Istoria delle guerre gottiche/Libro terzo/Capo XXXIV

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CAPO XXXIV.

Nata discordia tra’ Gepidi e Longobardi ambo procacciansi con ambasceria la protezione di Giustiniano. — Questi manda aiuti ai Longobardi. Riconciliazione dei prefati barbari.

I. Scompartivansi già i barbari l’imperio quando, surta gravissima contesa tra’ confinanti Gepidi e Longobardi, accesi entrambi da veementissimo desiderio di scambievole guerra stabilito aveano il giorno di venire alle armi. Se non che i Longobardi sapendosi da soli inferiori di numero al nemico si proposero indurre i Romani a strigner lega seco. Gli altri parimente risolverono chiedere a Bizanzio per diritto di confederazione, come in realtà era il caso, o che seco loro partecipasse il cimento, o si rimanesse neutrale non pigliando a proteggere alcuna delle parti. Erano pertanto le due fazioni, spedite ambascerie a Giustiniano Augusto, in grandissima speranza di soccorso. Di quel tempo Torisino [p. 402 modifica]capitanava i Gepidi, Auduino i Longobardi. L’imperatore volendo porgere ai legati delle due genti orecchio ordinò venissero gli uni dopo gli altri al suo cospetto. I Longobardi, primi ad essergli presentati, così a un di presso orarono: «Ci facciamo ben grande maraviglia, o imperatore, della ridicola insolenza dei Gepidi, i quali dopo tanti e sì gravi danni apportati ai Romani osano tuttavia comparire al tuo trono per offenderti colla massima delle superchierie. Imperciocchè opera con somma indegnità e sfrenatezza verso i prossimani chiunque estimandoli assai facili a dar nella frode, nè contento di averli già iniquamente oltraggiati cerca di nuovo sorprenderli per vie più abusare della bontà loro. Ad un che solo di grazia poni mente, e sia come i Gepidi comportinsi nell’amicizia, e con tale considerazione provvederai del miglior modo alle cose tue, potendo mai sempre i mortali dal passato conghietturare giustamente l’avvenire. Che se costoro fossersi appalesati perfidi con altra gente qualunque occorrerebbonci ora, bramosi di chiarirne gli animi e le consuetudini, e prolissi discorsi e luogo tempo ed estrarne testimonianze, ma voi stessi ne fornite un fresco esempio. In epoca anteriore alla nostra, quando i Gotti aveansi tributaria la Dacia, tutti i Gepidi da pezza abitatori di là dall’Istro si paventavanne la potenza che mai osarono valicare il fiume, ed in allora confederati e benivoglienti de’ Romani aveansi ogni anno sotto velo di amicizia moltissimi doni così dagli spenti imperatori come da te al paro di essi liberale. Qui volentieri domanderemmo loro in che mai [p. 403 modifica]per cotanti beneficii abbiano giovato a chi n’era la fonte? In nulla per Dio, è uopo siane la risposta; in nulla ripetiamo, nè in grandi, nè in piccole cose! Finchè non vidersi in istato d’offendervi si moderarono anzi dalla necessità che dal volere infrenati, conciossiachè voi pochissimo vi curavate della regione oltre il fiume, e dal paese di qua venivano dalla tema dei Gotti allontanati. Ora direm noi gratitudine la impotenza di nuocere? e quale sarà la fermezza d’un’amicizia avente quest’unica base? Molto diversamente, o imperatore, sì molto diversamente va la bisogna, al solo potere è concesso di svelare il cuor dell’uomo, e se desso a noi inchinevole o contrario; il libero arbitrio delle azioni mettendo affatto in piena luce i suoi occulti pensamenti, ed eccotene la pruova: i Gepidi non appena videro scacciati i Gotti da tutta la Dacia e voi dalla guerra impediti pigliarono ad assalire iniquamente da ogni banda il vostro dominio; scelleraggine che non sapremmo esprimere colla voce! Ei non insultarono di questo modo all’imperio tuo? Non ebbero violate le leggi regolatrici della società e delle confederazioni? Non ischernito coloro che doveano compiutamente rispettare? Non dichiararonsi contro all’imperiale maestà, cui si recherebbon a gloria di servire, dato a lei un che di riposo per guerreggiarli? I Gepidi, o imperatore, sono padroni di Sirmio, fanno schiavi i Romani, e millantansi di voler conquistare tutta la Dacia. Qual certame in fine sostennero essi per voi o con voi, o qual vittoria mai s’ebbero combattendo contro a voi per riceverne in premio quella regione? E [p. 404 modifica]tutto questo egli compierono dopo ottenuti dalla vostra liberalità frequenti stipendj, e per sì lungo tempo, che non c’è dato esporne il periodo, tanto danaro! Nulla più iniquamente adunque di tale ambasceria fo intrapreso da che il mondo è mondo. Imperocchè non appena conosciuti i nostri guerreschi apprestamenti contro di loro eccoli di furia venire a Bizanzio, e presentarsi ad un imperatore con tanta indegnità offeso. Nè forse andremmo errati profferendo che vi solleciteranno con una impudenza di cui null’altra maggiore a strignervi in lega seco per combattere noi sì affezionati alle cose vostre; ove poi qui fossero col proposito di restituire l’ingiustamente usurpato, i Romani dovranno attribuire in fe’ nostra il principale stimolo del pentimento loro e di questa più sana risoluzione ai Longobardi, dal cui timore costretti, avvegnachè a malincorpo e tardi, ravvedonsi tuttavia; nè v’ha a ridire che al beneficato corra obbligo di gratitudine verso chi al beneficio fu d’incitamento. Ma se rimangonsi ancora ostinati a non voler cedere il mal tolto, di qual più nefanda azione potrebbero cadere in colpa? Noi abbiamo detto quanto era uopo con barbarica semplicità, non facendo pompa di parole, di eloquenza, e di quel grave stile che sarebbe convenuto all’argomento; sovvieni tu adunque, o imperatore, col riandare attentamente l’udito, al difetto della nostra diceria più breve forse di quanto addimandano le circostanze, e provvedi agli interessi romani e longobardi, rammentandoti al postutto che i tuoi sudditi addiverranno a buon diritto nostri confederati, professando noi l’egual credenza [p. 405 modifica]intorno alla divinità, ed impugneranno volonterosi le armi, in virtù dello stesso nome, contro a genti ariane.»

