva questa ultima maniera di servirsene, persuaso che ci restava poco esposto, e che nel tempo stesso più pericolosamente feriva il suo nemico45. La legione era comunemente schierata sopra otto linee, e le fila non meno dei ranghi erano sempre in distanza di tre piedi46. Un corpo di truppe, avvezzate a serbare tal ordine, disposte largamente di fronte, e capaci di correre con rapidità a caricar l’inimico, poteva eseguire tutto ciò che esigevano gli avvenimenti della guerra, e l’abilità del generale. Il soldato aveva uno spazio libero per le sue armi, e per i vari suoi movimenti; e gli intervalli erano disposti con tant’arte, che i soccorsi giungevan sempre a tempo per sostenere gli spossati combattenti (47). La tattica de’ Greci, e de’ Macedoni avea per base principii assai diversi: la forza della falange consisteva in sedici fila di lunghe picche strettamente unite tra di loro (48). Ma la riflessione, e l’esperienza provarono che questa immobil massa era incapace di resistere all’inattività della legione.

La cavalleria, senza la quale la forza della legione sarebbe rimasta imperfetta, era divisa in dieci squadroni; il primo compagno della prima coorte consisteva in centotrentadue uomini; e ognuno degli altri nove in sessantasei, il che faceva in tutto per servirci di moderne frasi, seicentoventisei cavalli. Sebbene ogni reggimento seguisse naturalmente la respettiva sua legione, ciò nonostante secondo le circostanze ne veniva separato, per esser messo in linea, e far parte delle ali dell’esercito (50). Sotto gl’Imperatori, la cavalleria era ben diversa da ciò che era stata nella sua origine. A tempo della repubblica era essa composta de’ più qualificati giovani di Roma, e dell’Italia, i quali per la strada del servigio militare si preparavano ad ottenere le dignità di senatori, e di consoli, e che colle loro imprese tentavano di conquistare i voti de’ loro concittadini (51). Ma dopo la rivoluzione fattasi nei costumi, e nel governo, i più possenti dell’ordine equestre si consacravano alla amministrazione della giustizia, ed alla percezione delle pubbliche rendite (52). Quelli che abbracciavano la professione delle armi, erano incontinente rivestiti del comando d’una coorte, o d’uno squadrone (53). Trajano, e Adriano trassero la loro cavalleria dalle stesse province, e dalla stessa classe de’ loro sudditi, che somministravano uomini alle legioni. Si facevano venire cavalli dalla Spagna, e dalla Cappadocia. Invece di quella compiuta armatura, nella quale la cavalleria degli orientali era come imprigionata, i Romani portavano un elmo, ed uno scudo ovale, piccoli stivali e una cotta di maglie; una giavellina, ed una larga spada erano le principali loro armi offensive. Sembra che dai Barbari avesser preso l’uso delle lance, e delle clave di ferro (54).

La sicurezza, e l’onore dell’Impero, erano in principal modo confidati alle legioni; ma Roma per politica consentì ad adottar tutto quello che in guerra potesse esserle utile. Si faceano comunemente leve considerabili nelle provincie, i di cui abitanti non aveano meritato l’onorevole distinzione di cittadini. I principi, e gli stati vicini erano obbligati al servigio militare, e non conservavano la loro libertà che a questo patto (55). Accadeva anche spesso, che i più coraggiosi fra i barbari, traspiantati ad un tratto per forza, o per persuasione in climi lontani, faceano servire al bene d’un impero, un valore che avrebbe potuto essergli funesto (56). Tutti questi diversi corpi erano generalmente conosciuti sotto il nome di ausilarii. Sebbene il loro numero variasse coi tempi, e colle circostanze, ciò nonostante rare volte era inferiore a quello delle legioni (57). I più coraggiosi, e i più fedeli fra questi ausiliari, erano messi sotto il comando del prefetto, e de’ centurioni, e educati sotto la disciplina de’ Romani; ma per la maggior parte ritenevano le armi che fino dalla più tenera loro età appreso aveano a maneggiare; e siccome gli ausiliari erano distribuiti sotto ciascheduna legione, quindi le armi romane contenevano tutte le varie specie di truppe, ed avevano il vantaggio di opporre ad ogni nazione la stessa disciplina, e le armi stesse, che le rendevano formidabili (58). La legione non mancava di ciò che nelle moderne nostre lingue chiamar si potrebbe un treno di artiglieria; poiché avea sempre dietro di se dieci macchine da guerra della prima grandezza, e cinquantacinque più piccole, che tutte, secondo le varie direzioni, lanciavano pietre e dardi con una irresistibil potenza (59).

