Istorie fiorentine/Libro sesto/Capitolo 33

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Libro sesto

Capitolo 33

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Sendo adunque seguita questa pace universale, si temeva solo che il re Alfonso, per la nimicizia aveva con i Genovesi, non la turbasse, ma il fatto andò altrimenti, perché, non da il Re apertamente, ma, come sempre per lo addietro era intervenuto, dalla ambizione de’ soldati mercennari fu turbata. Avevono i Viniziani, come è costume, fatta la pace, licenziato da’ loro soldi Iacopo Piccinino loro condottiere; con il quale aggiuntosi alcuni altri condottieri sanza partito, passarono in Romagna, e di quindi nel Sanese, dove fermatosi, Iacopo mosse loro guerra, e occupò a’ Sanesi alcune terre. Nel principio di questi moti, e al cominciamento dello anno 1455, morì papa Niccola, e a lui fu eletto successore Calisto III. Questo pontefice, per reprimere la nuova e vicina guerra, subito sotto Giovanni Ventimiglia suo capitano ragunò quanta più gente potette, e quelle, con gente de’ Fiorentini e del Duca, i quali ancora a reprimere questi moti erano concorsi, mandò contro a Iacopo. E venuti alla zuffa propinqui a Bolsena, non ostante che il Ventimiglia restasse prigione, Iacopo ne rimase perdente, e come rotto a Castiglione della Pescaia si ridusse; e se non fusse stato da Alfonso suvvenuto di danari, vi rimaneva al tutto disfatto. La qual cosa fece a ciascuno credere questo moto di Iacopo essere per ordine di quello re seguito; in modo che, parendo ad Alfonso di essere scoperto, per riconciliarsi i collegati con la pace, che si aveva con questa debile guerra quasi che alienati, operò che Iacopo restituisse a’ Sanesi le terre occupate loro, e quelli gli dessino ventimila fiorini; e fatto questo accordo, ricevé Iacopo e le sue genti nel Regno. In questi tempi, ancora che il Papa pensasse a frenare Iacopo Piccinino, non di meno non mancò di ordinarsi a potere suvvenire alla cristianità, che si vedeva che era per essere dai Turchi oppressata; e per ciò mandò per tutte le provincie cristiane oratori e predicatori, a persuadere ai principi e ai popoli che si armassero in favore della loro religione e con danari e con la persona la impresa contro al comune nimico di quella favorissero. Tanto che in Firenze si ferono assai limosine, assai ancora si segnorono d’una croce rossa, per essere presti con la persona a quella guerra, fecionsi ancora solenne processioni, né si mancò, per il publico e per il privato, di mostrare di volere essere intra i primi cristiani, con il consiglio, con i danari e con gli uomini, a tale impresa. Ma questa caldezza della cruciata fu raffrenata alquanto da una nuova che venne, come, sendo il Turco con lo esercito suo intorno a Belgrado per espugnarlo, castello posto in Ungheria sopra il fiume del Danubio, era stato dagli Ungheri rotto e ferito. Talmente che, essendo nel Pontefice e ne’ cristiani cessata quella paura ch’ eglino avieno per la perdita di Gostantinopoli conceputa, si procedé nelle preparazioni che si facevano per la guerra più tepidamente; e in Ungheria medesimamente, per la morte di Giovanni Vaivoda, capitano di quella vittoria, raffreddorono.