II. Tale si fu l’orazione de’ Longobardi. Col dì vegnente introdotti, alla presenza di Giustiniano gli ambasciadori gepidi così parlamentarono: «Coloro che portansi dai vicini, o imperatore, per invitarli a far lega seco è mestieri innanzi tutto provino giuste ed utili ai futuri confederati le proprie domande, nè altrimenti svolgano il motivo di lor mandata. Or dunque è di per sè abbastanza chiaro essere noi gli oltraggiati dai Longobardi, conciossiachè vogliosi noi di metter fine con pratiche alle contese, non addicendosi le armi ove sortir possano pieno effetto i compromessi, eglino costantemente vi si rifiutarono. Che i Gepidi a simile per numero e valore di gran lunga superino i Longobardi chi saravvi mai, tra quanti hanno contezza di entrambi, che osi negarlo? Domin, perchè mai c’indurremo a credere avervi mortale, di quantunque mediocre levatura ei vada fornito, che ove non pericolante conseguir possa la vittoria tenendosi dal più forte, ami meglio correre un manifesto risico parteggiando col meno potente! Noi di più nelle future guerre vi saremo aiutatori avendovi grandissimo obbligo dell’operato a pro nostro, e con esercito poderoso vi appianeremo, come vuol giustizia, il cammino alla vittoria. È uopo a simile poniate mente al breve periodo che vi lega in amicizia con essi, quando per lo contrario passa tra voi ed i Gepidi una inveterata famigliarità ed affratellanza, nè v’ha opposizione che le amistadi raffermate da lunghissimo tempo durino [p. 406 modifica]maggior fatica a venir meno. Laonde vivete pur certi che troverete in noi forti e costanti compagni; mercè di che vi farete meritamente nostri confederati. Osservate poi di qual tempera sieno i Longobardi: pieni di sconsigliato ardimento non voglion sapere di arbitri, avvegnachè spesso da noi stimolati, nella composizione delle nostre discordie; ma ora che la guerra è sullo scoppiare, paventandone la riuscita, certi della propria debolezza s’appresentano a voi con preghiera di armarvi, contr’ogni equità, a favor loro, nè vergognansi questi predatori di addurre che e Sirmio ed altri luoghi della Tracia dannovi pieno diritto ad una lega seco; quando l’imperio tuo va sì ricco di città e provincie da esserti forza trovar genti disposte ad abitarne qualche parte, siccome possono testimoniare i Franchi, gli Eruli e gli stessi Longobardi cui assegnasti e cittadi e paese in tanta copia che indarno ci occuperemmo rintracciarne appunto. Noi Gepidi poi, tutti fiducia nella tua amicizia, quanto bramavi eseguimmo, fermi nella persuasione che l’uomo voglioso di alleviarsi del soperchio suo donandolo, provi diletto maggiore nell’essere antivenuto da chi entra spontaneamente in possesso del dono per viva credenza di speciale affetto, non già per ischerno, che nel vedersi obbligato d’inviarne l’offerta, e tale appunto i Gepidi si comportarono co’ Romani. Or dunque sottopostevi cosiffatte osservazioni vi preghiamo per diritto sociale che assaliate con tutte le vostre forze ed unitamente a noi i Longobardi, o pure vi dichiariate con entrambi neutrali, ed appigliandovi [p. 407 modifica]all’una delle proposte opererete secondo giustizia ed i vantaggi del romano impero.»

III. Così perorato dai Gepidi l’imperatore dopo lunghe deliberazioni accommiatolli celando loro i suoi divisamenti, e legatosi co’ Longobardi spedì a quella volta più che diecimila cavalieri co’ duci Constanziano, Buze ed Arazio. Vi si unì pure Giovanni, prole d’una sorella di Vitaliano, ordinatogli da Augusto che non appena terminata la guerra conducesse nuovamente sue truppe in Italia, donde erasi partito; seguivanlo poi mille e cinquecento Eruli confederati, de’ quali era condottiero Filemuto, nè aveanvene di più, tenendo tutti gli altri, di numero tremila, dai Gepidi, non molto prima ribellatisi dai Romani sotto pretesti altrove da me riferiti. Quindi gli imperiali favoreggiatori de’ Longobardi avvennersi d’improvviso alla oste degli Eruli capitanata da Aordo fratello del re, ed impugnate coraggiosamente le armi n’hanno vittoria dopo spenti molti nemici ed anche lo stesso lor duce. I Gepidi avvertiti del prossimo arrivo de’ Romani, troncato l’alterco si rappattumarono co’ Longobardi a malincorpo de’ confederati, i quali a tale annunzio n’ebbero grande attristamento; imperciocchè i duci non sapeansi risolvere nè a proceder oltre, nè a tornare indietro per tema non costoro e gli Eruli dessero unitamente con una scorribanda guasto all’Illirico. Alla fin fine posto ivi stesso il campo mandarono significando all’imperatore come si stessero le cose: tanto avvenne colà, ed io proseguo la mia narrazione.