Il campo di una legione romana somigliava ad una città fortificata (60). Tostoché lo spazio era disegnato, i guastatori avean cura di spianare il terreno, e di levare tutti gli ostacoli, che avrebber potuto nuocere alla perfetta regolarità del campo. Quadrangolare ne era la forma. E’ facile immaginare che un quadrato, ogni lato del quale era di circa due mila piedi, bastava per contenere venti mila uomini, avvegnaché oggi giorno un egual numero di truppe presenti al nemico una fronte tre volte più larga. In mezzo al campo distinguevasi fra le altre tende il pretorio, o sia il quartiere del generale. La cavalleria, l’infanteria, e le truppe ausiliari occupavano i rispettivi loro posti. Larghe, e assai diritte erano le strade, e da ogni parte si cavava uno spazio libero di dugento piedi tra il terrapieno e le tende. Il terrapieno era comunemente di dodici piedi di altezza, difeso da forti palizzate, e circondato da un fosso, la di cui larghezza, e profondità erano di dodici piedi. I legionari erano i soli, cui affidata fosse quest’opera imponente. La vanga, e il piccone non erano loro meno familiari, che la spada, e il giavellotto. Nulla forse è più atto a provare l’eccellenza della romana disciplina.

Work in progress


Note

  1. Dione Cassio, (lib. 54. pag. 736) colle note di Reymar, che ha radunato tutto ciò che la romana vanità ci ha lasciato in quest’occasione. Il marmo di Ancira, sul quale Augusto avea fatto incidere le sue imprese, c’istruisce, che quest’imperatore sforzò i Parti a restituire gli stendardi di Crasso.
  2. Strabone (lib. 16, p. 780), Plinio (Hist. Nat. l. 6, c. 32 e 35), e Dione Cassio (l. 53 p. 723 e l. 54 p. 734), ci hanno lasciato notizie quanto minute altrettanto curiose di queste guerre. I Romani si resero signori di Mariaba, o sia Mariab, città dell’Arabia Felice assai nota agli orientali (v. Abulfeda, e la geografia della Nubia, p. 52). Dopo una marcia di tre giorni penetrarono fino nel paese che produce gli aromi, principale oggetto della loro invasione.
  3. Colla strage di Varo, e delle sue tre legioni (v. il primo libro degli Annali di Tacito, Svetonio, Vita di Augusto c. 23, e Valerio Paterculo, l. a. c. 117 ec.). Augusto non ricevette la notizia di questa sconfitta con tutta la moderazione, né con tutta la costanza, che doveva naturalmente aspettarsi dal suo carattere.
  4. Tacito annal. l. 2, Dione Cassio l. 56 p. 833, e il discorso di Augusto medesimo nella satira de’ Cesari. Quest’ultima opera è sommamente illustrata dalle dotte note dello Spanbemio, che l’ha tradotta in lingua francese.
  5. Germano, Svetonio Paolino, ed Agricola, trovarono ostacoli, e richiamati furono nel corso delle loro vittorie. Corbulone fu condannato a morte. Il merito militare, come Tacito meravigliosamente lo esprime, era veramente imperatoria virtus.
  6. Cesare non allega una tal ragione; ma Svetonio ne fa menzione al cap. 47. Del resto le perle della Bretagna ebbero poco valore a cagione del loro colore livido e oscuro. Tacito osserva che questo era un difetto inerente (Vita di Agricola, c. 12). Ego facilius crediderim naturam margaritis deesse, quam nobis avaritiam.
