Istoria delle guerre gottiche/Libro secondo/Capo IX
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO IX.
Tentativi de’ Gotti per impossessarsi di Roma col mezzo d’un acquidotto; ma dopo vani assalti ora in palese, ora proditoriamente dati, vien meno ogni loro speranza. — Gastigo da Belisario imposto ad un traditore.
I. In epoca non molto posteriore i Gotti bramosi di macchinare contro le mura di Roma calarono da prima alcuni militi in un acquidotto prosciugato sul cominciar della guerra: or questi con lumi e fiaccole in mano procedevano lungo quella via in traccia d’una entrata nella città, quando per tal apertura, di cui andavano fornita la volta non lunge dalla Porta Pinciana, una delle costei guardie al vedere l’insolito chiarore narrò la cosa ai compagni, i quali, poichè la fabbrica del canale non elevavasi da terra, congetturarono essersi gli occhi di lui avvenuti a quelli di un lupo, scintillanti come fuoco, nel mentre che questo passava di là. I barbari intanto pel sotterraneo sentiero pervenuti nel mezzo dell’abitato, dove appunto riscontravatasi cert’antica uscita vicino allo stesso palazzo, diedero in un artefatto ostacolo, di guisa che non v’era modo né di proceder oltre, né di salir suso; e questo provvedimento con saggio consiglio fu ordinato da Belisario al principiar dell’assedio, come io scrivea nell’antecedente libro. Queglino adunque cavatavi una pietra stabiliscono di retrocedere, e tornati da Vitige gliela mostrano coll’esatta riferta del luogo ov’essa giacea; e il re consulta coi principali de’ Gotti intorno alle ordite insidie. Il dì vegnente caduto di nuovo il discorso tra le guardie della porta Pinciana sul sospetto del lupo e giuntane la voce all’orecchio del condottiero, questi vi ferma la sua attenzione, e tosto comanda che i più coraggiosi guerrieri dell’esercito con Diogene sua lancia interninsi nell’acquidotto per eseguirvi prontamente diligentissime ricerche. In effetto costoro tratto tratto rincontrano per quella sotterranea via le gocciolature delle lucerne, le smoccolature delle fiaccole nemiche, e fin anche il luogo donde i Gotti aveano svelta la pietra; dopo di che fannosi indietro. Il duce, com’ebbe udito la riferta, guernì l’acquidotto di valenti guerrieri, ma gli altri, avutone qualche indizio, ritrassersi dalla sventata impresa.
II. I barbari quindi risolverono di assalire apertamente le mura, e scelta l’ora del pranzo dirigonsi verso la porta Pinciana all’imprevista degli assediati, e muniti di scale e fuoco, tutti ricolmi di speranza che piglierebbono al primo attacco la città, non avendovi da quella banda forte difesa. Ma Ildigero quivi di guardia co’ suoi (toccando per turno quella fazione ad ognuno dei duci) non appena ebbeli veduti inoltrare disordinatamente, va loro incontro e li combatte così appunto com’erano alla rinfusa in marcia, nè dura fatica a sbaragliarli e farne strage. Da ciò nacquero, nè è raro il caso, grida e tumulti entro le mura, al che i Romani accorsero da ogni parte a ributtarne gli assalitori, ed i vinti non guari dopo colle trombe nel sacco retrocedettero ai loro campi. Vitige appigliossi ancora una volta alla frode per dare il guasto a Roma, essendone facilissima da quivi l’espugnazione in causa della molta sua vicinanza alle ripe del Tevere. Conciossiachè gli antichi Romani, fidatisi nell’ostacolo intramesso dal fiume, aveanvi fabbricato con tanta negligenza le mura, che bassissime le vedevi e del tutto sguernite di torri. E tanto più nutrivano lusinga di impossessarsene con ogni agevolezza, in quanto che guardate da scarso numero di gente. Il re gotto adunque persuasissimo della impresa instigò con danaro due Romani domiciliati presso il tempio dell’apostolo Pietro a visitare dopo il tramonto, portando un’otre piena di vino, i custodi là di stanza, ed a mescere loro con ogni mostra di sincera amicizia; nè ancor paghi passino assisi insieme la notte in beverie, versando nel bicchiere ad ognuno di essi il sonnifero da lui avuto. Intanto dall’opposta riva egli teneva già in pronto i guscii per tragittarvi sopra, non appena le guardie fossero vinte dal sonno, turba di barbari forniti di scale e d’ogni altra occorrenza per venire alla espugnazione delle mura. Attelò eziandio l’esercito colla mente di valersene poscia ad occupare l’intiera città. Ora volendo il Nume che i Romani andassero liberi da tanto sinistro fe’ sì che l’uno degli imbecherati da Vitige col danaro ad appianargli la via al tradimento corresse di per sè ad appalesare la trama a Belisario, senza perdonarla neppure al compagno, il quale messo alla tortura disvelò quanto da lui attendevasi, ed insieme trasse fuori il narcotico avuto dal re. In pena del tradimento il duce fattogli mozzare il naso e le orecchie e postolo su d’un asino mandollo al campo nemico; dove giunto i Gotti ben compresero che Iddio opponevasi ai loro disegni, e che vano riuscirebbe mai sempre ogni conato per impadronirsi di Roma.