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Istorie fiorentine/Libro settimo/Capitolo 33

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Libro settimo

Capitolo 33

../Capitolo 32 ../Capitolo 34 IncludiIntestazione 31 agosto 2009 75% Storia

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Mentre che queste cose ne’ modi sopra narrati tra il Re e il Papa e in Toscana si travagliavano, nacque in Lombardia uno accidente di maggiore momento e che fu presagio di maggiori mali. Insegnava in Milano la latina lingua a’ primi giovani di quella città Cola Montano, uomo litterato e ambizioso. Questo, o che gli avesse in odio la vita e costumi del Duca, o che pure altra cagione lo movesse, in tutti i suoi ragionamenti il vivere sotto un principe non buono detestava, gloriosi e felici chiamando quegli a’ quali di nascere e vivere in una republica aveva la natura e la fortuna conceduto; mostrando come tutti gli uomini famosi si erano nelle republiche e non sotto i principi nutriti; perché quelle nutriscono gli uomini virtuosi, e quegli gli spengono, facendo l’una profitto dell’altrui virtù, l’altra temendone. I giovani con chi egli aveva più familiarità presa erano Giovannandrea Lampognano, Carlo Visconti e Girolamo Olgiato. Con costoro più volte della pessima natura del Principe, della infelicità di chi era governato da quello ragionava; e in tanta confidenza dello animo e volontà di quegli giovani venne, che gli fece giurare che, come per la età e’ potessero, la loro patria dalla tirannide di quel principe libererebbono. Sendo ripieni adunque questi giovani di questo desiderio, il quale sempre con gli anni crebbe, i costumi e modi del Duca, e di più le particulari ingiurie contro a loro fatte, di farlo mandare ad effetto affrettorono. Era Galeazzo libidinoso e crudele, delle quali due cose gli spessi esempli lo avevono fatto odiosissimo; perché non solo non gli bastava corrompere le donne nobili, che prendeva ancora piacere di publicarle; né era contento fare morire gli uomini, se con qualche modo crudele non gli ammazzava. Non viveva ancora sanza infamia di avere morta la madre; perché, non gli parendo essere principe, presente quella, con lei in modo si governò, che le venne voglia di ritirarsi nella sua dotale sede a Cremona, nel quale viaggio, da subita malattia presa morì: donde molti giudicorono quella dal figliuolo essere stata fatta morire. Aveva questo duca, per via di donne, Carlo e Girolamo disonorati, e a Giovannandrea non aveva voluto la possessione della badia di Miramondo, stata ad un suo propinquo dal Pontefice resignata, concedere. Queste private ingiurie accrebbono la voglia a questi giovani, con il vendicarle, liberare la loro patria da tanti mali; sperando che, qualunque volta riuscisse loro lo ammazzarlo, di essere, non solamente da molti de’ nobili ma da tutto il popolo seguiti. Deliberatisi adunque a questa impresa, si trovavano spesso insieme; di che l’antica familiarità non dava alcuna ammirazione: ragionavano sempre di questa cosa, e per fermare più l’animo al fatto, con le guaine di quelli ferri ch’eglino avieno a quella opera destinati, ne’ fianchi e nel petto l’uno l’altro percotevono. Ragionorono del tempo e del loco: in Castello non pareva loro securo; a caccia, incerto e pericoloso; ne’ tempi che quello per la terra giva a spasso, difficile e non riuscibile; ne’ conviti, dubio. Per tanto deliberarono in qualche pompa e publica festivitate opprimerlo, dove fussero certi che venisse, ed eglino, sotto varii colori, vi potessero loro amici ragunare. Conclusono ancora che, sendo alcuno di loro per qualunque cagione dalla corte ritenuti, gli altri dovessero, per il mezzo del ferro e de’ nimici armati, ammazzarlo.