  7. Sotto i regni di Claudio, di Nerone, e di Domiziano. Pomponio Mela, che scriveva sotto il primo di questi principi, spera (lib. 3, cap. 6), che attesa la facilità delle armi romane, l’isola e i selvaggi suoi abitanti saranno fra poco assai meglio conosciuti. Ella è una cosa che fa molto piacere il leggere questi passi nel mezzo di Londra.
  8. Veggasi il mirabil compendio, che Tacito ci ha lasciato nella Vita di Agricola. Questo argomento nonostante le ricerche de’ dotti nostri antiquarii , Camdeno, e Horsley, è ben lungi dall’essere esaurito.
  9. Gli scrittori irlandesi, gelosi della gloria della loro patria, sono sommamente sdegnati per questo motivo contro Tacito, e contro Agricola.
  10. vedi Brittania romana dell’Horsley, l. I, c. 10.
  11. Il poeta Bucanano celebra con molto spirito, ed eleganza (ved. le sue Sylvae), la libertà di cui gli antichi scozzesi hanno sempre goduto. Ma se la sola testimonianza di Riccardo di Cirecenster basta per creare una provincia romana al settentrione della muraglia, una tale indipendenza trovasi rinchiusa entro confini sommamente angusti.
  12. Ved. Appiano (in proaem), e le uniformi descrizioni delle poesie erse, le quali in tutte le ipotesi sono state composte da un abitatore della Caledonia.
  13. Ved. il Panegirico di Plinio, che sembra sostenuto da’ fatti.
  14. Dione Cassio l. 67.
  15. Erodoto l. 4 c. 94, Giuliano ne’ Cesari, colle osservazioni dello Spanbemio.
  16. Plinio Epis. 8.9.
  17. Dione Cassio l. 68 p. 1123, 1131, Giuliano in Caesaribus; Eutropio, 8 a. 6, Aurelio Vittore in Epitoin.
  18. Ved. una memoria del Signor di Anville, intorno alla provincia della Dacia, nella raccolta dell’Accademia delle iscrizioni tom. 28, p. 444. 468.
  19. I sentimenti di Traiano sono rappresentati al naturale, e molto piacevolmente ne’ Cesari dell’Imperator Giuliano.
  20. Eutropio, e Sesto Rufo hanno voluto perpetuare questa illusione. Ved. una dissertazione sommamente ingegnosa del sig. Freret nelle memorie dell’Accademia delle iscrizioni tom. 21 p. 55.
  21. Dione Cassio lib. 68, e gli abbreviatori.
  22. Ovid., fast. l. a v. 667; ved. Tito Livio, e Dionigi di Alicarnasso, al regno di Tarquinio.
  23. S. Agostino prende molto piacere a riferire questa prova della debolezza del Dio Termine, e della Vanità degli Auguri, ved. De Civitate Dei 4,29.
  24. Ved. l’istoria augusta p. 5, la cronaca di S. Girolamo, e tutti i compendii. Ella è cosa molto singolare, che questo memorabile avvenimento sia stato omesso da Dione, o piuttosto da Xifilino.
  25. Dione, l. 69 pag. 1158 ist. aug. p. 5.8. Quand’anche tutte le opere degl’istorici fossero perdute, le medaglie, le iscrizioni, e gli altri monumenti di questo secolo basterebbero per farci conoscere i viaggi di Adriano.
  26. Ved. l’istoria augusta, e i compendii.
  27. Non bisogna però dimenticarsi, che sotto il regno di Adriano il fanatismo armò gli Ebrei, ed eccitò una violenta ribellione in una provincia dell’Impero. Pausania (l. 8 c. 43) parla di due guerre necessarie, felicemente terminate dai generali di Antonino il Pio; l’una contro i Mori vagabondi, che scacciati furono nei deserti del Monte Atlante; l’altra contro i briganti della Brettagna, che invasa avevano la provincia romana. L’istoria augusta fa menzione, p. 19, di queste due guerre, e di altre molte ostilità.
