Istorie fiorentine/Libro quarto/Capitolo 30

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Libro quarto

Capitolo 30

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Rimasa Firenze vedova d’uno tanto cittadino e tanto universalmente amato, era ciascuno sbigottito; e parimente quelli che avevano vinto e quelli che erano vinti temevano. Donde che messer Rinaldo, dubitando del suo futuro male, per non mancare a sé e alla Parte, ragunati molti cittadini amici, disse a quelli che vedeva apparecchiata la rovina loro, per essersi lasciati vincere da’ prieghi, dalle lagrime e da’ danari de’ loro nimici. E non si accorgevono che poco di poi aranno a pregare e piagnere eglino, e che i loro prieghi non saranno uditi, e delle loro lagrime non troverranno chi abbia compassione: e de’ danari presi restituiranno il capitale e pagheranno l’usura con tormenti, morte ed esili. E che gli era molto meglio essersi stati, che avere lasciato Cosimo in vita e gli amici suoi in Firenze; perché gli uomini grandi o e’ non si hanno a toccare o, tocchi, a spegnere. Né ci vedeva altro rimedio che farsi forti nella città, acciò che, risentendosi e nimici, che si risentirieno presto, si potesse cacciarli con le armi, poi che con i modi civili non se ne erano potuti mandare. E che il rimedio era quello che molto tempo innanzi aveva ricordato: di riguadagnarsi i Grandi, rendendo e concedendo loro tutti gli onori della città, e farsi forte con questa parte, poi che i loro avversarii si erano fatti forti con la plebe. E come, per questo, la parte loro sarebbe più gagliarda, quanto in quella sarebbe più vita, più virtù, più animo e più credito; affermando che, se questo ultimo e vero rimedio non si pigliava, non vedeva con quale altro modo si potesse conservare uno stato infra tanti nimici, e cognosceva una propinqua rovina della parte loro e della città. A che Mariotto Baldovinetti, uno de’ ragunati, si oppose, mostrando la superbia de’ Grandi e la natura loro insopportabile; e che non era da ricorrere sotto una certa tirannide loro, per fuggire i dubi pericoli della plebe. Donde che messer Rinaldo, veduto il suo consiglio non essere udito, si dolfe della sua sventura e di quella della sua parte, imputando ogni cosa più a’ cieli, che volevono così, che alla ignoranza e cecità degli uomini. Standosi la cosa adunque in questa maniera, sanza fare alcuna necessaria provisione, fu trovata una lettera scritta da messer Agnolo Acciaiuoli a Cosimo, la quale gli mostrava la disposizione della città verso di lui, e lo confortava a fare che si movesse qualche guerra, e a farsi amico Neri di Gino; perché giudicava, come la città avesse bisogno di danari, non si troverebbe chi la servisse, e verrebbe la memoria sua a rinfrescarsi ne’ cittadini e il desiderio di farlo ritornare, e se Neri si smembrasse da messer Rinaldo, quella parte indebolirebbe tanto che la non sarebbe sufficiente a defendersi. Questa lettera, venuta nelle mani de’ magistrati, fu cagione che messer Agnolo fusse preso, collato e mandato in esilio. Né per tale esemplo si frenò in alcuna parte l’umore che favoriva Cosimo. Era di già girato quasi che l’anno dal dì che Cosimo era stato cacciato, e venendo il fine di agosto 1434, fu tratto gonfalonieri per i duoi mesi futuri Niccolò di Cocco, e con quello otto Signori tutti partigiani di Cosimo; di modo che tale Signoria spaventò messer Rinaldo e tutta la sua parte. E perché avanti che i Signori prendino il magistrato eglino stanno tre giorni privati, messer Rinaldo fu di nuovo con i capi della parte sua; e mostrò loro il certo e propinquo periculo e che il rimedio era pigliare le armi e fare che Donato Velluti, il quale allora sedeva gonfalonieri, ragunasse il popolo in Piazza, facesse nuova balia, privasse i nuovi Signori del magistrato, e se ne creasse de’ nuovi, a proposito dello stato, e si ardessero le borse e con nuovi squittini, si riempiessero di amici. Questo partito da molti era giudicato sicuro e necessario, da molti altri troppo violento e da tirarsi dreto troppo carico. E intra quelli a chi e’ dispiacque fu messer Palla Strozzi, il quale era uomo quieto, gentile e umano, e più tosto atto agli studi delle lettere che a frenare una parte e opporsi alle civili discordie. E però disse che i partiti o astuti o audaci paiono nel principio buoni, ma riescono poi nel trattargli difficili, e nel finirgli dannosi; e che credeva che il timore delle nuove guerre di fuori, sendo le genti del Duca in Romagna sopra i confini nostri, farebbe che i Signori penserebbero più a quelle che alle discordie di dentro; pure, quando si vedesse che volessero alterare (il che non potevono fare che non si intendesse) sempre si sarebbe a tempo a pigliare le armi ed esequire quanto paresse necessario per la salute comune; il che faccendosi per necessità, seguirebbe con meno ammirazione del popolo e meno carico loro. Fu per tanto concluso che si lasciassero entrare i nuovi Signori e che si vigilassero i loro andamenti, e quando si sentisse cosa alcuna contro alla Parte, ciascuno pigliasse l’armi e convenisse alla piazza di San Pulinari luogo propinquo al Palagio, donde potrebbero poi condursi dove paresse loro necessario.