Istorie fiorentine/Libro quarto/Capitolo 28

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Libro quarto

Capitolo 28

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Queste parole raffrenorono alquanto lo animo del Barbadoro, in modo che le cose stettono quiete quanto durò la guerra di Lucca; ma seguita la pace, e con quella la morte di Niccolò da Uzano, rimase la città sanza guerra e sanza freno. Donde che sanza alcuno rispetto crebbono i malvagi umori; e messer Rinaldo, parendogli essere rimaso solo principe della Parte, non cessava di pregare e infestare tutti i cittadini i quali credeva potessero essere gonfalonieri, che si armassero a liberare la patria di quello uomo che di necessità, per la malignità di pochi e per la ignoranza di molti, la conduceva in servitù. Questi modi tenuti da messer Rinaldo, e quelli di coloro che favorivano la parte avversa, tenevano la città piena di sospetto; e qualunque volta si creava uno magistrato, si diceva publicamente quanti dell’una e quanti dell’altra parte vi sedevano; e nella tratta de’ Signori stava tutta la città sollevata. Ogni caso che veniva davanti a’ magistrati, ancora che minimo, si riduceva fra loro in gara; i secreti si publicavano; così il bene come il male si favoriva e disfavoriva; i buoni come i cattivi ugualmente erano lacerati; niuno magistrato faceva l’ufizio suo. Stando adunque Firenze in questa confusione, e messer Rinaldo in quella voglia di abbassare la potenza di Cosimo, e sapendo come Bernardo Guadagni poteva essere gonfaloniere, pagò le sue gravezze, acciò che il debito publico non gli togliesse quel grado. Venutosi di poi alla tratta de’ Signori, fece la fortuna, amica alle discordie nostre, che Bernardo fu tratto gonfalonieri per sedere il settembre e l’ottobre. Il quale messer Rinaldo andò subito a vicitare, e gli disse quanto la parte de’ nobili e qualunque desiderava bene vivere si era rallegrato per essere lui pervenuto a quella dignità; e che a lui si apparteneva operare in modo che non si fussero rallegrati invano. Mostrogli di poi i pericoli che nella disunione si correvono, e come non era altro rimedio alla unione, che spegnere Cosimo; perché solo quello, per i favori che da le immoderate sue ricchezze nascevano, gli teneva infermi; e che si era condotto tanto alto che, se e’ non vi si provedeva, ne diventerebbe principe; e come ad uno buono cittadino s’apparteneva rimediarvi, chiamare il popolo in Piazza, ripigliare lo stato, per rendere alla patria la sua libertà. Ricordogli che messer Salvestro de’ Medici potette ingiustamente frenare la grandezza de’ Guelfi, a’ quali, per il sangue dai loro antichi sparso, si apparteneva il governo; e che quello ch’egli fare contro a tanti ingiustamente potette, potrebbe bene fare esso, giustamente, contro ad uno solo. Confortollo a non temere, perché gli amici con le armi sarebbono presti per aiutarlo; e della plebe che lo adorava non tenessi conto, perché non trarrebbe Cosimo da lei altri favori che si traessi già messer Giorgio Scali; né delle sue ricchezze dubitasse, perché quando fia in podestà de’ Signori, le saranno loro, e conclusegli che questo fatto farebbe la republica secura e unita, e lui glorioso. Alle quali parole Bernardo rispose brevemente, come giudicava cosa necessaria fare quanto egli diceva; e perché il tempo era da spenderlo in operare, attendessi a prepararsi con le forze, per essere presto, persuaso che gli avesse i compagni. Preso che ebbe Bernardo il magistrato, disposti i compagni e convenuto con messer Rinaldo, citò Cosimo, il quale, ancora che ne fusse da molti amici sconfortato comparì, confidatosi più nella innocenzia sua che nella misericordia de’ Signori. Come Cosimo fu in Palagio, e sostenuto, messer Rinaldo con molti armati uscì di casa, e apresso a quello tutta la Parte, e ne vennono in Piazza, dove i Signori feciono chiamare il popolo, e creorono dugento uomini di balia per riformare lo stato della città. Nella quale balia, come prima si potette, si trattò della riforma, e della vita e della morte di Cosimo. Molti volevono che fusse mandato in esilio; molti morto; molti altri tacevano, o per compassione di lui o per paura di loro. I quali dispareri non lasciavano concludere alcuna cosa.