Istoria delle guerre gottiche/Libro terzo/Capo XVII

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CAPO XVII.

Orazione de’ romani cittadini ai duci, posta sulle labbra loro dalla fame; descrizione della costei rabbiosa forza.

I. Pelagio terminate queste cose pigliò commiato, ed i Romani vedutolo di ritorno privo affatto di consolanti nuove cominciarono a vie più attristarsi, e la fame con quella sua crescente possa erane il maggior tormento; la truppa avea tuttavia qualche vittuaglia di che alimentarsi. Laonde i Romani in frotta presentaronsi agli imperiali duci, Bessa e Conone, e tra’ singulti e lagrime adoperavano commoverli con tale orazione: «Ci rimiriamo sino ad ora in tali miserie, o duci, che sebbene addivenissimo a voi stessi ingiuriosi non potremmo per ciò meritar titolo di colpevoli, gli estremi bisogni formando la miglior delle scuse. Giunti a non poterci aiutar più di per noi ci facciamo al vostro cospetto per esprimervi con parole e pianti le nostre calamità; ascoltateci dunque benignamente, [p. 338 modifica]nè vi turbi l’audacia del nostro dire, sibbene ponderate da essa la gravezza de’ mali che duriamo, l’inevitabile disperazione della salute togliendo l’attitudine di moderare azioni e parole. Considerate, se vi piace, o duci, non essere noi più Romani, non aver con voi schiatta e civili istituzioni comuni, nè di proprio arbitrio avere accolto in città le prime truppe di Cesare; ma che da principio vostri nemici, e quindi, impugnate le armi contro di voi, superati in campo, fummo ridotti per guerresco diritto al servaggio. Somministrate dunque ai vostri prigionieri vittuaglia, e se non quanta suole averne di consueto la vita ed a sufficienza per essa, almeno il bastevole a prolungarne comunque la durata; acciocchè superstiti vi possiamo rispettare, come vuolsi praticato da servi co’ loro padroni. Che se forniti del buon volere ne opinate malagevole d’assai esecuzione ridonateci la libertà, cansando così la briga di dare a vostri prigioni sepoltura. Se poi neppur questo a noi è concesso sperare, vi domandiamo in grazia almeno la morte; consentite che poniamo onesto fine alla vita, non invidiandoci un dolce trapasso: liberate di colpo noi miseri dalle nostre immense sciagure.» Bessa posto orecchio alle costoro suppliche rispose non essere in potere suo il fornirli d’annona, giudicare empietà l’ucciderli, e pericoloso il farli partire. Assicurolli nondimeno che perverrebbe tra poco Belisario con tutto l’esercito spedito da Bizanzio, e con sì belle consolazioni diede a tutti licenza.

II. La fame intanto col lungo temporeggiare [p. 339 modifica]addivenuta più forte adduceva grandi mali aescando ben anche ad usare di cibi abborriti dall’universale e dalla umana natura. Bessa e Conone poi comandanti del romano presidio erano i primi a fare gran mercato cogli opulenti cittadini di tutto il frumento che in molta copia aveano ascoso entro le mura di Roma, e la truppa imitavali vendendo a carissimo prezzo anch’essa il poco che detraeva dal suo giornaliero vitto. A tale in breve eransi le cose che per l’acquisto d’un medinno1 di grano voleanvi fin sette aurei; laonde quelli di minore fortuna, incapaci di sostentarsi a sì caro prezzo, comperato ad un quarto dell’esposto valore un medinno di crusca sel trangugiavano, la necessità fornendo squisitissimo condimento a così fatto cibo. I brocchieri di Bessa in tal loro scorribanda impadronitisi d’un bue il venderono ai Romani per cinquanta aurei; se un morto cavallo od altro che di simigliante capitava là entro il compratore tenevasi fortunatissimo, di quelle carni potendo torre una satolla. La plebe sostentava sua vita con sole ortiche a dovizia germoglianti da per tutto intorno a quelle mura e tra le muricce in esse deposte; ed acciocchè dall’afrezza loro non ne avessero molestia le labbra e le fauci, mangiavanle dopo molta cottura. Di tal guisa, con tutta verità come per noi è detto, i Romani, compro frumento e crusca, tornati nelle proprie abitazioni menaron lor vita sino a che furono possessori di aurei; ma toccatone il fondo vidersi costretti a far mercato d’ogni maniera di suppelletili, [p. 340 modifica]esponendole nel pubblico foro, all’uopo di procacciarsi le giornaliere bisogne. Da sezzo ridotte anch’elleno le imperiali truppe a tale da non poter più dividere coi cittadini il frumento, rimasone ben poco al solo Bessa, e divenute con ciò prive d’ogni vittuaglia, ebbero anch’esse ricorso alle ortiche. Da poi mancato pur questo cibo nè avendovi più mezzo di attutare il ventre, molti estenuati di forze, al tutto scarni le membra, e per cumulo spogliati a poco a poco del naturale colore, per vestirne quello del piombo, ti si appresentavano simigliantissimi a fantasmi. Altri nel camminare e nel frangere co’ denti le crude erbe cadevano d’improvviso spenti. Alcuni di già a vicenda nutrivavansi collo sterco, nè pochi, furenti per la diffalta di cibo, si mordeano le membra, scomparsi affatto essendo e cani e topi ed altri animali comunque da sbramare la fame. In tanta calamità un Romano, padre di cinque fanciulli, sentendosi da costoro scuotere la veste chiedendogli pane, senza dar lagrima, od esprimere altro segno di perturbamento, soffocando tutta l’ambascia nel fondo del suo cuore, invitolli a seguirlo come che volesse compierne i desiderj; fattosi in cambio ad un ponte del Tevere, e portata la veste al capo per velarsi con essa gli occhi, si precipitò giù nelle acque in presenza di quegli infelici e di parecchi cittadini quivi raccolti. I cesariani duci allora accordarono, strappando empiamente denaro, di abbandonare quelle mura a chiunque ne richiedeva, e ad eccezione di ben pochi tutto il resto degli abitatori campò ov’ebbe agio migliore, se non che moltissimi de’ fuggenti, perduto, [p. 341 modifica]colpa la fame, il vigor del corpo, nella stessa navigazione o nel viaggio terrestre furon colti da morte; gran numero altresì di essi tra via caduti nelle mani de’ nemici ebbero l’egual fine. A così tremendi estremi volle il fato ridotti e senato e popolo romano.

Note

  1. Misura di sei moggi, un sestiero, e sei once.