  28. Appiano Alessandrino nella prefazione della sua istoria delle guerre romane
  29. Dione l. 71, istoria augusta in Marco. Le vittorie riportate sui Parti hanno fatto nascere una gran quantità di relazioni, i di cui dispregevoli autori sono stati salvati dall’obblio, e messi in ridicolo in una ingegnosissima satira da Luciano.
  30. Il più povero soldato possedeva più di novecento lire (Dionigi di Alicarnasso, 4.17); somma considerabile in un tempo, in cui la specie era tanto rara che un’ oncia d’argento valeva settanta libbre di bronzo. Il volgo, che per antica costituzione era stato escluso dal servizio militare, fu indifferentemente ammesso da Mario. ved. Sallustio, Guerra di Giugurta, c. 91.
  31. Cesare compose una delle sue legioni(chiamata Alauda) di Galli e di stranieri; ma ciò accadde in tempo della licenza delle guerre civili; e dopo le sue vittorie, li ricompensò col diritto di cittadini romani.
  32. ved. Vegezio De re militari l. I c. 2. 7.
  33. Il giuramento di fedeltà, che l’imperatore esigeva dalle truppe, rinnovavasi ogn’anno nel primo giorno di gennajo.
  34. Tacito chiama la aquile romane bellorum deos. Collocate in una cappella in mezzo al campo, erano al pari delle altre divinità adorate dai soldati.
  35. Ved. Gronovio, de pecunia vetere, l. 3 p. 120. ec. L’Imperator Domiziano fece ascendere l’annuo stipendio de’ legionari a dodici pezze d’oro, il che forma duecento quaranta lire in circa. Questo stipendio si accrebbe insensibilmente di poi, a misura del progresso militare e della ricchezza dello stato. Dopo vent’anni di servizio, il veterano riceveva tre mila denari, o siano duemila duecento lire, o una porzione di terra dal valore di quella somma. La paga delle guardie era il doppio di quella dei legionari, e in generale le guardie godevano di privilegi molto più considerabili.
  36. Exercitus ab exercitando; Varrone De lingua latina, l. 4; Cicerone tuscul. l. 2. 37. Si potrebbe fare un’ opera molto interessante, esaminando la relazione che esiste fra la lingua e i costumi di una nazione.
  37. Vegezio l. 2, e il restante del primo suo libro.
  38. Il sig. Le Beau ha pubblicato alcune illustrazioni sulla danza pirrica, nella raccolta dell’Accademia delle iscrizioni 4 tom. 35 p. 22 ec. Questo dotto accademico ha raccolto in una serie di eccellenti memorie tutti i passi degli antichi, che riguardano la legione romana.
  39. Gioseffo, De bello judaico l. 3 c. 5. Noi siamo debitori a quasi ebreo scrittore di alcune minute notizie sommamente curiose intorno alla disciplina romana.
  40. Panegirico di Plinio cap. 13; vita di Adriano nella istoria augusta.
  41. Ved. nel 6. libro della sua istoria un’ammirabile digressione sulla disciplina de’ Romani.
  42. Vegezio de re militari l. 2 c. 4 ec. Una considerabil parte del suo compendio è presa dai regolamenti di Traiano e di Adriano. La legione tal quale egli la descrive, non può convenire ad alcun altro secolo dell’Impero romano.
  43. Vegezio de re militari l. 2 c. 1. Al tempo di Cicerone e di Cesare la parola miles si limitava quasi alla sola infanteria. Sotto gl’Imperatori e ne’ secoli di cavalleria, questo nome indicò in particolar modo le persone, che combattevano a cavallo.
  44. Al tempo di Polibio e di Dionigi di Alicarnasso (l. 5 c. 45) sembra che la punta d’acciaio del pilum sia stata molto più lunga. Nel secolo, in cui Vegezio scriveva, fu limitata ad un piede, e fin’ anche a nove pollici. Io mi sono tenuto ad un termine medio.
  45. Quanto alle armi de’ legionari ved. Giusto Lipsio, de militia romana, lib 3 c. 2.7.
  46. Ved. la bella comparazion di Virgilio, georg. a.v. 279.