Istorie fiorentine/Libro quinto/Capitolo 21

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Libro quinto

Capitolo 21

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Partì adunque Neri da Cesena, e sopra una barca si condusse a Vinegia. Né fu mai alcuno principe con tanto onore ricevuto da quella Signoria, con quanto fu ricevuto egli; perché dalla venuta sua, e da quello che per suo mezzo si aveva a deliberare e ordinare giudicavano avesse a dependere la salute dello imperio loro. Intromesso adunque Neri al Senato, parlò in questa sentenza: - Quelli miei Signori, Serenissimo Principe, furono sempre di opinione che la grandezza del Duca fusse la rovina di questo stato e della loro republica; e così che la salute d’ambiduoi questi stati fusse la grandezza vostra e nostra. Se questo medesimo fusse stato creduto dalle Signorie Vostre, noi ci troverremmo in migliore condizione, e lo stato vostro sarebbe securo da quelli pericoli che ora lo minacciano. Ma perché ne’ tempi che voi dovevi non ci avete prestato né aiuto né fede, noi non abbiamo potuto correre presto a’ remedi del male vostro; né voi potesti essere pronti al dimandargli, come quelli che nelle prosperità e nelle avversità vostre ci avete poco cognosciuti, e non sapete che noi siamo in modo fatti che quello che noi amammo una volta sempre amiamo, e quello che noi odiammo una volta sempre odiamo. Lo amore che noi abbiamo portato a questa vostra Serenissima Signoria voi medesimi lo sapete, che più volte avete veduto, per soccorrervi, ripiena di nostri danari e di nostre genti la Lombardia; l’odio che noi portiamo a Filippo, e quello che sempre portammo alla casa sua, lo sa tutto il mondo; né è possibile che uno amore o uno odio antico per nuovi meriti o per nuove offese facilmente si cancelli. Noi savamo e siamo certi che in questa guerra ci potavamo stare di mezzo, con grado grande con il Duca e con non molto timore nostro; perché, se bene e’ fusse con la rovina vostra diventato signore di Lombardia, ci restava in Italia tanto del vivo che noi non avavamo a disperarci della salute; perché, accrescendo potenza e stato, si accresce ancora nimicizie e invidia; dalle quali cose suole di poi nascere guerra e danno. Cognosciavamo ancora quanta spesa, fuggendo le presenti guerre, fuggiavamo; quanti imminenti pericoli si evitavano; e come questa guerra che ora è in Lombardia, movendoci noi, si potrebbe ridurre in Toscana. Non di meno tutti questi sospetti sono stati da una antica affezione verso di questo stato cancellati; e abbiamo deliberato con quella medesima prontezza soccorrere lo stato vostro, che noi soccorreremmo il nostro quando fusse assalito. Per ciò i miei Signori, giudicando che fusse necessario, prima che ogni altra cosa, soccorrere Verona e Brescia, e giudicando sanza il Conte non si potere fare questo, mi mandorono prima a persuadere quello al passare in Lombardia e a fare la guerra in ogni luogo (ché sapete che non è al passare del Po obligato): il quale io disposi, movendolo con quelle ragioni che noi medesimi ci moviamo. Ed egli, come gli pare essere invincibile con le armi, non vuole ancora essere vinto di cortesia, e quella liberalità che vede usare a noi verso di voi egli l’ha voluta superare; perché sa bene in quanti pericoli rimane la Toscana dopo la partita sua, e veggendo che noi abbiamo posposto alla salute vostra i pericoli nostri, ha voluto ancora egli posporre a quella i respetti suoi. Io vengo adunque a offerirvi il Conte con sette mila cavagli e dumila fanti, parato ad ire a trovare il nimico in ogni luogo. Pregovi bene, e così i miei Signori ed egli vi pregono, che, come il numero delle genti sue trapassa quelle con le quali per obligo debbe servire, che voi ancora con la vostra liberalità lo ricompensiate, acciò che quello non si penta di essere venuto a’ servizi vostri, e noi non ci pentiamo di avernelo confortato -. Fu il parlare di Neri da quel Senato non con altra attenzione udito che si farebbe un oracolo, e tanto si accesono gli uditori per le sue parole, che non furono pazienti che il Principe, secondo la consuetudine, rispondesse, ma levati in piè, con le mani alzate, lagrimando in maggiore parte di loro, ringraziavano i Fiorentini di sì amorevole uffizio, e lui di averlo con tanta diligenzia e celerità esequito; e promettevano che mai per alcun tempo, non che de’ cuori loro, ma di quelli de’ descendenti loro non si cancellerebbe, e che quella patria aveva sempre ad essere comune a’ Fiorentini e a loro.